Rivista "IBC" XIV, 2006, 4

musei e beni culturali, biblioteche e archivi / corrispondenze, interventi, storie e personaggi

Cosa accade, nel museo, se l'oggetto tradizionale dell'osservazione si anima e solleva il suo sguardo, puntandolo dritto negli occhi dell'osservatore?
Oltre lo specchio

Franca Di Valerio
[museologa]

"Strange days have found us / Strange days have tracked us down [...] Bodies confused / Memories misused"1 cantava Jim Morrison nell'ormai più che remoto 1967. E strani tempi davvero, ci sentiamo di echeggiare, corrono nella museografia pertinente a quelle che comunemente definiamo culture altre, altre da quelle occidentali. Lo dimostrano alcune recentissime realizzazioni un po' ovunque in Europa. Strani tempi e memorie davvero maltrattate: dopo decenni di dibattito ed elaborazione sulla museologia postcoloniale, postmodernista e/o poststrutturalista, con i suoi profondi e a volte epocali cambi di paradigma, ci sembra che bizzarramente si stia regredendo a qualcosa di simile a ciò che Jacques Lacan, nella sua teoria psicoanalitica, definiva "le stade du miroir", lo stadio dello specchio.

In sintesi, e semplificando, è come guardando in uno specchio che il sé identifica e costruisce a un tempo e altro, quest'ultimo distinto e identificato attraverso le sue differenze, originando di conseguenza la concezione di una identità strutturata basata sulla separazione tra sé e altro, separazione che Lacan chiama "immaginario". In questo processo il ruolo dello sguardo è fondamentale in quanto rappresenta il nesso dialettico tra i due opposti.

Traslando tutto ciò nel linguaggio museografico, è proprio un approccio del genere, attraverso lo sguardo, che si sta affermando: ma a ben guardare (e ci si perdoni la tautologia) si tratta di uno sguardo riflessivo, ripiegato su sé stesso, teso a riaffermare l'identità del sé attraverso le differenze che individua nell'altro. Inequivocabile dimostrazione ne è, per esempio, una delle mostre inaugurali del nuovo Musée du quai Branly (www.quaibranly.fr), aperto a Parigi nel giugno del 2006: "D’un regard l’Autre", questo è il suo titolo, ritenuta dal Museo stesso un "véritable manifeste pour le nouveau musée", ha come intento dichiarato mettere in prospettiva la molteplicità degli sguardi che l’Europa ha posato sulle culture altre da sé, appunto, ponendo la questione di tale alterità attraverso la presentazione di un insieme di oggetti (idoli, feticci, sculture primitive) "esteticamente eccezionali". Ripercorrendo la diversità di questi approcci, gli oggetti tracciano una storia della cultura occidentale nel suo rapporto con l’Altro, concepito sia come l’essere originale, puro e innocente, sia come il selvaggio o il cannibale dall’istinto sanguinario.

Come dire: uguali ma separati, in una nuova, più subdola formula di gerarchizzazione neocoloniale che sostituisce la retorica non più efficace della scoperta "transculturale" delle culture non europee da parte dell’arte modernista. Così, dopo decenni di autoanalisi e autocritica, di falsa dicotomizzazione tra arte ed etnografia (ma come si possono scindere forma e funzione, costantemente in evoluzione e rinegoziate nel corso del tempo e all’interno degli specifici contesti culturali?) la museografia occidentale sembra davvero annaspare nell’incapacità di produrre un’azione finalmente catartica, di osare percorsi davvero inediti.

E cosa accade, d’altro canto, quando chi è stato da sempre oggetto di osservazione solleva il proprio sguardo e di rimando guarda negli occhi l’osservatore? Può accadere, per esempio, la realizzazione di un’impresa museale come il National Museum of the American Indian, inaugurato a Washington nel 2004, che lungi dall’essere una incoerente "stravaganza del politically correctness",2 costituisce, all’oggi, una inedita e più che legittima metodologia interpretativa che finalmente interconnette gli oggetti con la presentazione e l’interpretazione di idee, persone e comunità che sono all’origine di quegli oggetti.

O ancora, alla Biennale internazionale di arti visive di Venezia, nel 2005, può verificarsi la presentazione di una mostra-installazione come Emendatio, dell’artista indiano James Luna, che riscopre e rende omaggio all’esperienza italiana di Pablo Tac, un nativo americano appartenente ai Luiseños della California meridionale (come Luna stesso). Tac, portato a Roma nel 1834 ad appena dodici anni di età per essere "osservato" e trasformato in un missionario, a sua volta osserva e reagisce allo sguardo degli altri, opponendovi la riaffermazione della propria identità e coscienza native attraverso la scrittura di una storia del suo popolo e di una grammatica della propria lingua.

Queste testimonianze uniche sono oggi conservate presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, tra i documenti lasciati alla città dal cardinale Giuseppe Mezzofanti (1774-1849), che all’epoca dell’arrivo di Pablo Tac a Roma era il segretario della Congregazione di Propaganda, l’istituzione preposta alla formazione dei missionari cattolici.3 In questi scritti, studiati successivamente dal linguista Carlo Tagliavini (1903-1982), rimasti incompiuti a causa della prematura morte di Tac (sulle cui cause influirono probabilmente il confinamento forzato e il disadattamento alla vita nel collegio), troviamo intercalate alle annotazioni grammaticali considerazioni sulla condizione del proprio popolo nella missione francescana di San Luis Rey, una delle più estese e ricche missioni spagnole, fondata nel sud della California nel 1798. Attraverso la descrizione di come i Quechnajuis (Popolo del West), ribattezzati Luiseños dal nome della missione dopo essere stati convertiti al cristianesimo, conservino tenacemente i propri rituali e le proprie cerimonie, Pablo Tac contesta la percezione e la rappresentazione che la cultura occidentale ha elaborato del suo popolo, riaffermando la propria storia e la propria memoria a fronte di quella costruita e imposta da qualcun altro.

È a Tac, e al suo impegno di "rettificare", di "emendare" una storia e una memoria imposte, che si ispira James Luna, uno dei più celebrati tra gli artisti e performers nativi americani contemporanei,4 quando, intrufolandosi nello spazio museale, utilizza la propria arte per decostruire e smascherare i significati attribuiti, gli apriorismi delle narrazioni univoche e rassicuranti che riguardano le "presentazioni" e le "interpretazioni" che delle culture "altre" il museo mette in scena. Egli si inserisce, letteralmente e fisicamente, con il proprio lavoro artistico e la propria persona, nella sintassi dell’allestimento museale e degli elementi cognitivi che esso veicola, e usando umorismo e ironia, soprattutto autoironia, ne scardina i presupposti e ne smonta le singole tessere, che nell’insieme dovrebbero produrre "conoscenza", ma che spesso sortiscono l’effetto opposto, reiterando ignoranza ( www.americanindian.si.edu/exhibitions/emendatio).

Così facendo, Luna tuttavia riconferma una conoscenza e una storia "altre": la propria e quella della propria gente, al di fuori e oltre l’attribuzione dei ruoli. È questo che accadeva, già nel 1987, nella performance The Artifact Piece, in cui l’artista "installava" sé stesso in una vetrina del San Diego Museum of Man, nella sezione dedicata agli Kumeyaay Indians che un tempo abitavano la regione. Giacendo immobile per sei ore, coperto solo da un perizoma di pelle, erano le didascalie poste in corrispondenza di alcune cicatrici presenti sul suo corpo a parodiare la decodificazione di un presunto significato contenuto nelle cicatrici stesse, "segni" sul suo corpo, ma anche "significanti" di "misteriosità", di "stato di natura", di "selvaggio".

Luna non ha risparmiato neppure, e a maggior ragione, l’archetipo per eccellenza della consolidata tradizione museale occidentale: in The Shameman meets El Mexican’t at the Smithsonian Museum and Country Club l’azione si svolge all’interno del National Museum of Natural History della Smithsonian Institution. Qui – occupando e animando lo spazio e il tempo di un diorama, circondato da diorami veri, congelati in ciò che Gore Vidal (in un suo caustico romanzo sulla Smithsonian, appunto) ha definito "the exhibit time" – Luna pratica una sorta di antropologia à l’envers eseguendo una serie di tableaux vivants: un Indiano-lustrascarpe che si offre di pulire le scarpe dei visitatori; un Indiano-diabetico che si inietta l’insulina direttamente nello stomaco; un Indiano-custode che spazza il pavimento del diorama.

L’effetto di tutto questo sull’allestimento circostante, con Indiani-manichini abbigliati nei costumi caratteristici, impegnati a svolgere "caratteristiche attività indiane" (citando ancora Vidal) è l’esplicitazione assolutamente chiara ed inequivocabile di come la rappresentazione storica dei Nativi e la costruzione di una identità indiana immaginaria vengano in definitiva prodotti all’interno dello sguardo, e della memoria, di altri: "Sono considerati veri Indiani quelli morti da tempo" – dichiara Luna – "quelli vivi oggigiorno sono poco interessanti perché sono ibridi culturali che calzano Reebok piuttosto che mocassini".

Dunque l’azione teatrale di James Luna smaschera la teatralità implicita dell’esposizione museale, come in Petroglyphs in Motion, dove l’artista si fa beffe di un altro mito, o meglio feticcio, che impera nell’immaginario occidentale: quello della "purezza culturale" dei Nativi. I suoi personaggi (un artista di strada, un coyote in calore, un ubriaco, uno sciamano che distribuisce condom, un capo indiano senza gambe su una sedie a rotelle con occhiali da sole e copricapo tradizionale) e gli stessi costumi che indossa (un costume da bagno, mocassini con perline, occhiali da sole, un telefono, un crepitacolo) sono uno sferzante miscuglio di indicatori culturali sia nativi che "bianchi", simboli di ibridazione e movimento, ma anche di persistenza fisica e culturale.

È a questo uso dello spazio museale come luogo "liminoide", multivocale, in cui si esercita e si sperimenta una cultura multiforme e delle differenze, che crediamo si debba aspirare. Come Alice, bisogna avere il coraggio di chiedersi com’è il mondo al di là dello specchio e attraversarlo. E non limitarsi a fissarlo.

 

Note

(1) Strange Days, The Doors, 1967.

(2) "Se per esempio lei va negli Stati Uniti, oggi, i musei che rappresentano le culture indiane del Nord America sono organizzati dagli Indiani [...] Il risultato è una presentazione molto molto idealizzata delle cose e in ogni caso molto... molto falsa, anche se appagante per gli stessi Indiani, visto che in questo modo si riflettono in uno specchio che gli appare come... uno specchio conveniente". Si veda: E. Désveaux in V. Lusini, Gli oggetti etnografici tra arte e storia, Torino, L’Harmattan Italia, 2004, pp. 90-91.

(3) C.W. Russell, Life of Cardinal Mezzofanti, London, Longman & Green, 1858.

(4) Il 10 giugno 2006, a Firenze, durante l’incontro nazionale annuale della Società italiana di antropologia ed etnografia (SIMDEA), James Luna è stato insignito del premio "Museo Frontiera", assegnato a esperienze museali significative e innovative in campo nazionale e internazionale ( www.jamesluna.com).

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