Rivista "IBC" XVI, 2008, 2

musei e beni culturali / interventi, mostre e rassegne

Non sono solo la quantità e la qualità degli oggetti esposti, il numero di visitatori o la mole del catalogo a far sì che una mostra possa dirsi riuscita. Tre diverse esposizioni archeologiche, lette in controluce, rivelano le loro ombre...
Il presente, complicato, dell'antico

Maria Pia Guermandi
[IBC]

Nella consueta ampia offerta di mostre che caratterizza l'attuale stagione (ma ormai ogni stagione) dell'anno, le tematiche archeologiche sembrano conoscere un rinnovato favore, almeno da parte di curatori e committenti. Una rapidissima panoramica su alcune delle manifestazioni più note e pubblicizzate ne evidenzia però, pur nella diversità dei percorsi metodologici e degli esiti scientifici e divulgativi, certi elementi culturali di fondo che rimandano a problemi tuttora irrisolti della disciplina archeologica.

È la romanità nel suo rapporto, tutt'altro che lineare, con la barbaritas, il tema della mostra inaugurata il 26 gennaio 2008 a Palazzo Grassi e aperta fino a luglio.1 L'evento segna il ritorno nella sede veneziana dei temi dell'antico dopo l'acquisizione di François Pinault e il riallestimento minimalista di Tadao Ando, che con l'ennesimo esercizio di rigore stilistico ha conferito una raffinata sobrietà agli interni del palazzo settecentesco. Sobrietà che rappresenta la cifra anche dell'allestimento della mostra in corso a cura di Daniela Ferrari e che segna, da questo punto di vista, una decisa, positiva inversione di tendenza rispetto agli eccessi un po' ripetitivi e non sempre museograficamente efficaci di Gae Aulenti.

Sotto quest'ultimo aspetto l'esposizione attuale raggiunge forse il suo esito più convincente nel suggestivo allestimento del cortile coperto interno: straordinario incipit marmoreo nel quale alcuni sarcofagi romani, fra i quali quello di indimenticabile bellezza di Portonaccio, sono disposti, a contrasto con i rossi fondali, a testimonianza di una stagione di piena maturità, non solo artistica, della romanitas. Per quanto riguarda i contenuti museologici, invece, la precedente stagione di mostre archeologiche di Palazzo Grassi aveva conosciuto risultati di grande rilievo, a partire da quella esposizione sui Fenici (era il 1988) che rappresentò davvero un punto di svolta per la novità e l'efficacia dell'impatto comunicativo, che si coniugava, senza cedimenti banalizzanti, a un alto livello dei contenuti di ricerca. Per questo aspetto non si può negare che "Roma e i Barbari" compia uno sforzo davvero notevole; impressionanti le cifre: nei tre piani in cui si snoda il percorso, gli oltre 1700 oggetti esposti sono suddivisi in 31 (!) sezioni, con decine di istituzioni pubbliche e private nell'albo di chi ha concesso i pezzi. Ma fin qui è statistica, e come un buon lievito non basta a fare una torta gustosa, così i numeri da soli non sono sufficienti a realizzare un'esposizione riuscita. Neanche se gli ingredienti, oltre che numerosi, sono spesso di altissimo livello.

Nelle sale veneziane sono stati esposti tesori straordinari di scultura, artigianato, oreficeria, alcuni dei quali mai usciti dalle loro collocazioni museali abituali (come lo stupefacente cofanetto merovingio dall'abbazia di Saint-Maurice d'Agaune, in Svizzera) e importantissimi reperti provenienti da una moltitudine di siti archeologici. Elemento, quest'ultimo, che contribuisce senz'altro ad accrescere l'importanza dell'evento, ma che spesso, per mancanza di adeguato apparato didattico, non risulta sufficientemente evidenziato: moltissime località minori risultano di non immediata collocazione geografica, a tutto scapito di un inquadramento geografico complessivo che è elemento fondamentale nella comprensione di fenomeni di migrazione e diffusione quali quelli illustrati in mostra. La ricchezza dei corredi e dei singoli oggetti, inoltre, rischia di divenire persino un po' ripetitiva se non accompagnata da una significativa varietà tipologica (sull'ennesima fibula aquiliforme, o croce gemmata, l'occhio sorvola con una certa stanchezza da saturazione).

Ma soprattutto, alla fine del ricchissimo percorso, si ha la sensazione che del fenomeno indagato l'esposizione restituisca, anche se confusamente, il senso di complessità, senza mai riuscire, però, a fornire letture significative dei molti problemi aperti, esponendo senza spiegare, illustrando senza chiarire, affascinando senza coinvolgere. Come nel caso dei dipinti di scuola francese che ripropongono la lettura e l'uso politico dell'antico e dei barbari che i pittori pompiers venivano offrendo a un'Europa di metà-fine Ottocento attraversata da pulsioni nazionalistiche: tema di forte impatto ideologico e di indubbio charme antropologico, queste opere sono state inserite nel percorso come punteggiatura accessoria quasi fossero solo pause decorative fra una sezione e un'altra.

Quest'ultimo esempio evidenzia quella che ci sembra una delle cause fondamentali della non perfetta efficacia comunicativa della mostra: la mancata integrazione fra i diversi filoni presenti, solo giustapposti e scarsamente dialoganti, come se avesse difettato il coordinamento e la sintesi finale fra le tre istituzioni responsabili dell'evento (nello specifico, oltre a Palazzo Grassi, l'École Française de Rome e la Kunst- und Ausstellungshalle di Bonn). E non basta a colmare queste lacune il catalogo monstre: 700 pagine di interventi e schede concepiti, come si ha spesso la sensazione, in autonomia rispetto al percorso espositivo e che, seppure nell'insieme restituiscono un quadro davvero composito, non colgono a pieno l'obiettivo di integrare sinergicamente la documentazione esposta in mostra. Il tema resta in ogni caso dei più intriganti, perché potenzialmente capace di risalire alle radici della nostra cultura, di affrontare alcuni snodi cruciali del mondo contemporaneo (tra cui il rapporto fra popoli e civiltà diverse nelle diverse gradazioni dello scontro e dell'incontro) e di illuminarci su meccanismi di integrazione spesso molto meno cruenti di quanto gli stereotipi storici ci hanno abituato a immaginare e perciò tanto più istruttivi per la nostra postmodernità così impaurita e fragile di fronte al migrante anche perché priva di memoria.

Ma se i numeri di oggetti e pagine di catalogo non bastano a decretare il successo di un'esposizione, in senso propriamente culturale non è nemmeno sufficiente il dato dei visitatori, a volte acriticamente assunto a parametro non solo di successo gestionale, ma anche di efficacia divulgativa, con la stessa distorsione interpretativa dell'auditel televisivo. La lettura del fenomeno espositivo è in realtà molto complessa e difficilmente riducibile a una sola cifra interpretativa e andrebbe forse analizzata non tanto attraverso i risultati del botteghino, ma attraverso la verifica e l'analisi dell'interazione complessiva evento-utente. Così come è detto in una delle introduzioni del catalogo di "La forza del bello", l'esposizione mantovana che si propone di dimostrare come l'arte greca sia alla base di quella concezione del bello che, ereditata dal mondo romano, andrà a costituire uno degli elementi fondanti della cultura classica.2 Suddivisa in tre sezioni ("Un'Italia greca", "La Grecia conquista Roma", "Nostalgia della Grecia"), la mostra è stata orgogliosamente definita "impossibile" dai curatori, tale è il numero dei capolavori statuari giudicati per lo più inamovibili dai musei di appartenenza (ciò che ha richiesto uno sforzo diplomatico notevole, sostenuto perlopiù dagli organi centrali del Ministero per i beni e le attività culturali).

Il risultato è di altissimo livello estetico, quasi una riproposizione in re di un bel manuale di storia dell'arte classica, seppure di stampo molto tradizionale. E però questa sequenza - peraltro abbastanza banalmente disposta nelle sale di Palazzo Te, che avrebbero consentito in molti casi risultati espositivi di ben altro impatto se, come si sarebbe potuto e dovuto, si fossero messe a reale colloquio le opere con gli spazi gonzagheschi - appare in fondo una teoria un po' troppo algida di belle statue, che non riesce a scalfire il mistero di tanta bellezza. Più che di una storia della cultura, si può così parlare di una storia del gusto (peraltro un po' superata anche in tal senso): l'illustrazione del vecchio ma insuperato profilo di Haskell e Penny (ma era il 1982 e gli autori arrivarono al Novecento), con meno coraggio e soprattutto un colpevole finale ex abrupto che rende il percorso inspiegabilmente, ingiustificabilmente monco, escludendo tutto il periodo moderno e la contemporaneità. Chi sono i greci oggi per noi, cosa rimane di quel concetto di arte e di bellezza elaborato a partire da quasi 2700 anni, nella nostra civiltà postmoderna? A questa cruciale domanda, che rimanda a quella politicamente ancora "caldissima" sulle radici dell'Europa e della sua cultura, la mostra non dà alcuna risposta, rimanendo prudentemente in territori più pacificati e tranquilli, percorribili soprattutto da degustatori e conoscitori cultivés.

E ancormeno, beninteso, riesce in questo tentativo "Exempla. La rinascita dell'antico nell'arte italiana", l'esposizione allestita a Castel Sismondo (Rimini), consueto evento culturale del meeting ciellino.3 In questo caso la mostra forza sullo schema preordinato del ad maiorem Dei gloriam gli esiti di un percorso pur ricco di pregevoli materiali e smorza l'efficacia di alcuni interessanti accostamenti, meritevoli di un'analisi più criticamente incisiva di quella proposta, che finisce per essere scontata in quanto preconcetta. Così ai curatori, per i quali il recupero dell'antico di genesi federiciana, negli esiti di Nicola e Giovanni Pisano, rimane un esercizio mimetico un po' meccanico (dovendosi giustificare la grandezza di questi ultimi soprattutto in virtù del possesso di un'etica superiore), varrebbe la pena ricordare che si può essere ideologici senza essere distorsivi. Anche in quest'ultimo caso, quindi, seppure per altre cause, l'esposizione si dimostra strumento inadeguato e insufficiente a fornire risposte e a suscitare altre domande in quel circuito virtuoso di curiosità intellettuale che è il meccanismo più efficace di ogni processo di conoscenza.

L'archeologia italiana nel suo complesso, dunque, rischia spesso di non trovare una giusta mediazione fra questi due estremi, da un lato quello della disciplina di erudizione, terreno riservato e protetto della ricerca specialistica, dall'altro quello della rincorsa un po' affannosa, seppur molto convinta, agli aspetti più effimeri di una modernità e a una visibilità mediatica ottenuta sfruttando dell'antico soprattutto il potere di richiamo fascinoso ed esotico. In entrambi i casi, speculari negli effetti, la disciplina archeologica dimostra la sua lontananza dalla contemporaneità e la sua incapacità di proporsi come una scienza in grado di confrontarsi e interagire con questa postmodernità dai troppi e troppo evanescenti riferimenti, che si contorce alla ricerca di certezze identitarie in un presente immemore.

E così molte delle mostre per le quali pur si aggirano tanti visitatori, spesso più intimiditi che affascinati, si rivelano sequenze un po' algide e autoreferenziali di statue, pitture, oggetti pur bellissimi, che solo di rado riescono nel tentativo di "svelamento" di un mondo ormai disperatamente lontano non solo nel tempo. In questi eventi risulta spesso prudentemente assente il tentativo di interpretare l'antico nel suo rapporto con l'oggi: che può anche essere conflittuale o stravolto, ma va "scoperto" perché questi oggetti possano davvero dirci qualcosa e rendersi di nuovo preziosi e utili in quanto conosciuti e riconosciuti come parte di noi e della nostra cultura.

L'antichità, nel suo aspetto oggettuale rappresentato dal patrimonio archeologico, per raccontarci di sé e di noi stessi, avrebbe dunque bisogno del bisturi tagliente e preciso che solo operazioni intellettualmente innovative sono in grado di usare e che ultimamente solo in pochissimi casi è dato riconoscere. Almeno dove ci si attenderebbe di trovarle: personalmente tale capacità critica l'ho ritrovata piuttosto in una esposizione di tutt'altro genere, il Festival della fotografia romano.4 Nell'ultima edizione allestita in varie sedi capitoline, la sezione del Palazzo delle Esposizioni era dedicata, come ogni anno, a Roma: fra le opere selezionate quelle di Raffaela Mariniello e Shi Guorui riuscivano a restituire, in un fotogramma, un'interpretazione né accademica né oleografica di due famosissimi monumenti archeologici (il Colosseo e la Colonna Antonina), illuminandone, con la sintesi spiazzante di cui sono capaci gli artisti, le contraddizioni di oggetti ormai mercificati e ridotti al ruolo di quinte scenografiche o gadget monumentali su un palcoscenico allestito non più per i cittadini, ma per quell'apoteosi del consumatore che sono i turisti.


Note

(1) "Roma e i Barbari. La nascita di un nuovo mondo", Venezia, Palazzo Grassi, 26 gennaio - 20 luglio 2008 (www.palazzograssi.it/roma/it/index.html).

(2) "La forza del bello. L'arte greca conquista l'Italia", Mantova, Palazzo Te, 29 marzo - 6 luglio 2008 (www.laforzadelbello.it/ita/mostra.asp).

(3) "Exempla. La rinascita dell'antico nell'arte italiana: da Federico II ad Andrea Pisano", Rimini, Castel Sismondo, 20 aprile - 7 settembre 2008 (www.mostraexempla.it).

(4) "FotoGrafia. Festival Internazionale di Roma" - "Vedere la normalità", Roma, Palazzo delle Esposizioni, 4 aprile - 25 maggio (www.fotografiafestival.it).

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