Rivista "IBC" XVII, 2009, 2
Dossier: Fermo immagine sulla pianura - 'Artisti e Territorio' (2006-2009)
territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /
Ci sono posti dove le cose sembrano accadere continuamente, posti dove appunto le cose che accadono ti scorrono davanti agli occhi e ti entrano nelle orecchie senza darti il tempo di distinguerle l'una dall'altra. Tutto vive, si muove, cambia e ti investe con forza. Questi posti sono certe città, forse tutte le città. Ognuna con il suo andamento, il suo particolare modo di ritmare palazzi e persone, automobili e insegne pubblicitarie. Tutte diverse, ma tutte frenetiche, tutte in movimento. Devastate dalle luci che si accendono e si spengono, dalle ferite che si aprono e si chiudono di colpo, per lasciarne affondare altre. Il tessuto delle città è molle e gonfio, spugnoso e pronto ad assorbire i cambiamenti, rapido a trasformarsi e deformarsi, come un organismo in decomposizione.
Poi ci sono posti dove le cose sembrano aver smesso di accadere da tanto di quel tempo che non è possibile nemmeno riuscire a immaginare quand'è stata l'ultima volta che qualcosa è successo proprio lì. Posti in cui solo le macchine che passano su strade lisce e uguali ti danno la sensazione che la vita ancora ci sia. Ma è una vita che passa, che non si ferma, che non sta lì.
Sono posti che sembrano emergere come sogni, come vapore che si alza dai campi.
Quei posti sono le campagne. La pianura. La nostra pianura emiliana. La pianura padana.
A volte - spesso - viene voglia di scappare, di correre là dove accadono tutte quelle cose e dove la vita non devi cercartela tu, ma è lei che ti si butta addosso, feroce e piena di voglie. Scappare e farsi sommergere dai rumori, dalle luci, dal casino.
Però, quando ce l'hai dentro, la pianura, non ti lascia andare tanto facilmente. Quell'orizzonte lontano, mai preso, che si sfuma al tramonto e che nell'alba appare come un miraggio offuscato dalle nebbie, è un paesaggio dell'anima. Se sei lontano, ti manca, ti manca quello sguardo lungo che riposa gli occhi, quella lentezza piatta e uguale che all'improvviso si apre in qualcosa di diverso e poi torna a dormire.
E poi, se la conosci, la pianura, lo sai che le cose accadono eccome. Non fanno rumore, sono discrete. E sono sparse un po' dappertutto. A volte - e sempre più spesso è così - le grandi città sono il nocciolo vitale attorno al quale ruotano territori neutri, sorta di dormitori alieni in cui solo il sonno succede.
Ma qui, in pianura, non c'è solo il sonno, anche se sembra così. A fare attenzione, di là dal sonno, dalla lentezza, si aprono dei sipari e ti appaiono delle visioni. Forse, a fare attenzione, le visioni si manifestano dappertutto, basta aver guardato abbastanza a lungo, o forse invece, è proprio nei luoghi dove si può stare fermi, dove le cose non si sovrappongono, che si può ancora riuscire a vedere.
Le visioni
Prima / Inverno
Tutto il giorno nebbia, non uno squarcio che si sia aperto a versare un lampo di conforto. Sole ghiacciato che compare solo per un attimo, poi il cielo si chiude sopra la città, si appoggia ai tetti delle case, al cranio pelato delle auto, alla schiena dei passanti.
Il pomeriggio è livido sulla campagna, al ritorno, ma la nebbia si è sciolta.
Il treno è rosso bianco e blu, la tratta, Bologna-Portomaggiore. Da quanto tempo esiste? Da quanto tempo questi pendolari grassi e ridanciani che conversano di sesso e di partite, partono e tornano sugli stessi vagoni?
I rami degli alberi che scorrono dietro i finestrini: braccia tese e rinsecchite e, dietro, una pianura bianca, sfumata in viola e azzurro. Un fuoco acceso nel cantiere dietro la stazione del paese quando scendiamo.
Davanti alla campagna distesa: pioggia leggera, inizio dell'inverno. Ancora fiori abbaglianti, assurdi nel grigio pallido della luce. Penso al piazzale della stazione, com'è di notte.
La campagna è nera. Si stende come stoffa davanti al piazzale della stazione. Tutto è di un nero luminoso e inquieto, mobile. Tre lampioni alti dalla luce gialla, esagerata, rompono il buio in un unico punto. È lì, in quel punto al limite dello spiazzo, al centro esatto del cono di luce, che si intravede una figura sottile. È un uomo. Indossa una giacca di velluto, lucida e nera come la campagna, fuori moda come questo paesaggio vuoto e abissale. Sta lì in piedi, immobile, le braccia appena sollevate e la testa inclinata verso sinistra. Il sassofono puntato alla luna. Suona. La musica entra nei campi, è come un pianto piccolissimo e lontano. Le auto che passano lungo la Trasversale di Pianura non si accorgono di niente, sfrecciano veloci, non vedono l'uomo, non sentono la musica.
È inverno, e questa è la pianura padana, per una volta senza nebbia.
Seconda / Primavera
Un gallo che canta, all'infinito, nel primo pomeriggio.
Il fusto di una betulla, bianco come carta e, dietro, cielo azzurro livido, piccole foglie gialle che si scuotono con grazia tutt'attorno.
Piatta campagna, luce bianca
Di luna quasi piena
Specchiata nel lago artificiale
Fusti snelli
Spogli mormoranti
Di buio e brezza.
Intorno ai maceri danzano le ombre. Le fronde degli alberi ci affondano dentro insieme alle stelle. Si sentono i sussurri delle vecchie storie di soldati annegati, di contadini spariti mentre tornavano dai campi. Stanno tutti lì dentro a far baldoria, sott'acqua, nella melma, con bicchieri di sangiovese e sigarette arrotolate a mano.
Ascoltano i sospiri di tutti quelli che vengono qui a fare l'amore. Romantico. Romantico come quei preservativi buttati tra i cespugli: plastica annerita in cui per sbaglio sono rimasti intrappolati gli insetti.
Terza / Estate
I tigli sono fioriti, tutto è invaso dal loro profumo. La bicicletta scivola veloce sotto le fronde alte, tra ombre improvvise e recuperi del sole: una gara allegra che nessuno vince.
Una panchina solitaria davanti a un campo immenso. Chi l'avrà voluta, proprio lì, davanti a una specie di mare?
Immagino che sarebbe bello essere un vecchio molto curvo e molto stanco e sedere lì, davanti al campo, con pantaloni di tela chiara e un bastone tra le dita che non riescono più a stringere tanto bene le cose, contemplare l'azzurro verde del granturco, riandare a tutte le altre estati, infinite e uguali. Osservare il fruscio impercettibile del granturco che cresce sotto il sole.
I gatti si arrotolano intorno alle gambe del vecchio, strisciano contro la tela dei suoi pantaloni, fanno le fusa e piangono d'amore, perché sono randagi.
Il vecchio socchiude gli occhi e pensa alla briscola della sera, alla minestra di cipolle e patate, e a quell'estate lontana, eroica, di cui non ricorda più quasi nulla.
Non vede la golf nera che passa sulla strada dietro di lui a manetta, con i finestrini abbassati e dentro quattro giovani allegri che ascoltano la canzone nuova dell'estate nuova - la loro estate eroica - fumando una canna. Non li vede. E loro non vedono lui. Ma sono lì, lo scenario è lo stesso, anche se loro passano e lui resta.
Quarta / Autunno
Il dio che vedo passeggiare sotto il porticato del chiostro della Chiesa dei Frati - la chiesa con l'affresco nascosto - è diverso da quello che mi raccontano alla dottrina. Ha le gambe nude e lo sguardo freddo, la bocca è ferma in un sorriso finto. Io ho sette anni, accendo una candela, mi bagno le dita nell'acquasantiera, guardo l'altare, faccio quello che fanno le donne del paese, quelle col fazzoletto a fiori sulla testa.
L'altra chiesa - la Pieve - quando torno da un giro in campagna, è un'apparizione araba nel blu che scende improvviso.
Sotto la chiesa, sepolti nel fango, centinaia e centinaia di scheletri a pezzi, teschi incastonati nelle arcate sotterranee. Musi asciutti e uguali che sorreggono i fedeli con impassibile zelo.
Credo di averli visti quando avevo dieci anni; se ci penso, me li vedo davanti agli occhi, ma forse non li ho visti davvero, me li hanno solo raccontati. Ma quando si hanno dieci anni, è quasi la stessa cosa.
Di fianco alla Pieve, il piccolo cimitero di campagna, con i lumini tutti accesi come per una festa tra i campi, circondato e avvolto da sempre nuove costruzioni: villette a schiera con giardino, nani di terracotta e cani aggressivi. Ma il cimitero resta lì, con le sue luci tremolanti, e i suoi tanti ospiti muti. Simili in tutto a quelli che reggono le fondamenta della Chiesa. Chissà se si incontrano mai.
Tornerò a trovare qualcuno, senza guardare le case, magari quando le foglie per terra si saranno asciugate.
["IBC", VI, 1998, 2, pp. 72-74 (dossier: Cemento e nuvole, a cura di Vittorio Ferorelli, Flavio Niccoli)]
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