Rivista "IBC" XIV, 2006, 3

Dossier: Facile a dirsi - Come divulgare la cultura

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /

Qui c'è un "numen"

Marcello Di Bella
[dirigente del Settore cultura del Comune di Rimini, membro del Consiglio direttivo dell'IBC]

Mi trovavo a cena con Luciano Canfora, in una sera di fine inverno del 1990. A Cattolica dove, nel centro culturale della piccola città in cui al tempo lavoravo, stava per aver luogo uno degli appuntamenti della rassegna intitolata "Cosa fanno oggi i filosofi?". Quell'anno il tema sviscerato dagli invitati era "Della felicità" e Canfora si accingeva a parlare di quella degli antichi. Nella chiacchiera il discorso prese la piega, da me più o meno consapevolmente suggerita, di una interrogazione sulla natura dell'avvenimento imminente, non tanto riguardo allo specifico contenuto, quanto piuttosto circa la sua forma, la sua struttura, il suo senso e il nome da dare a colui che, alla stregua di ogni altro artigiano, provvedeva all'incontro tra un pubblico e un autore, un maestro, un sapiente, o un saggio intorno a un determinato oggetto.

Quanto al genere di tale lavoro, se ben ricordo, Canfora disse, riferendosi ovviamente a un paradigma metaforico antichistico, che poteva trattarsi di una magistratura, tanto più che l'artifex in questione portava responsabilità di strutture, come una biblioteca, un museo, una galleria, ecc., di natura pubblica e destinate a un uso pubblico. Nello specifico, precisò Canfora con ironia neanche troppo velata, il nostro "operatore" poteva chiamarsi uno pneumocrate, quale sintesi di pneuma, soffio vitale, ma anche spirito, anima, e di (buro)crate.1

L'ossimoro implicito nel composito e inusitato lemma rende bene, e con sberleffo, il paradosso intrinseco nell'agire di un pubblico funzionario che voglia indirizzare lo spirito, del tempo, del luogo, verso mete cartesianamente definite. Come insegna la Sacra Bibbia, si sa, lo Spirito soffia dove vuole. In proposito devo però aggiungere che Italo Mancini, un po' di tempo prima, e precisamente il 17 aprile 1987, accomodato nel divanetto del mio striminzito studiolo e in attesa di un altro consimile pubblico incontro nello stesso centro (doveva parlare di "Temi religiosi dell'Oriente e prospettiva ecumenica"), se ne uscì, direi stranamente, con una espressione che, detta da lui, non poteva non colpire: "Qui c'è un numen". Non mi arrischiai a chiedere chiarimenti, forse anche perché preso in contropiede. Però credo che Mancini, da quell'ermeneuta raffinato che era, volesse alludere al margine di inspiegabilità di un fenomeno, quello del radunarsi di molte persone intorno a un filosofo.

La cosa, per quei tempi, anzi, per quelli anche precedenti, aveva dello straordinario. Gli incontri per il grande pubblico con filosofi iniziano, per la mia esperienza, nel 1980, in un tempo in cui la stessa espressione "filosofo" implicava connotazioni non del tutto esaltanti: dopo un decennio, principiato nel '68 con l'enfasi politicistica, ripreso in tinte "autonome", di particolarismo individuale, dal ribellismo del '77, la parola stava ancora per lo più a designare un tipo umano non solo astratto e inconcludente, ma anche potenzialmente dannoso a sé e ai propri simili. Eppure, ricordo che "La Stampa" di Torino titolò Il filosofo in maglia rosa una cronaca sull'intervento di Emanuele Severino, a significare la frequentazione e la passionalità di un pubblico osannante il valore del proprio beniamino, come fosse una star della bicicletta.

Su altri fogli si leggeva di "turismo filosofico" e, insomma, si rimarcava il fenomeno di costume, piuttosto che analizzare i contenuti e i riflessi dei discorsi che i vari autori venivano facendo, dopo avere accettato di entrare in relazione con un pubblico diverso da quello delle aule universitarie, o delle sedi congressuali. Si trattava di accettare l'idea, e la prassi, del resto non certo nuove, di offrire una sintesi originale di questo o quell'aspetto del proprio lavoro. Sintesi talvolta icastiche, e perciò particolarmente efficaci, come quando lo stesso Severino, a chi domandava, per l'ennesima volta, a cosa servisse la filosofia, rispondeva tranchant: "La filosofia non serve a nulla perché non è una serva". Una bella risposta, più che mai valida, che forse dovrebbe far meditare chi ritiene che la ricerca debba sempre e comunque ancorarsi a fini produttivi, se possibile immediati.

Al di là di un immaginario metafisico, resta da chedersi come si fosse dato, in quel luogo e in quel momento, un certo fenomeno, peraltro non isolato: bisogna tener conto che tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, in quell'estremo lembo della Romagna, accadde una singolare concentrazione di avvenimenti, progetti, realizzazioni, connessi all'idea che la diffusione della conoscenza con ogni strumento possibile fosse un obiettivo strategico. Qui sento il dovere di richiamare alla memoria l'azione di un giovane assessore alla cultura, Attilio Giacchini Bigagli, purtroppo da anni inchiodato da un trauma paralizzante, col quale allora furono impostati quei progetti sui quali si riuscirono a conquistare le alleanze necessarie al compimento dell'opera. Uso l'espressione "opera" non a caso, per il fatto che le attività che oggi si direbbero di edutainment si costituivano come premessa per un investimento in strutture per la cultura. Parlo dunque di una biblioteca, un museo, un teatro il cui progetto, affidato a Pier Luigi Cervellati (1979), costituiva il termine verso il quale e dal quale orientare le scelte perché il cosiddetto lato effimero trovasse un luogo non solo di elaborazione e diffusione, ma anche di sedimentazione produttiva. Non si dimentichi che in quegli anni si assisteva, da parte degli assessori alla cultura di comuni grandi e piccini, al cimento in forme imitative del modello profuso a Roma da Nicolini con le sue colossali iniziative promosse alla Basilica di Massenzio, tante e tali da calamitare grandi folle.

La proposta della piccola città di Cattolica non era di tipo demagogico, ma "articolata e complessa", a partire, tanto per fare un esempio, dall'idea del sindaco di allora, Sergio Grossi, figura di prestigio nel mondo sindacale, di risarcire il mondo dei pescatori fissandone la memoria, e il mito, in un piccolo museo inteso come elemento di un più ampio complesso culturale. Quel complesso che si completerà nel giro di un decennio, col nome, non particolarmente esaltante e un po' enfatico, di "Centro culturale polivalente", mutuato da una Legge regionale (la 28 del 1977 "per la creazione di servizi culturali polivalenti") che peraltro rimane l'unica e ultima ad avere introdotto concretamente un po' di provvidenze per le sedi culturali degli enti locali della regione. Un Centro, quello di Cattolica, in qualche modo propiziato da Giuseppe Guglielmi, uno dei padri fondatori dell'Istituto per i beni culturali della Regione, che avrebbe preferito, per quel complesso di edifici, il suadente acronimo congiuntivale e ottativo biblioteamus (nel senso di invito a una biblioteca, un teatro, un museo).2

Del resto quelli erano anni in cui una diffusa koinè di pubblica pedagogia insisteva sulla importanza di una formazione (permanente) da assumere e somministrare in termini "interdisciplinari", o "polidisciplinari", con gran dispetto per quanti, nei diversi ambiti, coltivavano l'idea che le competenze specifiche dovessero essere convenientemente tutelate e valorizzate, piuttosto che mortificate da corrive semplificazioni. Da una parte le giuste rivendicazioni di chi assumeva come motto araldico "lasciateci lavorare", dall'altra gli infastiditi dal particolarismo e dalla separatezza dei sacerdoti delle scienze e delle tecniche, umane e non, che ritenevano fondato l'aforisma di Ennio Flaiano secondo il quale "oggi anche il cretino è specializzato". Nel microcosmo di cui ho avuto esperienza come spettatore, forse attivo, cioè quello di un paese della Romagna che in un certo tempo aveva scelto di eleggere la dimensione culturale come particolarmente importante per la vita della comunità, si tentò il compromesso, presumibilmente favorito dalle limitate dimensioni: quello di coniugare le specificità tecniche e operative di istituzioni diverse, come una biblioteca, un museo, una galleria, le attività di spettacolo, nello sviluppo di iniziative culturali in cui si integrassero elementi diversi per forma e contenuto, con lo scopo di avvicinare un pubblico non specializzato, ma neanche incline ad assumere cibi precotti e di basso contenuto qualitativo.

Cito per semplice memoria le esperienze del "MystFest", il festival internazionale del giallo e del mistero (anni Ottanta e Novanta): tanto cinema, seppur di genere, ma anche letteratura, filosofia, arte e persino archeologia, traguardate dal punto di osservazione dell'intreccio enigmatico. Mi è anche molto caro, sempre negli stessi anni, il ciclo poliennale del "Design balneare", cimento per progettisti di minimi e grandi artefatti, così come non dimentico "Libri in cerca di gloria", una rassegna ispirata da Giuseppe Guglielmi di "testi che reclamano la scena". Ho citato solo qualche sigla, ma potrei aggiungere elenchi non esangui di decine di piccoli e grandi eventi, a partire da quelli espositivi (nella Galleria comunale Santa Croce), fino ai corsi di scrittura, come quello dedicato alle varie forme testuali (dalla relazione al tema in classe). Mi preme solo sottolineare come tutto questo materiale, debitamente registrato, è andato a costituire i tratti originali delle raccolte di quel Centro, di quella biblioteca, di quel museo. Si pensi per esempio alla mostra "Barche e gente dell'Adriatico" del 1985 (con splendido catalogo, un vero capolavoro di arte tipografica, progettato da Michele Provinciali) che è diventatata il nucleo della sezione marinaresca del museo cittadino.

Lungo questa linea, di attività seguite da uno sciame di esiti, patrimoniali e documentari, posso aggiungere, a titolo di esempio, l'"Osservatorio della cultura balneare", il "Fondo di documentazione della letteratura poliziesca e fantascientifica", l'archivio della "Grafica di pubblica utilità", le decine di videocassette di documentazione delle iniziative realizzate, sempre più interessanti man mano che il tempo passa (si pensi a Gadamer, Musatti, Zolla, solo per citare alcune grandi personalità scomparse). Non solo: accanto a tali materiali direttamente connessi ad avvenimenti effimeri, la relazione con le tante personalità del mondo culturale, italiano e non, determinava l'acquisizione, spesso per dono, di libri, fotografie, opere d'arte, e la polarizzazione dei piani di investimento lungo linee congrue di azione. Ciò nello spirito di quel sistema, prima bibliotecario e poi museale, che, allora in fieri, privilegiava l'azione cooperativa di istituzioni diverse, i cui apporti variati potenziassero l'offerta dell'intero, rispetto alla limitatezza di parti separate e in nulla comunicanti. Quel sistema che lo sviluppo tecnologico, tecnotronico, come diceva Guglielmi, avrebbe reso in tempi più vicini veramente effettuale e, per così dire, ovvio, come si dà nel caso dei più aggiornati programmi che proprio l'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna sta evolvendo e riempiendo di contenuti.

Nell'ambito della nostra regione lo spirito di questo modus operandi sarebbe confluito nella legge sulle biblioteche, gli archivi, i musei (Legge regionale 18/2000) che non a caso comprende in un unico complesso provvedimento definizioni e linee guida condivise da soggetti tanto diversi, eppure tanto vicini per finalità. Antonio Paolucci, il riminese, già ministro per i beni e le attività culturali, ama ripetere che "un museo è una biblioteca di opere d'arte" e noi potremmo per converso aggiungere che una biblioteca è un museo (vivo) di testi librari e documentari e che, in fin dei conti, l'uno e l'altra sono semplicemente degli archivi, ovvero che partecipano, in misura diversa, delle qualità e delle proprietà di una raccolta ordinata di atti pubblici e privati.

Oggi, in effetti, si avverte più che mai l'esigenza di mettere in discussione la natura, il ruolo e le finalità di tali organismi culturali, a partire dalla circostanza che vede il ceto politico diffusamente taglieggiare le spese per sostenerli. C'è anche qualche non politico che ritiene che, per esempio, una biblioteca, se proprio non se ne voglia fare a meno, può essere costituita semplicemente da una o più sale dotate di tavoli e computer in rete, ovvero che un museo possa e debba far conto, se non risolversi, in una produzione e diffusione di immagini virtuali, ecc. Altri, impressionati da queste immagini che alludono a una solipsismo umano e culturale, ipotizzano un futuro in cui le pubbliche biblioteche, e forse anche i musei, siano soprattutto dei "centri di aggregazione sociale", bei luoghi per passare un po' di tempo in una sorta di parrocchia (laica).

Non desidero pronunciarmi su questa materia definitoria, non più di quanto desideri raddrizzare le gambe ai cani: sul punto mi limiterei a sottolineare l'elemento connettivo e mediatorio tra l'universo del testo (qualunque sia, bibliografico o artistico, digitale o "analogico", ecc.) e il/i pubblico/i quale punto focale che indirizza la qualificazione delle strutture per la cultura di cui qui si parla. Riguardo alla dimensione estetica e conoscitiva, qui non si tratta né di scuola, né di media. Con una battuta forse potremmo parlare di cultural trainer istituzionali, diversi per forma e contenuto, ma tutti destinati alla formazione personale, liberamente sviluppata al di fuori di istanze programmatiche predeterminate.

Dicevo "connessione", "mediazione" riferendomi a biblioteche, archivi, musei, gallerie, al loro modo permanente di essere servizio: in tale dimensione interattiva si colloca certamente la cosiddetta "divulgazione", termine che aborro per le sue connotazioni paternalistiche e irrispettose del pubblico, del "volgo". Certamente esiste una attività di promozione culturale che può essere svolta con maggiore o minor rigore, una attività che taluni ritengono debba espungersi dall'ambito operativo delle istituzioni culturali pubbliche per risolversi negli impulsi espressivi della cosiddetta "società civile", nelle istanze del privato, più o meno sociale, che potrebbe convenientemente essere sostenuto con pubblico danaro. Personalmente ritengo che le risorse intellettuali diffuse dovrebbero liberamente dispiegarsi, senza condizionamento alcuno: nel contempo penso che certe imprese culturali, di ampio respiro, caratterizzate da congruità, rigore, imparzialità (e naturalmente efficienza ed efficacia) difficilmente abbiano luogo in difetto di un grande e lungimirante mecenate che, nella dimensione europea, ha storicamente assunto i panni del pubblico decisore sottoposto a pubblico controllo.

D'altra parte, mi rendo conto dell'estrema delicatezza della materia, delle implicazioni cui tali processi danno adito, del difficile equilibrio tra sfera tecnico-scientifica e discrezionalità delle scelte in materia di politica culturale. E tuttavia, alla fine, soccorrono le leggi, se concepite come schema entro il quale ordire l'invenzione ermeneutica, interpretativa delle esigenze culturali, espresse o latenti, delle comunità, dei territori.

Vorrei concludere questa breve personale e parcellare memoria concernente l'attività culturale degli enti locali (in modo particolare quella che assume come base le loro istituzioni) con un cenno a un esperimento appena concluso, e cioè quello del "Festival del mondo antico" che si è svolto a Rimini e anche in altre località contermini. Oltre cento eventi, concentrati in quattro giorni, in cui da un lato si è dato luogo a una sorta di valorizzazione del patrimonio antichistico del territorio, facendo emergere i tratti di un "distretto dell'antico", dall'altro si è data "voce alle pietre" e ai materiali facendo rivivere, con letture, recitazioni, presentazioni, cinema, video, performance, giochi, seminari, ecc. i contenuti di quel mondo.3 La continuità e la discontinuità, le analogie e le differenze, i fondamentali di ieri osservati con il gusto dei contemporanei, i testi di oggi e la filigrana remota di cui sono intessuti. Un'occasione, direi quasi un pretesto, in virtù dei quali pressoché ogni disciplina ha trovato il suo spazio di "lettura", di "decifrazione", di esperienza estetico/emotiva.

Arte, filosofia, scienza, politica, letteratura, religione, costume, ecc., hanno abitato un contesto adatto per incursioni pluridisciplinari, un luogo in cui "mettere vicino cose lontane" nello spazio e nel tempo. Il pubblico, convenuto da ogni parte d'Italia, ha molto apprezzato questa singolare offerta (circa 4.500 presenze), un'offerta resa possibile dal lavoro in comune di una biblioteca, di un museo, di un teatro. Che hanno lavorato "per tutti", nell'ipotesi che il teatro non lo si faccia per i teatranti, la musica per i musicanti, le ricostruzioni archeologiche per i professori di archeologia, le letture per i bibliotecari o i librai.

 

Note

(1) A proposito di pneuma e pneumatica si veda la gustosa digressione ne La Madonna dei filosofi, di Carlo Emilio Gadda, laddove il protagonista, l'ingegner Baronfo, riesuma la figura del cavalier Digbens, "un benemerito della filosofia (dogmatica) e più specialmente di quel ramo di essa chiamato settecentescamente pneumatologia o pneumatica, ovvero scienza dell'anima", precisando in nota che "altrove pneumatica significa scienza degli 'spiriti' cioè teoria generale degli angeli e dei diavoli, delle loro facoltà e dei loro diportamenti".

(2) E. Colombo, Biblioteamus, "IBC", VII, 1999, 2, pp. 10-13.

(3) L. Canfora, L'antico nel presente, "IBC", XIII, 2005, 3, pp. 42-45.

 

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