Rivista "IBC" XVII, 2009, 2
musei e beni culturali / mostre e rassegne, pubblicazioni
"C'è qualcosa di grandioso, per esempio, in una natura morta di Cézanne o in un panorama di Monet dell'argine di un fiume. Anche con soggetti così semplici, un grande pittore può raggiungere una maestosità visiva e un'intensità emotiva alle quali reagiamo all'istante".1
(Giorgio Morandi)
Fiumi d'inchiostro di critica e storia dell'arte si sono spansi con eccellenza sulla poetica artistica di Giorgio Morandi, ma mai come in questa mostra e nel catalogo che l'accompagna, curati da due fini storici dell'arte come Maria Cristina Bandera e Renato Miracco, restituiscono la sua semplice grandiosità, per cui val la pena evocare qui, in via del tutto straordinaria, le parole di Johann Joachim Winckelmann che considerava l'espressione di "nobile semplicità e quieta grandezza" l'apice qualitativo dell'arte classica greca e di Raffaello. È un lavoro imponente di ricerca che ci restituisce la collimazione perfetta tra l'uomo e il pittore nell'affermazione di una ricerca quotidiana dell'arte nella vita diretta costantemente verso gli orizzonti il/limitati "dell'Arte per l'Arte".
La mostra, ordinata in un percorso talmente puntuale nella cronologia da restituire appieno le fondamentali sfumature poetiche che innervano la pittura di Morandi dagli esordi alla fine, si riflette nell'importante catalogo che rilegge l'opera omnia del bolognese con incisività e finezza storico-artistica. Indagando con inedita profondità sulle fonti e sui modelli dell'artista, il percorso parte dai primi pensieri critici di Roberto Longhi, s'impernia sull'esegesi indimenticabile di Francesco Arcangeli e sugli studi di Carlo Ludovico Ragghianti sino ad approdare a contributi significativi che esauriscono la filologia, le fonti e l'essenza della poetica morandiana.
Il catalogo, strutturato in saggi e schede filologiche, si apre con l'inquadramento storico-artistico di Bandera, che riferendosi all'ampio contesto culturale recepito dall'artista, sedentario ma assai bene aggiornato all'Europa, traccia il disegno della sua complessa e sensibile pittura, esercitata "come un pianista per raggiungere il proprio stile": partendo "dal moderno, guarda all'antico intrattenendo un dialogo serrato anche con i pittori del passato". Morandi dà vita a un'arte moderna da subito perché autentica, "problematica e non remissiva", fondata sull'istinto e le proprie forze, nel privilegio costante della "spazialità architettonica ottenuta con la distribuzione di volumi regolari da Piero della Francesca" e la "semplificazione geometrica delle forme e dello spazio messa in atto da Cézanne". Ed è evidente in tutto il corpus di opere dell'artista questo amore per la geometria, per i poligoni, regolari o meno, che egli dispone sui piani quali sintesi essenziali e astratte della realtà che lo ispira; dialogando, pur nella sua individualità verista, con le poetiche astrattiste a lui coeve, che volente o nolente, e più o meno consapevolmente, investivano la sua ricerca.
Se per Pier Giorgio Odifreddi i linguaggi pittorici hanno effettuato una rivoluzione linguistica della pittura senza mutarne il soggetto, se in altre parole i dipinti "rappresentano ancora il solito mondo terreno, seppure raffigurato con una tecnica diversa" poiché delle cose "rimane soltanto una letterale ombra, cioè un'astrazione: sulla tela non si vedono altro che figure geometriche, ossia le forme astratte degli oggetti concreti",2 allora la sperimentazione pittorica di Morandi è quella di una poetica astrazione mentale della realtà, effettuata con classicità e circoscritta nello spazio esiguo dello studio, del cannocchiale, della tela, dove, grazie alla sua fantasia (a mio avviso priva di suggestioni orientali), gli oggetti più quotidiani si nobilitano sorprendentemente in composizioni solenni.
Indagando la rete conosciuta dei modelli morandiani - Paul Cézanne, Henri Rousseau, Camille Corot, Pierre-Auguste Renoir, Jean-Baptiste Siméon Chardin, Georges Seurat, Piero della Francesca, Giotto, Masaccio e Paolo Uccello - e basandosi su fonti visive certe, Flavio Fergonzi suggerisce nuove suggestioni - El Greco, Nicolas Poussin - e riafferma l'importanza del riferimento cezanniano per tutta la vita del pittore, che userà le riproduzioni delle opere del francese quale base di partenza per nuove, ardite e antitetiche sperimentazioni spaziali, come accade nel Paesaggio del 1927. Fergonzi, inoltre, pone in rilievo come il passaggio dalla passione per Cézanne a quella per Chardin determini un riflesso più intimo "e partecipe sul piano emotivo" dell'osservazione della realtà; un riflesso che, inevitabilmente, si comunica anche a noi che leggiamo la sua pittura con la stessa commozione di una poesia.
La leggenda di questo artista - legato alla famiglia d'origine e responsabile di essa sin da adolescente, schivo, stanziale, ma aggiornato alla cultura artistica nazionale e internazionale da riproduzioni, da brevi soggiorni e fotografie a stampa - ci è restituita con lucidità da Maria Mimita Lamberti, che analizzando l'importanza del luogo dove l'artista viveva e lavorava - l'abitazione-studio di via Fondazza, in corso di restituzione alla città come casa-museo - riflette sul fatto che questa identità tra la vita e la poetica, rivelata dall'atelier, farà della visita allo studio "un topos dell'esegesi critica su Morandi".
Qui "l'ingresso in un mondo a parte, apparentemente fuori dal tempo, coincide con l'epifania del pittore, silenzioso, attraverso i suoi oggetti: amici, collezionisti, critici (spesso profili coesistenti in una persona, come Lamberto Vitali) attraversavano l'infilata delle stanze del piccolo appartamento per accedere e poi descrivere lo studio, piccolo e ingombro, come il culmine di un rituale, il luogo della più intima conoscenza, del disvelamento non della pratica ma della poetica del dipingere e dell'essere pittore". Una poetica che già emergeva, nel suo farsi, tra le pagine del testo critico che Ragghianti dedicava a Morandi nel 1981, dove metteva in luce le sue modalità di lavoro con preliminari volti a tracciare "i contorni degli oggetti sul foglio d'appoggio, per verificare in pianta e conservare le strutture delle nature morte in posa".
Renato Miracco prende le mosse dalle conclusioni della famosa e lungimirante monografia di Arcangeli che avvicinavano l'astrazione pura del bolognese a quella concreta di Mark Rothko, ma anche a quella figurativa di Piero della Francesca, per disegnare colti pensieri sull'essenza e sul significato dell'arte di Morandi. Il quale, rifiutando di riconoscersi nel 1961 nell'interpretazione del critico bolognese, sarebbe invece stato plausibilmente influenzato da quelle "tracce mnestiche, engrammi dell'esperienza emotiva" (Aby Warburg) che lo portano a essere moderno "proprio nel passaggio dell'astrazione (dando a questo termine il reale significato etimologico) e nella ricerca metodica di una realtà che apparentemente e superficialmente fosse definita dalla forma reiterata, ma che conteneva nel suo essere pittura la chiave per un'astrazione altrettanto metodica quanto ossessiva", riflessa nella serialità della sua metodologia di lavoro. Quella serialità che tanto avvicina le opere morandiane alle variazioni che un musicista può fare dello stesso tema (Umberto Eco), oppure, citando Freud, al gioco dell'infanzia reiterato che solo il poeta riesce a compiere in età adulta dando a suo piacimento un assetto diverso e sempre nuovo alle cose del suo mondo.
All'inizio del catalogo della mostra, Maria Cristina Bandera pone una domanda importante e assai interessante: quale dialettico riflesso può avere la modernità di Morandi sulla cultura artistica odierna? Oltre alla disposizione volumetrica delle architetture di Frank Gehry (come nella Winton Guest House, citata dalla stessa storica dell'arte), Tacita Dean ha ripreso in due film ora in mostra a Milano a Palazzo Dugnani (Still Life e Day For Night) le tracce a matita lasciate da Morandi sul piano di lavoro del suo atelier, dove egli segnava "in pianta" le composizioni degli oggetti che avrebbe dipinto quale testimonianza, immota ed estetica, di un rapporto lento e silente con il tempo.
A Bologna, latenze morandiane vivono nei disegni realizzati da Pinuccia Bernardoni tra il 2005 e il 2006 (i Neri di foglia, le Nerezze, le Sdoppiate foglie e gli In colore di foglia), gli ultimi esiti di naturalismo concettuale di quest'artista che, attraverso la materia del disegno, incide lo spazio del foglio con la barretta a olio, come se fosse una sgorbia, il prolungamento anatomico del suo corpo, nonché lo strumento con il quale ella intreccia i suoi sentimenti con la percezione fisica e il mondo delle cose, delle foglie, in un rapporto intersoggettivo con l'opera d'arte.3 Ed ecco che le foglie, frammenti del mondo isolati dal tutto, assumono forma assoluta e la loro origine è smaterializzata dalla linearità del tratto, che ne cattura lo spirito restituendo loro la luminosità dell'aria e il suono del silenzio immobile tra i vuoti del foglio, con quella reiterata serialità, solo sinonimo di profonda ricerca, che contraddistingueva l'arte di Giorgio Morandi. Un'arte sempre visibile, a Bologna, nel Museo a lui dedicato.
Note
(1) E. Roditi, Giorgio Morandi, in Dialogues on Art, London, Secker & Warburg, 1960, ristampato in Morandi 1980-1964, a cura di M. C. Bandera e R. Miracco, Milano, Skira, 2009, pp. 351-359 (catalogo della mostra allestita al Metropolitan Museum of Art di New York dal 16 settembre al 14 dicembre 2008 e al Museo d'arte moderna di Bologna dal 22 gennaio al 13 aprile 2009).
(2) P. G. Odifreddi, Penna, pennello e bacchetta. Le tre invidie del matematico, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 57.
(3) C. Collina, Naturalismo concettuale in Emilia-Romagna, "Meta. Parole e immagini", XXI, 2007, 25, pp. 60-63.
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