Rivista "IBC" XVII, 2009, 2

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / mostre e rassegne, pubblicazioni

Dopo i furti di Napoleone e le contese che ne seguirono, il valore assegnato ai beni culturali, il loro stesso statuto, cambiarono profondamente. A Cesena una mostra racconta come...
Nel crogiolo del patrimonio

Roberto Balzani
[docente di Storia contemporanea all'Università di Bologna]

Dal 14 marzo al 26 luglio 2009, attraverso opere e documenti, la Biblioteca Malatestiana di Cesena ha raccontato al grande pubblico le vicissitudini del nostro patrimonio durante l'età napoleonica e l'affermarsi del moderno concetto di tutela. Furono uomini come Pio VII, Antonio Canova, Carlo Fea e Quatremère de Quincy, con i loro scritti e il loro personale impegno, a recuperare non solo una parte di quei "furti d'arte", ma a gettare anche le basi per far crescere una coscienza unitaria dei beni culturali. Proponiamo ai nostri lettori un'ampia parte del contributo scritto da Roberto Balzani,1 curatore del catalogo e dell'esposizione, che ha affiancato con efficacia quella forlivese dedicata a Canova.


Il 1789 e il 1815 non solo sigillano quella che, dal punto di vista manualistico, passa sotto il nome di "età rivoluzionaria e napoleonica", ma rappresentano una cesura periodizzante all'interno della storia generale del patrimonio culturale.2 Detta in questi termini, l'osservazione può apparire perfino banale: che i "furti d'arte" di Bonaparte abbiano innescato un dibattito destinato a marcare il destino dei beni culturali nel XIX e nel XX secolo, è cosa assai nota.3 Se, tuttavia, dalla superficie si scende nello specifico, i problemi assumono un'altra consistenza: anzitutto, occorre distinguere i singoli beni dal patrimonio (di origine e di destinazione); in secondo luogo, bisogna chiedersi in che misura l'intervento francese abbia alterato la tradizionale tutela "all'italiana", e con quali conseguenze. Le risposte dovrebbero permettere di capire meglio il mutamento di statuto delle opere d'arte consumatosi nel corso del quarto di secolo in oggetto, al di là di facili generalizzazioni.

Come è stato più volte osservato, i beni sottoposti ai trasferimenti forzati operati dalle armate della Grande Nation furono quelli già patrimonializzati (inseriti, cioè, in contesti museali di natura statale), oppure quelli resi disponibili dalla "pubblicizzazione" del patrimonio ecclesiastico, e quindi in bilico fra destino, per così dire, collettivo, e assorbimento da parte del mercato: non furono toccate le opere d'arte appartenenti a privati, anche quando inserite in chiese o istituzioni religiose poi secolarizzate. Già questa sola osservazione rinvia al nodo del perimetro del patrimonio culturale. Dal momento che il patrimonio non è la somma dei beni presenti in un territorio in un dato momento storico, ma la quota di essi cui è riconosciuto un particolare valore culturale, identitario e sociale, a rilevare è la natura processuale e mobile del fenomeno.4 Lo spostamento dei confini dei beni patrimonializzati, per inclusione o per esclusione, costituisce quindi un indicatore assai importante per documentarne l'intensità entro un arco cronologico definito. Durante l'età rivoluzionaria e napoleonica, in effetti, lo spazio del patrimonio aumentò, soprattutto a causa delle soppressioni: mentre, in conseguenza dei trattati della prima fase della campagna d'Italia, non vi fu un reale incremento, ma solo uno spostamento di "cose" già patrimonializzate (da Roma e Venezia a Parigi, per esempio), la cospicua dote di opere d'arte di chiese e conventi trasformati in beni nazionali generò, fra gli ultimissimi anni del XVIII secolo e soprattutto il primo decennio del successivo, una reale selezione a favore degli "stabilimenti pubblici" destinati a preservare la memoria della bellezza, consentendo una diffusione più capillare non tanto della nozione di museo, quanto della scala del valore culturale, strumento indispensabile per rispondere razionalmente all'urgenza della scelta (che cosa si "pubblicizza"? che cosa si vende?). Eruditi, professori, artisti, funzionari furono chiamati, sulla base della tradizione e delle acquisizioni della critica, a giudicare in loco la natura della singola "cosa", e a valutare, quindi, forse per la prima volta, lo scarto esistente fra il patrimonio funzionale e quello culturale: fra lo statuto incerto di un'opera d'arte già percepita come unicum, ma ancora ben inserita all'interno di un contesto segnato dalla vitalità del culto e dal forte impianto identitario di comunità, e la certificazione di una frattura non ricomponibile fra uso pubblico e valore pubblico, premessa al "salvataggio" del bene in uno spazio secolarizzato ed esclusivamente culturale.

L'allargamento dello spazio del patrimonio non fu solo l'effetto improvviso della nuova ideologia rivoluzionaria: esso approfittava di solide premesse, involontariamente disseminate lungo tutto il XVIII secolo. La tradizione del Grand Tour, e la conseguente produzione di guide, di resoconti e soprattutto di elenchi di capolavori meritevoli di una visita, aveva già provveduto a dare consistenza virtuale a una nozione di patrimonio più estesa degli scrigni straordinari di Roma, di Firenze e di poche altre realtà italiane. La natura anfibia di questa percezione - l'Italia "museo generale", "deposito completo di tutti gli oggetti propri allo studio delle arti" di Quatremère de Quincy,5 che permetteva nello stesso tempo di gettare uno sguardo "moderno" sulle "cose", senza per questo interferire con la loro funzione religiosa o comunitaria - si basava sul presupposto, ribadito dallo stesso Quatremère, che a produrre patrimonializzazione fosse la "repubblica delle lettere" continentale e non gli stati e meno che mai un'improbabile "nazione" italiana. L'intellettuale d'Oltralpe, anzi, considerava assai positivamente la frammentazione politica della penisola e attribuiva a questa mancanza di rilievo internazionale delle corti regionali quel provvidenziale investimento mancato sull'identità e sulla forza, che avrebbe inevitabilmente alterato il paesaggio anche culturale da Napoli in su. "La divisione dell'Italia in diversi stati rivali," - continuava, nella seconda delle Lettres à Miranda (1796) - "non ha contribuito poco a moltiplicarvi sia gli artisti sia le opere d'arte: delle cause generali, modificate da cause particolari e locali, vi hanno prodotto delle differenti scuole, tra le quali regnò la più viva emulazione, sia relativa alla grandezza delle imprese sia riguardo alla diversità delle maniere o dei procedimenti d'imitazione: la natura stessa degli interessi commerciali italiani e le sue relazioni politiche con l'Europa vanno ancora aggiunte alle cause che l'hanno resa il seminario delle arti".6

Esisteva, quindi, una stretta connessione fra il basso tasso di coscienza pubblica (si potrebbe azzardare, con termini contemporanei e di certo poco appropriati) e la disponibilità a sfruttare commercialmente lo sguardo patrimoniale importato da fuori e certificato dalla "repubblica delle lettere". Una sorta di scambio, che presumeva come dato l'inconsistenza civile del popolo italiano e delle sue élites, capaci di tutelare il paesaggio culturale dell'Italia-museo, ma incapaci di trarne tutte le conseguenti lezioni in termini di patrimonializzazione consapevole. Per paradosso, le Lettres di Quatremère, massimo inno alla tutela del contesto, sottendevano un ben aspro giudizio sulle comparse addette alla manutenzione: l'Italia-museo avrebbe conservato il suo rilievo universale finché gli abitanti della penisola italiana avessero continuato a considerare il loro passato un bene culturale e non un deposito di memorie ancor vive, a disposizione della nazione. La distanza che separava, nell'immaginario dei savants e dei loro lettori, il popolo romano di Tito Livio da quello coevo, "divisé en deux classes" - sentenziava fra gli altri Montesquieu nel suo diario di viaggio del 1729 -: "les p... et les valets, ou staffieri",7 escludeva qualsiasi redenzione o "risorgimento". Grandezza, genialità, operosità erano qualità da studiare in vitro nei reperti, ma il cui stampo pareva migrato altrove, o abbandonato senza possibilità di recupero. La dimensione meramente culturale del passato, che la costruzione del patrimonio, fra XV e XVI secolo, aveva contribuito a sigillare e a cristallizzare, fino a tramutarsi addirittura in un'ideologia, come nel Granducato mediceo, aveva funto da potente anestetico contro i dolorosi ritorni di un Rinascimento assai più politico, ancora incombenti all'inizio del Cinquecento.8 Lo slittamento dalla polis all'arte, dall'orgoglio civico all'orgoglio per una teoria di pittori, scultori e architetti aveva, da un lato, chiuso la lunga stagione del protagonismo della penisola, mentre, dall'altro, saldandosi all'economia del Grand Tour,9 aveva prodotto un assolutismo tutto peculiare, tanto immobile nella sua struttura gerarchica, quanto fluido nell'appaltare a soggetti terzi, i savants continentali, la definizione della propria identità. Non stupisce, perciò, che, pur in presenza di contesti sociali e istituzionali palesemente arretrati, gli eruditi e i connaisseurs si trovassero perfettamente a proprio agio nell'Italia-museo: le tappe dei loro itinerari seguivano l'articolazione di una classificazione condivisa, elaborata in buona misura fuori del contesto, all'interno di uno spazio intellettuale ben più ampio.

Con il trattato di Tolentino del febbraio 1797, stipulato fra la Francia e la Santa Sede, questa immagine consolidata venne posta in discussione: anzitutto, i beni patrimonializzati potevano viaggiare, cioè trovare una più acconcia collocazione al di fuori del luogo d'origine, in base a una redistribuzione del valore culturale su scala europea; secondariamente, essi rientravano fra le risorse contendibili da parte di uno stato-nazione terzo e tali da figurare, insieme con le compensazioni territoriali e con i risarcimenti in denaro, fra le clausole di una pace. La diplomatizzazione del patrimonio rendeva particolarmente esposti quei governi che non avevano, in realtà, costruito un'autentica catena del valore sociale intorno ai beni, limitandosi a gestirne (o, meglio: a cercare di gestirne) la fuoriuscita illegale dai confini dello stato. In questo senso, "lo zelo infaticabile" e "l'attenzione continua" che Quatremère attribuiva ai papi, fautori, a suo dire, di una politica pubblica volta a "restaurare e rivalutare ciò che l'incuria di dieci secoli aveva seppellito",10 potevano essere legittimamente attribuite ai sovrani-pontefici patrimonializzatori - in primo luogo i grandi del Rinascimento, e poi, senza dubbio, in tempi recenti, Clemente XIV e Pio VI -; ma non certo a tutti indistintamente. La continuità degli editti e delle norme contro l'esportazione clandestina, d'altro canto, testimoniavano semmai l'idea, tipicamente protezionista, di un'economia chiusa e controllata, di reperti equiparati a preziose risorse minerarie, di preoccupazioni daziarie e fiscali, più che di tutela effettiva. In tal senso, la lettura tendente a prefigurare in tali inutili sforzi una consapevole protezione del contesto, pur autorevolmente avanzata e finita nella vulgata della ricostruzione ex post del "discorso pubblico" sul patrimonio, sembra in realtà difficilmente documentabile, al di là delle indubbie sensibilità storico-artistiche e antiquarie degli intellettuali di Curia.11

Un senso più ampio e diffuso del rilievo interno e identitario del patrimonio sarebbe emerso solo in seguito alle requisizioni napoleoniche, ma soprattutto come corollario delle soppressioni. Perché "soprattutto"? Perché, a giudicare dalla scarsa circolazione italiana delle Lettres à Miranda di Quatremère, che avrebbero dovuto rappresentare, a caldo, la base condivisa della protesta delle gens de lettres contro la "scorreria" di Bonaparte (basti pensare che Canova le avrebbe conosciute solo nell'estate del 1802 per poi passarle a Pio VII, che le avrebbe lette con interesse),12 gli eventi turbinosi del triennio giacobino impedirono un'elaborazione del trauma e ne cancellarono la memoria con straordinaria rapidità. A offrire materia di dibattito, fra il 1797 e il 1799, fu piuttosto la contestazione del passato come pura memoria culturale, come puro bene, e il tentativo di iniettare una prima, forte dose di ideologia e di politica nella restituzione della storia d'Italia, per infrangere la teca di cristallo e per propiziare un nuovo "risorgimento": termine che, non caso, sarebbe slittato proprio nel quarto di secolo francese dal terreno delle arti a quello della militanza nazionale, e del cui plurimo valore semantico si sarebbe ben reso interprete Giacomo Leopardi nella canzone Ad Angelo Mai, del 1820 (versi 5-9: "E come or vieni / Sì forte a' nostri orecchi e sì frequente, / Voce antica de' nostri, / Muta sì lunga etade? e perché tanti / Risorgimenti?"). Senza questo passaggio, d'altronde, la lettura di Quatremère rischiava di restare incomprensibile, non già perché fosse errata o misconosciuta la restituzione del significato dell'Italia-museo, ma perché alla larghissima maggioranza degli intellettuali e delle élites al di qua dalle Alpi sfuggiva il significato profondo di ciò che i francesi stavano compiendo, nel momento in cui nazionalizzavano il patrimonio culturale. Rubricarne l'impianto sotto la categoria dei furti, peraltro frequentemente associata nella normativa preesistente a "cose" come antichità e belle arti, rischiava di non rendere giustizia a un processo assai più complesso, che avrebbe prodotto Brera, che avrebbe favorito la ridefinizione della vocazione archeologica e antiquaria di Roma, che avrebbe generato, proprio in virtù della rapida assimilazione del modello originario, un diffuso senso della perdita, alla base della nuova patrimonializzazione dei beni del XIX secolo.

Occorreva, insomma, l'idea di un passato trasformatosi da memoria in risorsa, per innescare il progressivo sgretolamento della percezione funzionale del patrimonio. Di qui il rilievo delle soppressioni, cadute proprio in quella temperie a imporre la certificazione del necessario e del superfluo, dell'asportabile e del vendibile, in un contesto squisitamente culturale. Fu allora che si affermò davvero, in una parte della provincia italiana centro-settentrionale, una prima sensibilità patrimoniale moderna: la sottrazione, talvolta contestata, delle opere, e insieme lo stress al quale fu sottoposto il "tesoro" delle comunità, generarono un nuovo valore. Tale valore era rappresentato da quel tanto che si era riusciti a conservare intatto, dopo la secolarizzazione, in alcuni luoghi pubblici (come il palazzo comunale a Cesena, prima posticcia "pinacoteca" civica),13 oppure dai capolavori perduti, in viaggio verso Milano e oltre: sia la nuova dislocazione all'interno del contesto urbano, sia il trasferimento in un museo remoto avevano frantumato la tradizione del patrimonio funzionale. Che non sarebbe mai più risorta, nelle forme e nei significati dell'ancien régime, anche quando i beni fossero stati in parte recuperati e ricollocati nella posizione di un tempo: lo sguardo alterato dal trauma non avrebbe più riconosciuto il modello tradizionale, come d'altronde aveva ben compreso, nonostante il parere contrario dei tanti passatisti di Curia, Antonio Canova.

[...]


Note

(1) R. Balzani, Nel crogiolo del patrimonio: come le opere d'arte cambiarono statuto, in L'arte contesa nell'età di Napoleone, Pio VII e Canova, a cura di R. Balzani, Milano, Silvana Editoriale, 2009, pp. 24-27.

(2) Si vedano: D. Poulot, Musée, nation, patrimoine, 1789-1815, Paris, Gallimard, 1997; É. Pommier, L'art de la liberté. Doctrines et débats de la Revolution française, Paris, Gallimard, 1991.

(3) P. Wescher, I furti d'arte. Napoleone e la nascita del Louvre, Torino, Einaudi, 1988.

(4) R. Balzani, Collezioni, memorie locali, musei. Per una storia del patrimonio culturale, in Collezioni, musei, identità tra XVIII e XIX secolo, a cura di R. Balzani, Bologna, Il Mulino, pp. 9-28.

(5) Lo studio delle Arti e il genio dell'Europa. Scritti di A. C. Quatremère de Quincy e di Pio VII Chiaramonti (1796-1802), Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1989, p. 119.

(6) Ibidem.

(7) Montesquieu, Oeuvres complètes, Paris, Seuil, 1980, p. 260.

(8) F. Gilbert, Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, Torino, Einaudi, 1970.

(9) A. Brilli, Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale, Bologna, Il Mulino, 2006.

(10) Lo studio delle Arti e il genio dell'Europa, cit., p. 119.

(11) Si vedano: A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei Beni Artistici e Culturali negli antichi stati italiani, 1571-1860, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1996; É. Pommier, La tradizione della protezione delle opere d'arte in Italia e la nozione di contesto in Quatremère de Quincy, in Pio VI Braschi e Pio VII Chiaramonti. Due Pontefici cesenati nel bicentenario della campagna d'Italia, atti del convegno internazionale (maggio 1997), a cura di A. Emiliani, L. Pepe e B. Dradi Maraldi, con la collaborazione di M. Scolaro, Bologna, CLUEB, 1998, p. 10.

(12) Il carteggio Canova-Quatremère, 1785-1822. Nell'edizione di Francesco Paolo Luiso, a cura di G. Pavanello, Possagno, Fondazione Canova, 2005, pp. 19-41.

(13) Archivio storico comunale di Cesena, Carteggio, b. 3387, tit. XXIV, rubr. 21, 1864-67, "Distinta dei dipinti in legno e su tela, che trovansi nell'Aula Consigliare, e nelle altre sale riservate del Palazzo Municipale di Cesena, e di proprietà di quel Comune, dipinti pervenutigli in gran parte dai Conventi soppressi sul finire del secolo scorso colla venuta dei Francesi", ms., [1867].

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