Rivista "IBC" XVI, 2008, 2

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / mostre e rassegne, progetti e realizzazioni

Il Centro culturale polivalente di Cattolica compie venticinque anni. Una storia esemplare, che conviene ripercorrere. Per ragionare sui luoghi della cultura attuali.
Il laboratorio delle speranze

Andrea Emiliani
[presidente dell'Accademia Clementina di Bologna]

Nel 1983, a Cattolica (Rimini), nasceva il Centro culturale polivalente. Era il frutto di una combinazione di intenti non casuale: una legge regionale che ne creava i presupposti (la 28 del 1977), il disegno di un urbanista raffinato come Pier Luigi Cervellati e l'impegno di alcuni instancabili inventori di laboratori culturali, primo fra tutti Giuseppe Guglielmi. Una "biblioteca-tipo", un "modello edilizio, e soprattutto di comportamento politico e amministrativo per quanti comuni, sin qui storicamente esclusi da ogni servizio bibliografico, vogliano muovere nella direzione imposta dai tempi": così Guglielmi definiva un progetto che oggi, a venticinque anni di distanza, ha il sapore dell'esemplarità. Soprattutto a rileggere gli esiti della sinergia tra la Biblioteca e le iniziative culturali scaturite (le rassegne dedicate alla filosofia e alla scienza, i premi e i festival sul giallo e sulla grafica, le indagini sulla cultura balneare) e la creazione della Mediateca, dell'Antiquarium e del Teatro. Il 5 aprile 2008 a Cattolica, per ripercorrere questa storia così intensa, e riflettere sui nuovi luoghi (e non luoghi) della cultura, l'Istituzione culturale della Regina, il Comune e l'IBC - Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna hanno organizzato un convegno e una mostra documentaria: questo testo di Andrea Emiliani fa parte del catalogo.1


Così come era stato chiamato, in quell'età indimenticabile in cui il fermento per la nascita della Regione ci aveva abituato, e forse sedotto, a una vita delle istituzioni (entro le quali ognuno di noi aveva, o quasi, il diritto di interporre le proprie opinioni, i propri progetti), quel Centro "polivalente" stava già nel suo titolo prendendo quell'aria da ricostituente infantile che avrebbe potuto e saputo risanare ogni e qualsiasi carenza proteica vitaminica fosforica. E già ce n'erano in giro tante. Lo ricordo bene, quel "polivalente" contrassegnò comunque una stagione che, già in piedi negli anni della nascita dell'IBC, si venne spegnendo presto con gli anni successivi: anche in virtù della volgarità delinquenziale del '78, che ci impose di fatto di farla finita con le speranze.

Poiché il "polivalente" era tuttavia una speranza metodologica e insieme terapeutica, esso era intimamente legato con lacci e laccioli dell'altro farmaco indimenticabile, l'interdisciplinarietà. Difficile a citarsi nell'occasione di convegni e di interventi, anche per l'insito sovrapporsi di consonanti, quell'incrociarsi e mescolarsi senza quasi riguardo (e sensoriale modestia di discipline inclini a intimi congressi e a sinestetiche congiunzioni) l'interdisciplinarietà assumeva, dal polivalente incessante dinamismo intellettuale, l'aspetto fantastico di un vocabolario nel quale tutte le sue pagine, sfogliate dal gran vento che tirava, si mescolavano tra loro. Senza più disciplina.

Queste erano soltanto due parole d'ordine dell'animato e culturale comizio di quegli anni, le quali avevano trovato quasi l'usura per eccesso d'uso nelle discussioni che portarono al DAMS, il corso di laurea in Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo, e alla sua sofferta, ma seducente, formazione genetica. In realtà ne esistettero molte di queste parole magicamente nuove e convincenti. Giunti nell'anticamera della genesi degli istituti regionali, con Pier Luigi Cervellati e con Franca Cantelli ci recammo intrepidi a visitare il CADA di Marseille, un laboratorio dove la catalogazione dei beni artistici e culturali in generale passava attraverso il filtro della matematica: il nome essendo da sciogliere in "Centre d'Analyse Documentaire pour l'Archéologie". Le lezioni speciali di algebra ci spaventarono non poco, e da italiani, pur ammirando la "Cité Radieuse" di Le Corbusier, ritornammo alla strada dell'umanesimo.

Per noi storici dell'arte esaminata e anche amata in quanto patrimonio, e dunque sedimento territorio museo, sembrò per anni non potersi fare a meno di invocare che ogni meditazione, da riflessiva che era, divenisse proiettiva. Era del resto il solo modo per far sì che la staticità più classica dell'accademismo storico o storicista venisse finalmente muovendo un passo verso un mutamento, un rinnovamento, manutenzione riabilitazione o restauro che fosse. La lezione mirabile di John Dewey era un faro sull'orizzonte. Del resto, oggi ancora, non saprei davvero come diversamente interpretare quel magnifico movimento di proiezione, capace comunque di sommuovere un po' anche la vita e la politica di quelle istituzioni - ed erano tante - dove non accadeva mai nulla.

Anche questo era frutto di quella stagione irripetibile che chiamerei dotata della forza della Regione: la stessa che per tutto il corso dell'Ottocento romantico e liberale si chiamava, senza dubbio o equivoco alcuno, "decentramento". E anche senza nulla perdere della sua nobiltà idealistica e soprattutto storico-geografica, alimentata da Carlo Cattaneo e anche dai gruppi cattolici migliori; e che tornò a presentarsi davanti a noi, desiderosi, già alle soglie degli anni Settanta che arrivavano. Non so come dovesse chiamarsi quel "decentramento" che scomparve presto, peccaminoso, dalla nostra vista politica di sinistra. Ma di certo per me - che mi ritenevo figlio del progetto che Giovan Battista Cavalcaselle aveva presentato, pur senza troppi esiti, anzi nessuno, al ministro pisano Matteucci nel 1862, e che poi era stato raccolto da tutti coloro che credevano nell'Italia sparsa diffusa periferica provinciale, ovunque bellissima (come oggi solo i prontuari enogastronomici, e nessun altro, si sforzano di descrivere) - quell'Italia bella come una passeggiata interminabile era divenuta soggetto perentorio di conoscenza storica e scientifica. Come irrimediabilmente "antropologica". Cominciai a credere anche in modelli antichi, come le bellissime relazioni circa le condizioni italiane quanto all'Agricoltura (Stefano Jacini), oppure all'Assistenza (Francesco Crispi), e più avanti negli strumenti del New Deal orientati ai problemi territoriali, come quelli della Tennessee Valley: all'opera dei fotografi che ne fermarono i tratti specifici, i caratteri d'una indilazionabile riforma sociale ed economica. E alla fine in quel metodo sovrano del field work, una rete di conoscenze a cui credo oggi ancora, come a un inventario delle cose reali quale solo Emilio Sereni o Roberto Longhi ci abituarono a cercare e a studiare. Esattamente il contrario, dunque, di ciò che oggi siamo obbligati a trovarci irreparabilmente davanti, cotto e inscatolato, prodotto - questo sì - di un centralismo che diverrà sempre più forte strizzandoci nelle spire d'una mondialisation asfittica e senza più forma.

Scrivendo un po' a ruota libera, dopo la morte di Lucio Gambi e l'affievolirsi di altre tensioni magistrali, ho ripassato in queste prime righe alcuni modelli quasi maniacali che in quegli anni ci parvero utili e anzi necessari. Ripensare, certo, al modello del Centro con il conforto delle parole caustiche di Giuseppe Guglielmi mi sembra utile e anzi necessario, e io ne ho tratto solo qualche imitazione pallida. E mi vedo tuttavia davanti agli occhi anche le facce e le parole di quei capuffici pavidi e parolieri nella cui dentiera trionfava, appunto, l'interdisciplinarietà.

Io non ebbi modo di partecipare al lavoro di Cattolica, avevo appena inaugurato la mia stagione di soprintendente alle province artistiche di Bologna, di Ferrara e della Romagna. Ne condivisi le idee di Pier Luigi Cervellati e così pure di Giuseppe Guglielmi per spiriti di elettive affinità. Le quali, come ho detto prima, andavano ormai à rebours e a ricondurre - con qualche iniziale rimorso - vecchie immagini e antiche sensazioni verso il mio "sensorio", ovvero apparato delle capacità di reazione mentale e culturale, là dove esse m'avevano allora incantato e affascinato, proprio per opera dei miei due amici: Pier Luigi con la sua urbanistica umana come progetto della comunità civile, e Giuseppe come acre e tuttavia delicatissimo progettista di officine e laboratori di cultura.

Il Centro di Cattolica - dal loro punto di vista - non poteva se non che essere un codicillo di quel Piano per il centro storico di Bologna che nel 1970 aveva dimostrato come anche l'urbanistica fosse un effetto della cultura storico-artistica che Roberto Longhi aveva rinnovato e recuperato, e che il suo allievo Francesco Arcangeli animava come frutto di un unico messaggio. Un grande ritorno all'arte sentimentale e naturalistica. Quanto a Giuseppe, non m'è possibile dimenticare (come già allora m'accadeva) i chilometri - quasi quanti ne avrà fatti Bartali - macinati per le strade della provincia di Bologna per andare da una all'altra delle Biblioteche del Consorzio di Pubblica Lettura. Di giorno e di notte, d'estate e l'inverno. A parlare di arte moderna e antica, di Mondrian e di "De Stijl" ad Anzola, di Ensor e dell'espressionismo a Porretta, e poi di Giuseppe Maria Crespi e di Ludovico Carracci a Medicina, nella Bassa. Ne siamo tornati a parlare con Carlo Maria Badini prima della sua scomparsa, un anno fa. Dal macrocosmo della Scala al microcosmo di San Venanzio di Galliera. Ed era questo il senso di quel lavoro, che mi sembra riverberare - nel bene e nel male - sul Centro polivalente di Cattolica.


Nota

(1) A. Emiliani, Il Centro Culturale Polivalente, laboratorio delle speranze, in Biblioteamus. Il Centro Culturale Polivalente di Cattolica, a cura di A. Bernucci, O. Piraccini e A. Toscani, Bologna, IBC - Bononia University Press, 2008, pp. 143-146. La mostra "Biblioteamus. Centro Culturale Polivalente 1983-2008. 25 anni dalla nascita della Fabbrica della Cultura" è stata allestita dal 5 aprile al 30 settembre 2008.

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