Rivista "IBC" XIV, 2006, 4

musei e beni culturali / itinerari, storie e personaggi

Nel culto di un'immagine sacra la storia di un doppio viaggio. Un legame che unisce, a distanza di secoli, l'Emilia-Romagna all'America.
Nostra Signora di Guadalupe

Luca Villa
[collaboratore dell'IBC]

La storia, a volte, rassomiglia a un grande porto. Le navi approdano, salpano, per poi riprendere nuovamente il mare. A bordo, i marinai mollano gli ormeggi e, ignari di quanto li aspetta, attendono la fine della navigazione per sapere come sarà andato il viaggio. Altrettanto dovrà impegnarsi a fare il lettore di fronte a questa storia, in cui al rumore delle onde del mare si sostituisce il sommesso recitare delle preghiere, e dove la fede prende il posto dell'immensità degli oceani.

In questa storia sono state proprio le rotte transoceaniche ad avere unito i destini di molti uomini. I primi missionari cattolici giunti in Messico per portare il Verbo del Signore, infatti, a distanza di pochi anni dal loro arrivo non si sarebbero certo aspettati di partecipare a un evento tanto straordinario come l'apparizione della Vergine Maria sul colle Tepeyac, nei pressi di Città del Messico. Eppure, il 9 dicembre del 1531, l'immagine si manifestò, per poi rimanere miracolosamente impressa sul mantello dell'umile contadino a cui era apparsa, un indio convertitosi alla religione cattolica e ricordato con il nome di Juan Diego, a cui questa Vergine dal viso azteco disse di voler essere invocata come: "La Perfetta Vergine Santa Maria di Guadalupe".

Così come crebbero i cattolici, il culto della Vergine di Guadalupe si diffuse in tutti i territori della Nuova Spagna e dell'America Latina. Nulla sembrava poter interrompere la fusione in corso tra cultura americana e religione cattolica. Lo stesso soprannome dato alla Vergine - la morenita, ovvero la "bruna" - ci rammenta ancora una volta come Ella si fosse manifestata con caratteristiche somatiche evidentemente americane, e ci permette di immaginare come poté essere facile per i missionari cattolici imporre dolcemente il loro credo supportati da un fenomeno capace di creare enormi suggestioni tra i semplici contadini mesoamericani.

Anche oggi accade qualcosa di simile in ogni parte del mondo, se ci fermiamo un momento a riflettere sui tanti casi di miracoli veri o presunti che si ripetono ovunque. L'unica verità che non può dirsi misteriosa, forse, è che la maggior parte delle persone ha bisogno di credere in qualcosa di soprannaturale per spiegarsi l'imprevedibilità della vita. Certamente essere assoggettati sul proprio territorio da un esercito mai conosciuto prima, venuto da un mare vastissimo di cui non si conoscono i confini, con i vessilli di una nuova religione, resta un fatto piuttosto arduo da prevedere; mascherare la superiorità dell'avversario dietro una patina di magico, di miracoloso, riduce le responsabilità di chi non ha saputo contrapporsi alla minaccia rappresentata dagli invasori. Tuttavia, sebbene siano passati quasi cinque secoli, il mantello, la tilma di Juan Diego, è ancora visibile nel santuario dedicato alla Vergine fatto erigere dal clero messicano nel luogo dell'apparizione a pochi anni di distanza.

Il viaggio che aveva portato i missionari in America si ripeté poi in senso inverso due secoli più tardi. Le due culture, i conquistadores e i conquistati, si erano ormai mescolate, e nuove istituzioni religiose già conosciute nel Vecchio Continente erano nate anche nei territori americani. L'evangelizzazione e l'istruzione del popolo, allora, erano spesso affidate ai gesuiti, famosi per le missioni popolari soprattutto grazie all'iniziale opera di Francesco Saverio. In virtù dell'impegno profuso, le risorse a disposizione della Compagnia di Gesù si erano nel frattempo moltiplicate e l'influenza culturale che i dotti gesuiti esercitavano sulla società del loro tempo spinse i sovrani iberici a formulare decreti di espulsione dai territori in loro possesso a partire dalla seconda metà del diciottesimo secolo. I religiosi erano tanto apprezzati dal popolo quanto invisi al potere secolare che su di esso dominava: così, nel 1767, altre navi salparono dalla Nuova Spagna, riempite dai frati, dai novizi, dagli studenti e dal clero secolare gesuita, che stiparono le stive di libri, arredamenti sacri, immagini e quanto altro riuscirono a portare nella traversata.

L'approdo sarebbe dovuto essere entro i confini dello Stato della Chiesa, in cui arrivarono solo due anni più tardi, dopo essere stati costretti a fermarsi in Corsica. Rimasero sull'isola per circa un anno in attesa del momento propizio per raggiungere il porto di Genova e, da lì, le legazioni pontificie della Romagna, "ove si dispersero conservando tuttavia l'unione delle diverse province. A Ferrara trovarono ricetto i gesuiti dell'Aragona, del Perù e - in parte - della Nuova Spagna, a Imola i cileni, a Faenza i paraguaiani, a Forlì la provincia di Toledo, a Rimini gli andalusi, i restanti americani si stabilirono a Pesaro, Fano, Senigallia, Gubbio. A Bologna e nei borghi del suo territorio (Cento, San Giovanni in Persiceto, Budrio) ripararono i Gesuiti della provincia di Castiglia e la maggior parte dei messicani. Per la città significò un aumento della popolazione di 600 persone circa".1

La fervida attività dei gesuiti riprese in un ambiente che in principio sembrò essere maggiormente propizio, considerato il radicamento sul territorio della Compagnia di Gesù. A riprova di ciò basta pensare ai prestigiosi collegi nobiliari da loro eretti nella sola Bologna a partire dal XVI secolo. Alcuni dei gesuiti americani e spagnoli, conosciuti anche con l'appellativo di desterrados, ottennero la docenza presso l'antico Studio bolognese, mentre altri si distinsero per le doti letterarie. Senza dimenticare i drammi e le opere di Colomes, Lassala e Salazar, meritano una menzione, per il valore storico dei loro studi, Juan Ignacio Molina, autore della Storia Naturale del Chile (1782) e del Saggio sulla storia civile del Chile (1787), e Francisco Xavier Clavigero, che scrisse la Storia antica del Messico cavata da' migliori storici spagnoli e da' manoscritti e dalle pitture antiche degli indiani (1780-1781), ponderosa opera in quattro volumi.

In generale, è sufficiente scorrere i nomi delle famose accademie bolognesi e confrontarli con gli elenchi dei gesuiti giunti in Italia, per ritrovare numerosi esuli spagnoli e americani che contribuirono all'arricchimento della cultura italiana ed europea dell'epoca. Basti pensare che tra gli studenti del Molina ci furono Camillo Ranzani e Filippo Re, e che le sue opere furono tradotte in francese, tedesco e inglese. Finché fu loro consentito, i desterradosamericani si distinsero ugualmente per la loro alacrità nel proseguire l'impegno di carattere religioso. La decisione di sciogliere la Compagnia di Gesù era tuttavia prossima e fu definitivamente adottata dal papato con il Breve Dominus ac Redemptor nel 1773, solo dopo pochi anni dalla fuoriuscita coatta dalle Americhe.

Nonostante gli ostacoli, i gesuiti proseguirono l'attività con missioni popolari nel territorio romagnolo e con le consuete funzioni ordinarie nelle parrocchie locali. Tra gli oggetti che avevano recato con sé, c'erano alcune immagini della Vergine di Guadalupe, il cui culto, fortemente sentito dai gesuiti di provenienza americana, fu trasferito così nelle diocesi dell'Emilia-Romagna. Nel mese di marzo del 1778, Don Toschi, parroco della chiesa di San Giacomo a Imola, annotava nei suoi diari: "Il sig. Don Pietro Gagliardo ex Gesuita Sacerdote venuto dal Messico, e abitante in Castel S. Pietro venne da me tempo fa a richiedermi se avessi ceduta una delle Cappelle nuove fabbricate [...] per dedicarla alla SS.ma Vergine S. Maria di Guadalupe del Messico. Risposi che non avrei avuto difficoltà di concederla [...] Ottenni dall'Emm.mo sig. Cardinale Gian Carlo Bondi nostro vescovo di far celebrare nella chiesa di S. Jacopo un sacro Triduo ne' tre ultimi giorni di Carnevale che furono quest'anno il 1, 2 e 3 marzo coll'esposizione del SS.mo Sacramento e della S. Imagine e così si fece".2

L'immagine della Vergine, conservata tuttora in una cappella nella Chiesa del Carmine di Imola, non era l'unica giunta insieme ai desterradosgesuiti in Romagna, tant'è che fu oggetto di uno scambio con la parrocchia di Castel San Pietro descritta dallo stesso parroco qualche riga dopo: "Non piacque però a loro [Zappata e Mindel] l'Imagine della Madonna lasciata dal sacerdote in principio lodato sig. D. Pietro Gagliardo perché troppo piccola e non troppo ben dipinta. Epperò il Zappata e il Minedn [?] sapendo che in Castel S. Pietro dimorava un messicano comodo di denaro che chiamasi il Sacerdote Francesco Calderon e aveva una grande Imagine, si fecero animo a dimandargliela e quantunque l'avesse negata ad altri facilmente gliela concesse [...]. Onde subito la portarono in Imola e li diedero in cambio la piccola del Gagliardo".

Il mandato di riprodurre tele raffiguranti la Vergine di Guadalupe fu affidato allora a pittori locali, per poter porre rimedio all'esiguo numero di immagini provenienti direttamente dal continente americano a disposizione dei gesuiti e della popolazione. Popolazione che, se fu attratta da questo culto, si vide costretta a dimenticarne in fretta l'origine a causa dei continui ostacoli affrontati dai desterrados anche all'interno dei territori amministrati dal papato. Dispersi nei paesi e nelle città dell'Emilia-Romagna, i gesuiti talvolta riuscirono a conservare il culto della Vergine di Guadalupe, che prima d'ogni altra cosa rammentava loro le radici recise di un'identità impossibile da dimenticare, ma che nonostante tutto li univa ai cattolici italiani attraverso una fortissima esperienza di condivisione religiosa.

Il compito di ricostruire la storia di tutte le immagini e quindi della presenza dei desterrados gesuiti oggi risulta altrettanto arduo a causa delle difficoltà che essi stessi ebbero a mantenersi attivi nella loro opera. Nella sola Diocesi di Bologna si contano numerose riproduzioni e alcuni originali. A Medicina può essere ammirata una bella riproduzione di epoca napoleonica. A Minerbio si conserva una copia che recenti studi hanno stabilito essere apparsa per la prima volta nell'inventario parrocchiale del 1859, probabile dono di un ex gesuita, padre Antonio Bresciani.3

A Sasso Marconi l'attuale parroco, durante una delle periodiche benedizioni, in una casa privata ha scovato una piccola tela a olio che riproduce l'immagine della Vergine. Sul retro del quadro un'iscrizione di un recente proprietario (1929), ne traccia la storia: "Qui incollata vi era una carta scritta a mano quasi corrosa dalle tarme, dove si dichiarava che questa Madonna fu portata dalla Guadalupa nel Messico da certo fra Diego e da questo regalata al Sig. Domenico Maria Bettini compadrone della cappella di San Michele dei Cipressi nell'anno 1780".

Nella stessa città di Bologna si possono trovare immagini della Vergine di Guadalupe in due chiese. In una di esse - la chiesa di Santa Caterina, ubicata in via Saragozza, curiosamente ai piedi della passeggiata che conduce al Santuario della Beata Vergine di San Luca - sono addirittura due i quadri che raffigurano la Vergine: una tela originale messicana e una riproduzione che è stata sistemata in una delle cappelle laterali. L'ultimo tratto della nostra traversata si conclude proprio qui, oggi. Un gruppo di religiosi e di fedeli ha infatti deciso di rinnovare la celebrazione della Vergine di Guadalupe nel giorno che la Chiesa ha voluto dedicarle, il 12 dicembre. A partire dal 1998 gli immigrati di origine centro-sudamericana, i filippini e i fedeli parrocchiani di Santa Caterina, si uniscono per festeggiarla, per condividere insieme il loro sentimento religioso come accadeva due secoli fa. Perché anche noi, come i marinai del passato, siamo ignari di quanto ci aspetta. E dovremo attendere la fine della navigazione per scoprire come sarà andato il viaggio.

 

Note

(1) Dall'isola alla città. I gesuiti a Bologna, a cura di G.P. Brizzi e A.M. Matteucci, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1988, p. 198.

(2) R. Fiorentini, Il Carmine d'Imola in Borgo S. Giacomo (sec. X-XX), Imola (Bologna), Galeati, 1981, p. 266.

(3) Si veda: G. Sapori, C.F. Dotti. La chiesa arcipretale di San Giovanni Battista in Minerbio, Bologna, Pardes Edizioni, 2006.

 

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