Rivista "IBC" XIV, 2006, 2

musei e beni culturali / mostre e rassegne, pubblicazioni, storie e personaggi

Dal Romanticismo all'Informale. Ravenna ricorda il grande maestro rendendo visibile, opera per opera, una delle sue intuizioni più profonde: il legame che unisce, a distanza di secoli, i paesaggi di Turner a quelli di Pollock.
E poi venne Arcangeli

Claudia Collina
[IBC]

Saremo polvere, e la nostra morte

sarà già tramontata da gran tempo;

nel mondo non sarà nemmeno un'ombra

che ricordi l'amore che patimmo

e non ci resterà che germogliare

in erbe sterili di primavera:

ma pure in qualche sera tornerete,

stelle d'inverno,

a brillare nel gelo casto e dolce

di un gennaio tranquillo, e come a un lampo

di memoria trasalirà la veglia

di qualcuno su bianchi fogli, e ancora

mormorerà sotterra al nostro amore.

F. Arcangeli, Stelle d'inverno, 14 gennaio 19461

 

Al Museo d'arte della città di Ravenna è in corso, sino al 23 luglio 2006, l'importante mostra "Turner Monet Pollock. Dal Romanticismo all'Informale. Omaggio a Francesco Arcangeli": è il secondo appuntamento curato da Claudio Spadoni, dopo quello dedicato a Roberto Longhi nella mostra del 2003 "Da Renoir a De Staël: Roberto Longhi e il moderno", con i padri della storia e della critica d'arte del Novecento che hanno insegnato nell'Università di Bologna e formato numerosi allievi nelle aule dell'Istituto di storia dell'arte intitolato a Igino Supino; ma soprattutto è la riproposta del valore del metodo e dell'eredità critica di due storici dell'arte di livello internazionale.

Gli anni in cui Arcangeli si trovava a essere protagonista della scena culturale sono quelli della Seconda guerra mondiale e della difficile ricostruzione; gli anni del conflitto artistico tra figurativo e astrattismo e dell'esplosione della poetica informale in USA e in Europa. A questo punto la mostra, curata magistralmente da Claudio Spadoni, e gli interventi in catalogo di Ezio Raimondi, Andrea Emiliani, Bruno Toscano, Marco Antonio Bazzocchi, Michela Scolaro, Elena Volpato e dello stesso curatore, coadiuvato da Alberta Fabbri e Claudia Casali, diventano un ottimo viatico alla comprensione della statura scientifica di Arcangeli; insieme con le affettuose testimonianze di Bianca Arcangeli e Mina Gregori.

Bolognese, Francesco Arcangeli nasceva nel 1928 all'interno di una famiglia di talenti artistici di vibrante sensibilità, come il fratello poeta Gaetano, il musicista Nino e la sorella pittrice Bianca Rosa (Rosalba). Dopo un precoce esordio letterario su "L'Assalto", egli virava verso la storia dell'arte al secondo anno d'università, folgorato, come l'amico Alberto Graziani, dalla famosa prolusione tenuta da Roberto Longhi all'Università di Bologna. E sotto la guida longhiana si laureava nel 1937 con una tesi su Jacopo di Paolo nello svolgimento della pittura bolognese (gli affreschi del Capitolo di Pomposa). Fuori da qualsiasi tipo di specializzazione - che purtroppo ha connotato il moltiplicarsi delle generazioni seguenti di storici e critici dell'arte in nome di una pretesa scientificità - e con una solida base percettiva appresa al fianco di Longhi, Arcangeli iniziava a insegnare Storia dell'arte nel 1941, al Liceo Minghetti, e vi affiancava l'assistentato universitario con Longhi e la missione di funzionario conservatore delle opere della Soprintendenza delle Gallerie di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna, per la salvaguardia del patrimonio artistico dell'Italia entrata in guerra nel 1940. Nel 1960, dopo un ventennio d'intensa attività scientifica, per la quale si rimanda alla lettura della bella biografia di Elena Volpato, diventava direttore della Galleria d'arte moderna di Bologna restituendole un nuovo ordinamento delle collezioni che coniugasse la corretta articolazione e relativa fruizione tra arte moderna e contemporanea. Nel 1967 vinceva il concorso universitario, ereditando la cattedra del maestro. Nel 1972 veniva chiamato alla direzione artistica della Biennale di Venezia; e nel 1974, dopo l'ultimo contributo in Ricordo di Roberto Longhi, avveniva la sua dipartita.

Impossibile l'esistenza di Arcangeli senza la lezione di Longhi; realistico, invece, il contrario. Come ricorda George Steiner ne La lezione dei maestri:

 

Il vero insegnamento può essere un'impresa terribilmente pericolosa. Il maestro vivente prende nelle sue mani quella che è la parte più intima dei suoi studenti, la materia fragile e incendiaria delle loro possibilità. Mette le mani su ciò che noi concepiamo come l'anima e le radici dell'essere, una presa di cui la seduzione erotica è la versione minore, benché metaforica. Insegnare senza grave apprensione, senza un'inquieta riverenza per i rischi connessi, è frivolezza. Farlo senza riguardo per le conseguenze individuali e sociali che potrebbero derivarne è cecità. Insegnare con grandezza significa suscitare dubbi nell'allievo, allenare al dissenso. È preparare il discepolo al distacco. Un maestro di valore dovrebbe, infine, essere solo.2

 

Tutto ciò avveniva nel rapporto tra i due, in un clima di rispetto e stima reciproca che, sono convinta, non venne mai a mancare interiormente anche quando Arcangeli, attraverso le sue coraggiose scelte sull'arte a lui contemporanea, spostava il baricentro ermeneutico della storia dell'arte dalla Francia agli Stati Uniti, rinnovando l'inevitabile relazione tra maestro e discepolo che si ripete dai tempi antichi all'epoca preelettronica, ossia l'osmosi tra "la fedeltà umana e il tradimento, i comandamenti d'amore e ribellione [nel] loro reciproco esigersi".3

Cosa ereditava Arcangeli da Longhi? La lettura dell'opera d'arte come fonte primaria, il "documento parlante", il desiderio di una costante rilettura della storia dell'arte che si fa nel suo divenire storico (si ricordi la lotta "antivasariana" avanzata da Longhi per riequilibrare il codificato primato dell'arte toscana rispetto alle altre scuole regionali dell'Italia), la proposta dei tramandi e delle differenze tra gli autori attraverso la lettura purovisibilista e, come ricordava lo stesso Arcangeli, la penetrazione del "senso riposto ed emozionale dell'arte [...] entro il contesto d'una rete inesauribile di fatti e di rapporti [che privilegiavano] una qualità piuttosto che una quantità".4

Eredità importante, quindi, che si rifletteva nella diversa personalità e umanità di Arcangeli come riverbero del suo paesaggio interiore campito da qualità emozionali Sturm und Drang, etica e stoicismo, uniti a un consapevole esistenzialismo che, se da un lato sfiorava le riflessioni di Sartre sull'essere - con la parzialità presente in ogni cosa del cosmo e dello spazio, ma sempre celata nella sua finitezza - approdava poi al diapason de L'homme révolté di Camus per l'immediata adesione e relativa immedesimazione in quel "tutto ostinato e teso" tra "arte e vita". E, in termini critici, era uno scandaglio delle opere in perenne bilico tra storia dell'arte e letteratura, ove, per via di metafora, Arcangeli penetrava la superficie dell'opera indagandone la sua esistenza nell'universo storico artistico e reale, con una perenne problematica dell'esistenza in lotta con la materia.

Così, osserva Ezio Raimondi, "proprio mentre riproponeva il grande metodo longhiano, Arcangeli lo trasformava radicalmente: quella traslazione da Caravaggio ai romantici, che nel saggio sullo spazio romantico diventa la tangente Rembrandt-Turner, indicava, per l'appunto, come lo studioso aveva dichiarato, che le forme andavano interrogate nei loro significati profondi", anticipando, in nuce, un approccio d'indagine, sviluppato e trasformato poi anche dalla moderna semiologia, proiettato verso una ricerca di "significati reali rispetto alla verità naturale e moderna",5 in una direzione di necessaria palingenesi della storia dell'arte attraverso la critica.

La "modernità romantica" del pensiero dello studioso diventa il fil rouge della mostra, in cui Spadoni ci chiarisce come "il romanticismo fosse la stagione fondamentale di un nuovo pensiero e una diversa coscienza della modernità, e dunque si costituisse come punto di riferimento imprescindibile per una visione della storia che coinvolgeva profondamente l'attualità" e diventava un continuum di tramandi di artisti quali stazioni di un unico viaggio tra i romantici inglesi e l'informale, per mezzo di una lente, intellettuale ed emotiva, che "tende al futuro con uno sguardo all'indietro".6 E questo avveniva anche nell'individuazione di quella fondamentale koinè di "natura ed espressione" che ha innervato l'arte bolognese ed emiliana, dalle sue radici romaniche agli ultimi naturalisti, restituendole l'importanza di essere "via europea della cultura figurativa" e toccando l'acme scientifico di questo "viatico" con il volume dedicato a Giorgio Morandi. Ed è proprio Andrea Emiliani che rievoca, con sensibilità lucida e squisita, i delicati passaggi della genesi della monografia morandiana e come essa segnava, per l'artista bolognese, l'infrangersi dell'amicizia e della stima che lo legava al critico: che si trovò a soffrire profondamente di questa incomprensione ostinata. È certo che, nonostante qualche lieve forzatura, il Morandi di Arcangeli rimane, tuttora, un capolavoro di esegesi storico-artistica e critica di raro respiro intellettuale.

Infine, è da sottolineare l'originalità con cui Michela Scolaro e Marco Antonio Bazzocchi affrontano l'argomento: la prima, con tendenze neowarburghiane, stila un atlante della personalità critica arcangeliana attraverso "l'eternità imperfetta dell'arte" e la filosofia, mentre il secondo, con una fine esegesi del corpus letterario del critico, giunge a restituirci l'unità di pensiero e prassi con cui Arcangeli "ascoltava", dal profondo, la realtà attraverso la sua rappresentazione visiva.

Le opere in mostra sono di qualità straordinaria e ordinate intelligentemente da Spadoni, che in questo impegno riflette l'intimità e continua il dialogo con il maestro riproponendone il reticolato di tramandi con Reynolds, Gainsborough, Turner, Constable, Corot, Courbet, Fontanesi, Monet, Sisley, Renoir, Cézanne, Lega, Fattori, Bertelli, Segantini, Sickert, Klee, Soutine, Permeke, Carrà, De Pisis, Morandi, Pollock, Tobey, Kline, de Kooning, Wols, Fautrier, Dubuffet, de Staël, Sutherland, Morlotti, Moreni, Mandelli, Bendini, Vacchi, Romiti, Burri, Leoncillo, Francese e Matta.

E qui sorge una domanda temeraria: quali sarebbero gli artisti "guardati" oggi da Arcangeli? Alla Biennale del 1972 egli osservava con apertura le prime espressioni d'arte concettuale che hanno poi teso e sotteso idee e forme degli ultimi trent'anni; avrebbe forse apprezzato il romanticismo dolente ed evocativo di Anselm Kiefer, le mappe materiche di radice informale di Mario Nanni, l'espressionismo esistenziale di Piero Manai e il naturalismo concettuale di Davide Benati e Pinuccia Bernardoni? Sia come sia, Arcangeli avrebbe comunque guardato a ogni sfida umana (e "non umanistica") dell'artista con la materia, come emerge anche nella sua poesia citata in epigrafe, versi in cui l'anima demiurgica dello scrittore lotta con la propria parola tra i fogli bianchi e l'inchiostro, nel buio di una coscienza fervida e faticata.

Resta solo il rammarico che la città di Bologna, la sua città, si sia lasciata sfuggire l'occasione di questo giusto omaggio al suo storico dell'arte... L'importante, ora, è che Francesco Arcangeli continui a vivere nella nostra memoria e che il suo "museo immaginario" ci accompagni nel nostro viaggio nella modernità.7

 

Note

(1) F. Arcangeli, Stella sola, Cittadella (Padova), Bertoncello Artigrafiche, 1996, p. 37.

(2) G. Steiner, La lezione dei maestri, Milano, Garzanti, 2004, pp. 99-100.

(3) Ibidem, p. 168.

(4) F. Arcangeli, Ricordo di Roberto Longhi, "Atti e memorie della Accademia Clementina di Bologna", XI, 1974, pp. 157-158.

(5) E. Raimondi, Arcangeli, Longhi e il romanticismo, in Turner Monet Pollock. Dal Romanticismo all'Informale. Omaggio a Francesco Arcangeli, a cura di C. Spadoni, Milano, Electa, 2006, p. 53 e p. 52.

(6) C. Spadoni, Una modernità romantica, in Turner Monet Pollock, cit., p. 23 e p. 24.

(7) Desidero aggiungere una nota di riconoscenza personale a Vera Fortunati e Massimo Ferretti, allievi storici di Francesco Arcangeli e miei maestri, che non hanno mai smesso di ricordare la grandezza metodologica arcangeliana e la sua grande coscienza culturale europea e ne hanno mantenuta costantemente viva la memoria anche per chi è arrivato dopo, e arriverà ancora, a essere uno storico e un critico dell'arte in consapevole e onesto debito con la propria "lezione dei maestri".

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