Rivista "IBC" XIV, 2006, 1

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / itinerari, progetti e realizzazioni, pubblicazioni

Il progetto europeo "Le chemins de la mémoire", avviato nel 2001, giunge a compimento con un volume che descrive e racconta 130 luoghi del nostro Paese in cui si è condensata la memoria dell'ultima guerra mondiale.
1940-45: luoghi e "non luoghi" memorabili

Mario Isnenghi
[docente di Storia contemporanea all'Università Ca' Foscari di Venezia]

Il 27 gennaio 2005, presso la Biblioteca comunale dell'Archiginnasio a Bologna, è stato presentato il volume Percorsi della memoria. 1940-1945: la storia i luoghi, pubblicato dall'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna e dalla CLUEB nella collana "Immagini e documenti" della Soprintendenza per i beni librari e documentari. Il volume, curato da Vito Paticchia, è il risultato di ricerche condotte nell'ambito del progetto europeo "Les chemins de la mémoire", elaborato nella primavera del 2001 e inserito nel programma comunitario "Cultura 2000", con l'obiettivo di costituire una banca dati e un sito web sui principali luoghi di memoria dei grandi conflitti che hanno coinvolto i paesi europei nel Ventesimo secolo: la Prima guerra mondiale, la Guerra civile spagnola e la Seconda guerra mondiale ( www.lescheminsdelamemoire.net).1

Il libro presenta 130 luoghi italiani "memorabili" dell'ultimo conflitto mondiale, divisi in quattro grandi aree tematiche: "Operazioni militari", "Fronte interno", "Occupazione tedesca", "Liberazione e Resistenza". Accanto alla narrazione storica, per ogni singola località vengono segnalati i principali segni della memoria presenti nel territorio (musei, monumenti, lapidi, collezioni) e i siti web utili per un ulteriore approfondimento. Pubblichiamo in queste pagine la parte iniziale del saggio introduttivo Percorsi della memoria italiana nella Seconda guerra mondiale, scritto da Mario Isnenghi, docente di Storia contemporanea all'Università "Cà Foscari" di Venezia.

 

Rimozioni e riorientamenti fra 10 Giugno e 25 Aprile

Siamo lontani ormai da una concezione aurorale del '45; e del '43; o del '43-'45. Del resto, il ciclo storico su cui ci si chiede di misurare i contenuti e le forme di una, quale che sia, memoria collettiva italiana, prende avvio prima, nel 1940: più esattamente, il 10 giugno del 1940, il giorno dell'entrata in guerra. Altre aurore, dunque, altre attese e baldanze; e altri sensi di sé, individuali e collettivi. La catastrofe si avvia in quelle piazze oceaniche, appena tre anni prima della resa senza condizioni. Ma allora - scontata la velocità devastante di quel sopraggiunto tramonto identitario - sarà difficile non attribuire un peso consimile a ciò che, per convivere con se stessi e sopravvivere, è stato necessario dimenticare, e che alla tavola delle memorie ci accingiamo invece a illustrare. Per riconoscersi e compiangersi vittime e oggetti dipendenti dalla volontà altrui, è stato necessario agli Italiani dimenticarsi come aggressori, aspiranti soggetti e attori di storia, la grande storia di una grande Potenza, impegnata a revisionare con le maniere forti l'ordine europeo e fiduciosa di reimpadronirsi del Mediterraneo, come ai tempi di Roma e di Venezia, scacciandone l'usurpatrice flotta inglese.

Ondate istintive o ben calcolate di oblio, più o meno reticente o beffardo, hanno dovuto investire quell'epico sentire, travolgendo l'eroico nel ridicolo o nel patetico. Terapia collettiva alla cui riuscita in troppi erano interessati e complici: quella gran parte del popolo italiano che, volente o più o meno blandamente nolente, si era comunque accomodata per vent'anni all'interno delle strutture e delle compatibilità di regime. E ora, in qualche punto precoce o ritardato del 1942, del 1943, del 1945, prima o dopo il 25 Luglio, prima o dopo l'8 Settembre, e infine - ultima chiamata - prima o dopo il 25 Aprile, ogni vita privata di Italiano o Italiana dai 15 anni in su doveva pur trovare lo spiraglio e darsi qualche ragione del proprio venirne fuori, da quella dimensione pubblica di regime divenuta ormai inguardabile, per sé e per (quasi) tutti.

Il capolavoro di questo revisionismo diffuso (per ridar nerbo a una parola in altri contesti ormai abusata e svilita) sarà il modo di guardare al fronte orientale: tutto vi diventa quasi subito ritirata di Russia, come se quella smisurata, e purtuttavia concepita e, seppur malamente, affrontata guerra di aggressione fosse cominciata, non già andando avanti, ma subito tornando all'indietro e rientrando nei propri veri e più dimessi confini. Questo rientro nei ranghi - con tutte le dismissioni e i ricuperi di autorappresentazioni stereotipate che la trasformazione comporta: popolo contadino, "bono Taliano", umanità dei Russi e delle Russe, fredda disumanità dell'alleato tedesco e via seguitando - costituisce uno dei percorsi della memoria più affollati e sentiti per tutto il dopoguerra. E butta ancora.

 

Non-luoghi

Se è così, cioè, se per l'Italia in fuga da se stessa o da un'idea di sé, l'oblio e la rimozione risultano costitutivi della memoria della seconda guerra mondiale - come sempre, del resto, per i meccanismi di funzionamento della memoria, ma più che mai in questo specifico caso, per ragioni intrinseche al mutamento identitario tentato e fallito dal, o in nome del, popolo italiano -, gioverebbe introdurre, in una mappa di luoghi e di percorsi, una di non-luoghi, di smarrimenti e di meandri: le mete e gli itinerari caduti dalla memoria, espulsi o venuti meno per unanime ribrezzo di sé e sopraggiunte convenienze. Prendete il 10 giugno 1940: chiaro che quelle piazze urbane e quelle aie rurali gremite di folla, quei collegamenti radio e quell'accorrere e stare insieme pigiati a coltivare e recitare unanimismo ascoltando le parole del Duce e vivendo "l'ora suprema delle decisioni irrevocabili", avrebbero potuto svolgersi in tutt'altra direzione: bastava - solo! - vincere la guerra. E mantenerlo quindi dentro di sé - il privato e pubblico, l'io e il noi - intatto e non sgualcito dai fatti, quell'esordio della nuova guerra, lusinghiero, mistico, e non, invece, reso umiliante e inservibile. Con quel po' po' di smentita e di generale rimessa in riga del soggetto - la Nazione, l'Italia - cui scuola e piazza, caserma e chiesa avevano chiesto per vent'anni a ciascuno di aderire, sentendosene parte e traendone sentimenti e identità.

Tutti quei padri che, dopo tante parate militari e inni della Patria, avevano portato quel giorno - a vedere, a sentire, a riconoscersi Popolo - i figli maschi, magari ancora piccoli, tenendoli per mano; e quelle madri, vedove di guerra, Giovani Italiane e altre figure del femminile riscattate a doveri familiari et ultra: che cosa avrebbero potuto pensare e dire di sé, e come raccontarsi ai nipoti, appena imboccato il tunnel della catastrofe? Se però avessero potuto e voluto ricordarsene. Importante - per sopravvivere - era appunto riparare nell'oblio. Dimenticarsi di essere accorsi, folla convinta o connivente. O, come minimo, diplomatizzare quella presenza e quel "noi" raccontandoseli come pura precettazione e tutti sin dal principio percorsi da finzioni e obiezioni. Così, nella memoria aggiustata, quelle piazze s'erano come svuotate. I luoghi, appunto, erano diventati non-luoghi. Come nelle anticipatrici piazze metafisiche profeticamente dipinte da De Chirico: il grande spazio assolato, le colonne e gli archi, il monumento, magari anche una solitaria bambina che gioca: c'è proprio tutto, in un assemblaggio sapiente di reminiscenze del passato e di "città nuova" dell'architettura razionalista del "tempo fascista". Mancano solo gli abitanti, se ne sono ritratte le folle. Tabula rasa. Tutto finito, dunque, o tutto da ricominciare?

Detto questo, pur se la nostra vuol essere prima di tutto una guida a dei luoghi, come si visitano e come si guida a visitare dei non-luoghi? Dovremmo preliminarmente operare in senso contrario all'oblio, cercare di rammentare e riuscire ancora a scorgere - mentre privilegiamo i percorsi della liberazione, anche attraverso il supplizio dei bombardamenti anglo-americani e delle stragi nazifasciste - i lacerti, almeno, delle speranze deluse da cui ci si allontana in fuga. La grande fuga da se stesso del popolo italiano, impaurito di ciò che è stato indotto o accreditato di pensare e di fare (e il riso amaro per l'icastica fallimentare del mussoliniano "Spezzeremo le reni alla Grecia!" galleggia ancora nell'aria). Per molti secoli, generazioni di pastori, contadini, ciceroni, mandolinisti e briganti - così almeno li riassumevano non pochi protagonisti dei viaggi in Italia - si sono aggirati, stranieri e miseri, accanto alle rovine di templi e acquedotti romani. Non c'è evidentemente un comparabile rapporto di scala dopo gli appena venti o venticinque anni di fascismo, né negli anni del fulgore, né in quelli del disincanto. Sbaglieremmo, però, se non tenessimo conto di quest'altro specifico paesaggio italiano, e di nuovo un paesaggio con rovine, che incombe appena dietro la Liberazione e la Repubblica. Dismissioni e dimissioni, dalla Nazione e dallo Stato, sono una tentazione diffusa; e tanto penetrante da apparire oggi - nell'oggi almeno che si vuole postmoderno e "antipolitico" - umane e tollerabili, ribattezzate senza più astio e impugnazioni morali come attendismo spiegabile o zona grigia.

 

Geografia e storia

L'esempio di come si sia riusciti a invertire i ruoli nel caso esemplare di ciò che prende forma ed entra nella memoria come la ritirata di Russia, ci ammonisce subito su due cose, decisive per procedere: la memoria - o meglio ancora le memorie - non ricalcano rigidamente i fatti e non ci assicurano nulla di certo circa il loro effettivo svolgersi. Gli avvenimenti reali, naturalmente, esistono in quanto si sono dati, in quel certo luogo e momento; e sono anche accertabili, con fatica e volontà di riuscirci, usando tutte le fonti necessarie. Che fra queste vi sia anche la memoria - di chi c'era o anche non c'era, ma ne ha sentito dire e se ne è fatto un'idea - si può concederlo senz'altro. Ma fermiamoci qui. La memoria - specie se rielaborata in forma di fonte orale - negozia di continuo, più o meno coscientemente, i propri perimetri e contenuti con le convenienze e anche con la necessità vitale dell'oblio. La memoria cambia, è continuamente cambiata in questi decenni, di quegli stessi grandi e piccoli fatti, vissuti o sentiti; ed è stata spesso divisa e antagonista sui se, i come e i perché, e i chi e i che cosa dello "stesso" fatto.

Valgano da esempio - tema storiografico di particolare attrazione oggi - le perduranti visioni delle stragi. Convinciamocene: la memoria è qui essa stessa il fatto e ciò che ci muove lungo i suoi percorsi; e il percorso difficilmente ci porterà, alla fine, a scoprire un "vero" e indubitabile fatto in sé che l'abbia consequenzialmente determinata. Funziona così: questo certo non impedisce, è anzi auspicabile, che qualche studioso frequenti gli archivi per ricostruire e documentare la verità delle cose, ciò che è veramente accaduto, e questo non solo quando - come per i crimini di guerra - c'è di mezzo un accertamento giudiziario, magari a mezzo secolo e più dagli eventi. Gli altri, intanto, tutti gli altri, noi insomma, ci aggireremo normalmente fra quelle macerie di antichi fatti, e derive, pressapochismi, illazioni, affabulazioni, e nella congerie di vuoti e di pieni che costituisce la nostra, più o meno interessata o casuale memoria: parte più o meno attiva o parassitaria di una più vasta e socialmente costruita memoria sociale.

Gli ammonimenti preannunciati, però, erano due ed ecco allora il secondo. Ricordarsi sempre di Carlo Dionisotti. Più che mai, nel caso della seconda guerra, la produzione e la ricognizione delle memorie si correlano alla geografia, come il grande italianista spiegava che bisognava fare ragionando, appunto, di Geografia e storia della letteratura italiana.2 Qui, pure, e in una "disunità d'Italia" irredimibile dagli odierni compiacimenti per la "differenza". Anzitutto, semplicemente, geografia e storia dei fronti disparati in cui la politica di potenza disperde gli eserciti italiani allontanandoli dalla penisola. Non c'è niente di simile a quello che fu il Veneto e la crescente, generalizzata visibilità del terreno della battaglia, nella Grande Guerra. Quella era una guerra "territoriale", aveva un centro, avvicinava e rendeva compresenti i luoghi del combattimento all'intera penisola; questa - la seconda - è una guerra deterritorializzata. La dispersione è la sua legge interna sin da quando si decide di poter combattere contemporaneamente - e morire, rimaner prigionieri, guardare con nostalgia verso casa, rimettere poi a fuoco in solitudine il proprio tempo di guerra - in Francia, Grecia, Albania, Jugoslavia, Unione Sovietica, Africa, Mediterraneo, con i campi di detenzione che ne derivano e che centrifugano centinaia di migliaia di ex combattenti dall'Asia all'America, dall'Europa all'Africa; e a cui bisogna aggiungere, per ben 800.000 militari, il repentino mutamento delle alleanze vissuto di persona nell'amara e inedita condizione di internati militari (Imi) sotto i Tedeschi.

La vittoria, forse, avrebbe potuto riunificare la variegata geografia di queste molteplici esperienze spaesanti. La sconfitta su tutti i fronti e poi la doppia invasione e il doppio stato di occupazione - sotto gli Anglo-Americani e sotto i Tedeschi -, con la crescente difficoltà nelle comunicazioni fra le diverse parti della penisola, hanno aggiunto dispersione a dispersione. Si è verificata una sorta di rifeudalizzazione della penisola, con una economia di sussistenza, materiale e mentale. Ogni macro o microarea è uscita dalla guerra mesi o anni prima oppure mesi e anni dopo delle altre; e intanto, ciascuna, ha conosciuto o non conosciuto direttamente i bombardamenti, gli sbarchi, la Linea Gustav, la Linea Gotica, le diverse forme di resistenza antifascista, la Repubblica Sociale o il Regno del Sud, il Governo di Salerno o il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (CLNAI);e naturalmente, in grado più meno drammatico, la fame, il mercato nero, il diritto negato o imprevedibile, il sovrapporsi e contraddirsi dei poteri, le forme straordinarie dell'ordinaria sopravvivenza.

 

Note

(1) Si vedano in proposito: J. B. Moreau, V. Paticchia, Se vuoi la pace... ricorda la guerra, "IBC", IX, 2001, 4, pp. 13-15; il dossier I percorsi della memoria, a cura di V. Paticchia, "IBC", XI, 2003, 3, pp. 57-80.

(2) C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967.

 

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