Rivista "IBC" XII, 2004, 4

musei e beni culturali / storie e personaggi

Appassionato, coraggioso e non convenzionale, fino a diventare scomodo. Dello storico dell'arte Francesco Arcangeli, a trent'anni dalla scomparsa, si continua a sentire la mancanza.
Nostalgia di buoni maestri

Alessandra Rizzi
[storica dell'arte]

Il 22 novembre 2004 la Scuola di specializzazione in Storia dell'arte dell'Università di Bologna ha organizzato una giornata di studi in ricordo di Francesco Arcangeli in occasione del trentennale della morte. Abbiamo chiesto un intervento ad Alessandra Rizzi, autrice di un saggio che delinea un ritratto dello storico dell'arte a partire dallo stile personalissimo delle sue pagine (Francesco Arcangeli scrittore, Bologna, CLUEB, 2004).

 

Periodicamente, come le notazioni in agenda suggeriscono e gli scadenzari celebrativi impongono, vengono riproposte all'attenzione del momento figure del passato che offrono a chi le ignora un'opportunità per sapere e a chi le conosce l'occasione per riportarne la memoria al presente. Si parla in questo caso di riscoperta, cui viene associata anche l'intenzione di un risarcimento quando ci si renda conto che tempo e negligenza sono andati di pari passo e che il vuoto proclamato incolmabile al tempo del lutto, anche se sinceramente sentito come dolorosa perdita, è stato via via occupato dalle cure di ogni giorno. Per Francesco Arcangeli è accaduto che la riscoperta, a trent'anni dalla morte, avvenuta il 14 febbraio 1974, sia da ricondursi non tanto ad una rituale e puntuale rivisitazione della sua opera di storico e critico d'arte, chiusa nella contingenza di una stagione datata, ma alla constatazione che la sua intera personalità, quale può ricostruirsi con documenti e testimonianze, è in grado di rispondere ad un bisogno del nostro presente. Non si tratta quindi di compensare un'assenza di decenni ma di affrontare con responsabilità il disagio che si avverte allorchè si osservano con scoramento gli effetti di un'avara contabilità dei sentimenti, di un'algida robottizzazione dei gesti, di una programmata atonia dell'anima.

In un recente articolo intitolato appunto La riscoperta di 'Momi', Claudio Spadoni ricorda il primo corso universitario (1967-1968) tenuto da Arcangeli - Momi per familiari e amici - su naturalismo ed espressionismo nella tradizione bolognese-emiliana:


Indimenticabile per quanti hanno avuto, come chi scrive, la fortuna di seguirlo, e di essere così iniziati ad un rapporto con la storia dell'arte quasi inimmaginabile nel clima culturale di quel tempo. Rapporto che significava partecipazione senza riserve, coinvolgimento totale, ecco, passione. Una parola difficile da pronunciare, oggi, quando l'esercizio della critica d'arte, quasi totalmente sradicato dalla formazione storica, ha perduto ogni identità e non si saprebbe più come definirlo al di fuori delle strategie promozionali o manageriali, come usa dirsi con una terminologia entrata di forza anche nel lessico artistico.


Sta qui probabilmente la ragione dell'interesse per Arcangeli da parte di giovani che non hanno potuto frequentarlo ma che ne hanno conosciuto il lavoro anche attraverso scritti inediti, gelosamente custoditi ma generosamente concessi dalla sorella Bianca. Come accade per la libertà o per la salute che si apprezzano maggiormente quando vengono meno, anche della passione generosa, dell'umanità partecipata, dell'emozione condivisa, avvertiamo ora una profonda nostalgia. In trent'anni il mondo è diventato più piccolo e le distanze planetarie sono strette in un reticolo informatico che comprime tempo e spazio fin quasi ad annullarli: la contemporaneità di ogni istante per ogni luogo produce vertigine e spaesamento; scarto fra sé e gli altri, fra sé e i luoghi, fra un proprio tempo relativo ancora percepito sul ritmo del respiro e sul battito del cuore ed un tempo estraneo, imprevedibile, fuori da ogni controllo e lontano da ogni speranza.

Arcangeli amava citare una dichiarazione di Willem De Kooning: "Questo spazio della scienza - lo spazio dei fisici - ne sono davvero annoiato, ormai. Le loro lenti sono così spesse, che visto attraverso, lo spazio fa sempre più malinconia... se tendo le braccia accanto al mio corpo, e mi domando dove sono le dita, ecco tutto lo spazio di cui ho bisogno come pittore". E commentava: "la mia generazione ha, prima di tutto, creduto e lavorato e sofferto perché si riaffermasse un inscindibile rapporto, di radice esistenziale, fra l'arte e la vita; a costo di rivolta duramente individuale, molto spesso".1 Si avverte in queste righe una riflessione di cui si può cogliere l'implicita proposizione morale. Vengono qui a proposito, per associazione mentale, certi passi della storiografia "esistenziale" di Vito Fumagalli che per passione, forza comunicativa e ricerca filologica piace avvicinare ad Arcangeli: pochi come lui hanno saputo cogliere in profondità, con gli strumenti della storia che gli erano propri, lo stesso senso della natura, del paesaggio, e di una umanità spesso vinta, talvolta soccombente, ma pur sempre combattiva.

Arcangeli è riuscito, suo malgrado, a essere scomodo. Lo è stato per Longhi che lo aveva formato come storico e ispirato come scrittore, ma che non lo aveva addomesticato come critico. Lo è stato per Morandi, il cui intangibile egoismo di artista gli faceva rifiutare paternità e fratellanze pittoriche portandolo alla crudeltà del disconoscimento del libro che Arcangeli aveva scritto su di lui perché questi, scavando profondamente nella sua arte, aveva turbato la pace del suo alto pensare e del suo quieto vivere. Lo è stato per tutti coloro che hanno tratto vantaggio dalla sua generosa disponibilità alla comprensione e al dialogo e che ne hanno poi preso le distanze quando un vento nuovo orientava le vele dell'opportunismo verso i porti comodi e protetti dell'omologazione. Gli è stata rimproverata una certa ingenuità autobiografica, come se mettere in gioco tutto se stesso equivalesse ad autoreferenziarsi. Il suo rapporto con l'arte è stato vissuto senza riserve, in modo coinvolgente, totale, fisico. La consapevolezza di un impegno che non può tenere separate conoscenza ed esperienza lo rendeva partecipe al farsi dell'opera d'arte, che non sentiva mai come un oggetto chiuso in una definizione materiale esaurita e risolta una volta per tutte. Interpretare un'opera vuol dire per lui sentirla e viverla a partire dalla condivisione dell'impegno creativo dell'artista. Vuol dire portare tutte le facoltà dei sensi e dell'intelligenza ad un tale grado di sensibilità da rendere percepibile (quando sangue o linfa ci siano) lo stesso pulsare della vita.

Francesco Arcangeli nasce a Bologna il 10 luglio 1915. Ha tre fratelli maggiori: Angelo di dieci anni, Gaetano di cinque e Bianca di due. Sono uniti e legati, in modo particolare dopo la morte del padre, ad una madre intelligente e forte. Studieranno tutti nonostante i tempi siano difficili per molti; in casa Arcangeli si deve lavorare per vivere ma si vive soprattutto per studiare. Si conversa di letteratura e di arte. Si ama la musica. Gaetano parla a Francesco di poesia, del suo Pascoli in particolare, lo accompagna per chiese e musei, gli apre gli occhi e la mente all'arte. Sono anni di formazione morale e culturale che ne strutturano fortemente la personalità ma ne condizionano anche la sensibilità, tanto da renderlo capace di affrontare con slancio doveri e sacrifici ma anche vulnerabile di fronte a disillusioni e abbandoni.

L'orientamento decisivo verso gli studi storico-artistici avviene dopo l'incontro con Roberto Longhi. Con lui Francesco si laurea nel 1937 con una tesi su Jacopo di Paolo ed al suo insegnamento resterà fedele sempre: da allievo, da assistente e come suo successore, nel 1967, nella titolarità della cattedra bolognese di Storia dell'arte medievale e moderna. Arcangeli resterà devoto al maestro anche quando dovrà dissentire da lui: "per me resta fermo il principio di metodo che ho tratto dal mio maestro; e che cioè, mentre è pericoloso applicare all'opera parametri preventivi, sociologici, psicologici, antropologici, o quelli che siano, per me è più producente il metodo induttivo che, partendo da un'analisi concreta dell'opera (e prima di tutto formale), ne induce poi quei valori di esistenza che si diramano verso la società, verso la psiche, verso l'immagine totale dell'uomo [...]".2

La monografia su Morandi, l'opera cui si è dedicato appassionatamente spendendovi assai più del tempo e dello studio necessari per comporla, è contestata dallo stesso Morandi e non sostenuta da Longhi. La frustrazione è dolorosa e lo segna profondamente ma non lo distoglie da una ricerca che è andato via via perfezionando e che gli conferma con sempre maggiore chiarezza la verità di alcune intuizioni che a più riprese gli hanno fatto comprendere i nessi profondi di natura che fanno di un luogo reale, a partire dal suo, dalla sua terra bolognese-emiliana-padana, una "provincia", riconoscibile per ciò che produce di vita e di arte, per i nutrimenti antichi e nuovi che ne innervano le radici e che non cessano di fluire anche quando queste paiono, per decenni o per secoli, inaridite o morte. Scopre la possibilità di trovare una nuova definizione di "romanticismo" e si impegna a dimostrarla. Natura e naturalismo diventano i nuclei vivi e germinativi di un'estetica esistenziale che lo portano a rivedere gerarchie, periodizzazioni e appartenenze. Con Arcangeli si possono buttare all'aria stereotipi e pregiudizi a partire da quello per cui lo studioso per essere credibile - e contare nell'industria culturale - deve pubblicare ponderosi volumi. La misura dei lavori di Arcangeli non è il peso ma la densità; ha scritto quasi tutto in forma breve: saggi, articoli, presentazioni per mostre, introduzioni a cataloghi... ma ogni suo testo è un concentrato di sostanza pura che tanti dissipatori d'inchiostro potrebbero diluire fino alla misura accademica del "politicamente corretto".

Accanto alle monografie su Bastianino (1963) e Sutherland (1973) e a quelle su Courbet (1956), Morlotti (1962), Mandelli (1970) e Segantini (1973), ora contenute nei due volumi einaudiani Dal romanticismo all'informale (1977), va ricordata la raccolta curata da Dario Trento Arte e Vita. Pagine di galleria 1941-1973 (Bologna, Boni, 1994). È recente la pubblicazione di inediti e scritti rari curata da Luca Cesari (Uno sforzo per la storia dell'arte, Parma, Monte Università Parma Editore, 2004).

C'è ancora un aspetto in Arcangeli che non è stato molto indagato: il suo amore per la musica. Nei suoi testi vi allude spesso anche se diceva di sé: "non sono musicalmente molto colto, purtroppo". Così come non si conforma per l'arte a separare antico e moderno cita Beethoven e Armstrong, Debussy e Clementi, Stravinskij e Frescobaldi, Couperin, Berg, Vivaldi, Ciaikovskij, Verdi, Honegger, Bach, Schönberg, Chopin... I riferimenti musicali gli servono per far comprendere meglio qualcosa di impalpabile per cui l'occhio non basta: uno stato d'animo, un'atmosfera, una illuminazione. In un momento cruciale della vita scopre la grandezza dell'arte romantica. È per lui un vero e proprio effatà:


Sì, da tempo io avevo avuto i miei avvertimenti, ma riguardavano piuttosto la musica o la letteratura. Fu una volta al Teatro Verdi [...], il pianista era famoso, e si chiamava Walter Gieseking. Eravamo nel 1942, Gieseking suonava Schumann, un musicista che fino a quel momento era rimasto per me chiuso, non comunicante, noioso. Ma da quando il pianista mise le mani sul pianoforte per tracciare i primi profondi, sconvolgenti accordi della Quinta Sonata, Schumann divenne per me, anche più di Beethoven e dello stesso Chopin, il musicista tipico del romanticismo; e mi parve che, per intendere il romanticismo, in quel momento qualcosa mi si spalancasse [...] romanticismo era struggimento, senso dell'inafferrabile, della distruzione di ciò che sembra certo: una cosa, ad un tempo, terribilmente cosmica ed esistenziale.3


Gieseking era già stato nominato a proposito della pittura di Wols:


Ogni volta che la guardo, è un ricordo che torna: quello delle emozioni provate ascoltando Gieseking al piano, quando eseguiva Schumann o Debussy. Le stesse velature, di suono o di colore, impalpabili e apparentemente abbandonate, in realtà trattenute entro la segretezza del tono: gli stessi scarti imprevedibili, gli stessi inafferrabili umori, ma ricondotti sempre al nucleo d'un tema da intendere al di là della prima impressione. Adesso, questo modo si dice "informel": parola suggestiva ma equivoca, ché serve a oppositori di comodo per far credere che le opere di Wols (o di Pollock o di altri) siano "senza forma". In realtà, esse realizzano, con la perfezione delle opere vere dell'arte, non già una forma statica e premeditata come quella più tipica alla tradizione mediterranea, ma una forma in perpetuo divenire, una forma che inventa perennemente se stessa [...].4


Naturalismo, romanticismo, informale, si legano insieme e rappresentano per Arcangeli un punto di svolta decisivo, segnato da una data precisa:

 

È stato il momento della invenzione pittorica dell'informale, invenzione dovuta a uomini della nostra generazione, a farci recuperare in modo nuovo anche l'arte del romanticismo. A me personalmente questo accadde verso il 1955, quando avevo ormai quarant'anni [...]. Verso il '55 capii che la nostra generazione esisteva in arte con un significato diverso da quello della grande generazione precedente. E fu allora che anche l'arte del passato cominciò a colorarmisi in modo diverso, anche perché da allora cominciò a divenirmi chiaro che la storia dell'arte non è una cosa data una volta per sempre, ma è in perpetua rinnovazione secondo i motivi che ci impegnano profondamente nel presente. [...]


E ancora: "l'informale è, anche, una forma di naturalismo moderno; la natura, insomma, come la si intuisce oggi. La natura di ieri è quella splendida degli impressionisti, e solo i romantici avevano avuto, a tratti, intuizioni improvvise e sconvolgenti nella direzione informale".5

Ad un orecchio esperto come quello di Gianandrea Gavazzeni non era sfuggita una singolare capacità di comprensione della musica in Arcangeli, così come la sua qualità di scrittura. Annota infatti nel diario, il I gennaio 1965, dopo la lettura del Morandi: "Libro stimolante, carico di cose del mio passato, autobiografia sulla biografia critica; e immerso nel discorso emiliano. Libro inebriante, incitatore. Chi sa perché avversato da Morandi. Estri, isterie". Il 14 agosto 1953, dopo l'uscita su "Paragone" di Picasso, voce recitante, Gavazzeni definisce "giusto" il rapporto tra musica e cubismo illustrato da Arcangeli a più riprese nel saggio e ne trascrive interi passi dove sono citati Bach e Stravinskij, Satie, De Falla, Milhaud. Anni dopo, il 27 settembre 1970, riconferma la propria approvazione riferendosi al catalogo introduttivo alla mostra "Natura ed espressione nell'arte bolognese-emiliana":


Vi si include la musica e il teatro, come fa l'Arcangeli, stante il suo udito particolarmente attento. Già il riferimento terminologico quando cade sull'immagine critica è calzante, esclude l'approssimazione. Per Vitale da Bologna, ecco il trapianto della Sincope: "una sincope geniale". E poi: "Al sincopato del ritmo risponde la miracolosa prontezza della esecuzione, le più subitanee dolcezze dell'ombra diventano struggenti accanto agli acuti squillanti del colore...".6


È comprensibile che chi intende mantenere un certo distacco nel valutare fatti di cultura, chi preferisce mettere distanza fra sé e ciò che studia, distinguendo, ordinando e classificando, chi insomma vuole pensare ed agire con la massima obiettività possibile, avverta nel lavoro di Arcangeli un eccesso di coinvolgimento emotivo. È altrettanto comprensibile che gli specialisti "puri" abbiano colto nel suo pensiero quasi un atteggiamento di lesa ortodossia, una tendenza alla contaminazione per l'accostamento di fatti, autori, e situazioni artistiche cronologicamente lontanissimi e convenzionalmente irrelati ("per me non esiste una differenza sostanziale nel metodo di approccio all'arte antica e all'arte moderna") ma proprio qui sta il valore originale del suo lavoro; nell'aver ricondotto ad unità una pluralità dispersa di esperienze ed espressioni artistiche. Questo non significa tuttavia che egli abbia trascurato con proprietà e rigore strumenti di indagine storica e filologica: semplicemente non li ha mitizzati, ritenendoli indispensabili ma non sufficienti. Per Arcangeli il campo dell'arte non può essere diviso in orticelli; per lui conta l'intero paesaggio, sempre mutevole e sempre uno, cangiante per nuvole, vento e sole, come in un dipinto di Turner, indifferente alle ripartizioni dell'agrimensore per cui prima che il diritto di coltivare viene la volontà di recintare.

 

Note

(1) F. Arcangeli, Corpo, azione, sentimento, fantasia: naturalismo ed espressionismo nella tradizione artistica emiliano-bolognese, dispense del corso di Storia dell'arte medievale e moderna, Università di Bologna, Anno Accademico 1967-1968, p. 11.

(2) F. Arcangeli, Dal romanticismo all'informale, Bologna, Alfa, 1976, p. 16.

(3) Ibidem, p. 3.

(4) F. Arcangeli, Dal romanticismo all'informale. Vol. II. Il secondo dopoguerra, Torino, Einaudi, 1977, p. 405.

(5) F. Arcangeli, Dal romanticismo all'informale, Bologna, Alfa, 1976, pp. 2 e 15.

(6) G. Gavazzeni, Il sipario rosso. Diario 1950-1976, a cura di M. Ricordi, Torino, Einaudi, 1992, pp. 590 e 762.

 

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