Rivista "IBC" XI, 2003, 1

musei e beni culturali / corrispondenze

Commemorare o discutere? Analizzare o commuoversi? I musei di New York interpretano un ruolo scomodo: conservare la memoria dell'11 settembre.
Al di là di Ground Zero

Franca Di Valerio
[museologa]

I turisti non si accalcano più davanti al cancello della St. Paul Chapel, tra Broadway e Fulton Street, per una foto ricordo sullo sfondo di memorabilia (foto, lettere, fiori, pupazzi, magliette, e quant'altro) lasciate in ricordo di coloro che, proprio dietro questa chiesa, sono stati spazzati via in una limpida mattina di settembre. E le bancarelle improvvisate con le riproduzioni delle Twin Towers e le foto ricordo delle vittime vendute a mo' di figurine, stanno via via abbandonando questa Disneyland di morte per altre, più redditizie, zone della città.

I newyorkesi stessi, come annotava Alexander Stille in un intervento sul "New York Times" di qualche tempo fa, hanno ormai dismesso quei modi gentili e "buonisti" che avevano adottato nello smarrimento seguito alla tragedia: nella metropolitana affollata non si alzano più per cedere il posto, e incrociandosi per strada non si sorridono più con solidarietà. I poliziotti, i "Finest" ("i migliori") dei giorni eroici seguiti al disastro, sono tornati ad arrestare gli homeless più numerosi che mai per le strade, e i vigili del fuoco, i "Bravest" ("i più coraggiosi"), nuovo archetipo dell'eroismo americano, devono ora fronteggiare la disoccupazione a causa della chiusura, decisa dall'amministrazione Bloomberg, di molte caserme paradossalmente già svuotate dalle troppe morti durante i primi concitati interventi al World Trade Center in fiamme.

Insomma, la normalità, qualsiasi cosa questo termine stia a indicare, si è riappropriata dell'esistenza degli individui, con le sue schizofrenie e il suo fardello di difficoltà. A oltre un anno di distanza dagli eventi dell'11 settembre 2001 la memoria collettiva di essi è ora affidata alla cura delle istituzioni museali, in particolare e naturalmente a quelli siti nell'area newyorkese, sia statale che metropolitana. Negli Stati Uniti, già all'indomani del tragico attacco, la maggior parte dei musei si è assunta un ruolo "terapeutico" e di conforto per le proprie comunità di riferimento, aprendo ulteriormente i propri spazi alla soggettività e alla emotività di queste ultime, e impegnandosi a rafforzare, attraverso le proprie attività espositive e didattiche, un sentimento di vita comunitaria e di appartenenza a un luogo e a una identità condivisa, o meglio alla metafora di un luogo e di una identità: l'America.

Non è casuale che la American Association of Museums e l'Institute of Museum and Library Service abbiano promosso una serie di iniziative coordinate il cui tema è stato "Celebrate American Freedom: Joining Communities in a Day of Remembrance" ("Celebrare la libertà americana: unendosi alle comunità in un giorno di commemorazione"); l'emotività, sia dei curatori che dei visitatori, nei confronti delle problematiche legate a questa tragedia nazionale continua a essere molto intensa, e porsi degli interrogativi, fermarsi a riflettere, insomma elaborarne il lutto, sembrano attività ancora troppo poco rassicuranti e soprattutto foriere di contraddizioni. Tanto che a volte è preferibile la rimozione.

"I musei sono soliti dare risposte semplici a domande complesse" - ha affermato Lonnie Bunch, presidente della Chicago Historical Society, tra gli istituti storici più antichi e autorevoli degli Stati Uniti, e membro della commissione istituita dal presidente George W. Bush per la conservazione e la valorizzazione storica della Casa Bianca - "e fare storia non significa altro che affrontare controversie e ambiguità". A Bunch abbiamo chiesto se condivide l'impressione che da parte delle realtà museali americane stia prevalendo una opzione per la memoria e la memorializzazione, in luogo della analisi storica, della contestualizzazione, e della riflessione.

 

Concordo sul fatto che, nonostante alcuni musei si siano sforzati di rendersi utili durante un periodo così difficile, molti altri hanno semplicemente scelto di essere fonte di memoria e memorializzazione. Tuttavia musei come quello della Chicago Historical Society, che io dirigo, hanno messo a punto iniziative per il pubblico che hanno tentato di contestualizzare gli avvenimenti di quel giorno. A Chicago abbiamo riunito insieme un gruppo di relatori, tra cui Studs Terkel [giornalista e storico, studioso della Seconda Guerra Mondiale, e delle relazioni internazionali negli Stati Uniti, nda], me stesso, alcuni opinionisti, e due esperti del Medio Oriente di origine araba. Abbiamo avuto una vastissima audience che si è confrontata con il significato dell'attacco e su che cosa esso ci ha detto riguardo il ruolo e la percezione dell'America nel mondo.

So che musei come il Lower East Side Tenement a New York [una casa-museo collocata nell'area sud-est di Manhattan e dedicata alla storia di vari gruppi di immigrati, tra cui Irlandesi, Italiani, ed Ebrei provenienti da varie nazioni europee tra la fine del 1800 e il 1900, nda] e l'Oakland Museum of California a Oakland, hanno lavorato per realizzare attività che aiutassero il pubblico a capire, o almeno a familiarizzare con le problematiche dell'Islam. Benchè direi che i musei più rigorosi continuano a essere luoghi attivi di apprendimento, contestualizzazione, e anche memoria, temo tuttavia che il National Museum of the American History - Behring Center della Smithsonian Institution, a esempio, abbia inaugurato una mostra sull'11 settembre che si limita a memorializzare piuttosto che spiegare, e nonostante tutto sembra abbastanza soddisfatto di ciò.

 

Alla ulteriore domanda se, considerando il nuovo clima politico e sociale che si respira negli Stati Uniti dopo l'11 settembre, e tenendo conto dell'imminenza di un'altra probabile guerra, i musei americani possano ancora essere considerati luoghi aperti all'espressione e al dibattito di idee e punti di vista critici e non convenzionali, Lonnie Bunch ha risposto:

 

Ovviamente in un periodo di guerra, e nel clima di aumentato spirito patriottico che accompagna un tale conflitto, è difficile per i musei mettere a disposizione spazi per poter esprimere punti di vista dissidenti. Dubito che si possa assistere a qualche museo che prende apertamente posizione contro la guerra con l'Iraq. Ritengo però che molti musei siano consapevoli che in un periodo di conflitto armato una riflessione profonda e accurata sia un atteggiamento molto più necessario e utile. Credo anche che assisteremo a un periodo di crescente dibattito nel 2003, e sono convinto che i musei saranno tra i luoghi che ospiteranno e stimoleranno un tale dibattito.

 

Vediamo allora, con alcuni esempi paradigmatici come, nella specificità delle proprie iniziative e del proprio ruolo, le istituzioni museali abbiano nel frattempo adempiuto a quel healing process, quel "processo di rimarginazione" scelto come azione prevalente nei confronti dei visitatori. E il punto di partenza non può che essere il sopramenzionato National Museum of the American History - Behring Center della Smithsonian Institution, ossia il museo nazionale della identità storica e sociale statunitense, al quale tra l'altro nel dicembre 2001 il Congresso ha conferito ufficialmente l'incarico di raccogliere e conservare oggetti collegati sia all'attacco al Pentagono, a Washington, che al World Trade Center, a New York.

Questo ha significato per il Museo affrontare gli avvenimenti, e raccogliere gli oggetti che ne sono stati testimoni e simbolo, nel loro verificarsi, tentando allo stesso tempo di mantenere una prospettiva storica più ampia, non limitandosi alla frammentazione di storie di vita o a reliquie dal valore essenzialmente emotivo. Ma una visione più ampia ha imposto di affrontare questioni spinosissime come il ricorso alla forza militare, la detenzione e la violazione dei diritti civili, la discriminazione e il razzismo. "Abbiamo ancora più domande che risposte" - ha affermato James Gardner, direttore associato per le questioni curatoriali del Museo - "per esempio: come possiamo evitare di essere risucchiati dall'onda di acritico e celebrativo patriottismo, come possiamo evitare la propaganda e lo sciovinismo, e se è possible, in questo clima politico e sociale, raggiungere l'equilibrio e la prospettiva necessarie al nostro ruolo di storici ed educatori".

Tuttavia, la mostra organizzata per l'anniversario, "September 11. Bearing Witness to History" ("11 settembre. Testimoni della Storia"), sembra ignorare queste domande, e la memorializzazione occupa in essa un proprio ampio spazio: dedicata "alle vittime, ai sopravvissuti, e ai soccorritori", la mostra espone oggetti selezionati provenienti dall'area del World Trade Center e dall'ala distrutta del Pentagono: l'elemetto contorto di un vigile del fuoco, il monitor fuso dal calore dell'impatto dell'aereo, proveniente da un ufficio del Pentagono, la bandiera issata su quest'ultimo il giorno dopo l'attacco in occasione della visita del presidente Bush. La mostra include anche molte testimonianze video e audio relative ai momenti dell'attacco.

Per individuare gli oggetti da conservare tra le proprie collezioni, il Museo ha promosso, in collaborazione con il Museum of the City of New York, il progetto "Sept. 11", creando una commissione di storici e curatori per coordinare l'attività di raccolta ed evitare che gli oggetti ritenuti emblematici finissero nelle discariche, ma soprattutto per evitare di raccogliere in competizione con altre istituzioni. E proprio il Museum of the City of New York ha organizzato una serie di iniziative, consistenti in conferenze, proiezioni, incontri con il pubblico, ampliando gli argomenti collegati agli avvenimenti dell'11 settembre, come le mostre "A community of many worlds: Arab Americans in New York City" ("Una Comunità dai molti mondi: gli Arabo-Americani nella città di New York"), e "The Day Our World Changed: Children's Art of 9/11" ("Il giorno che il nostro mondo è cambiato: l'arte dei bambini sul 9/11") che esponeva creazioni artistiche realizzate dai bambini delle scuole dell'area colpita.

Ma la memoria collettiva della città di New York e della sua estesissima area metropolitana è rappresentata dalla New York Historical Society, fondata nel 1804, che per tradizione e più propriamente funge da museo storico per l'intero Stato di New York. In questa prospettiva essa ha avviato il progetto "History Respond", i cui obbiettivi sono raccogliere, conservare e interpretare oggetti e documentazione relativi non solo agli avvenimenti dell'11 settembre, ma anche alle sue conseguenze, e renderli così accessibili ai ricercatori nonché, attraverso la mediazione del lavoro dei curatori, alla "contemplazione" del pubblico in generale. Il progetto prevede l'acquisizione immediata di circa 300 oggetti, una selezione di 250 disegni e dipinti, e altre creazioni artistiche ispirate dal 9/11.

La tipologia dei materiali raccolti è naturalmente eterogenea: componenti dei veicoli dei vigili del fuoco estratte dalle macerie, segnaletica proveniente dalle torri gemelle, merce proveniente dai negozi vicini, come la collezione di jeans Levi's e Ralph Lauren coperti di polvere e detriti tossici recuperati alla fine dello scorso ottobre dal "Chelsea Jeans Store", davanti al quale, dopo l'11 settembre, centinaia di migliaia di visitatori hanno formato interminabili file. La New York Historical Society intende esporli, contenuti in un apposito ambiente ermetico, nella futura mostra "Unfinished Lives" ("Vite incompiute"): "È importante conservare la struttura, la consistenza e il colore della polvere sulle maglie con la bandiera americana di Ralph Lauren e sui Levi's, perché questa è l'uniforme americana" ha dichiarato Amy Weinstein, una delle curatrici della Society. Sono stati prelevati e conservati anche i memorial walls, i "muri della memoria" sorti un po' dovunque in città subito dopo l'attacco, nonché la varia gamma di souvenir delle bancarelle. Un già pianificato calendario triennale di mostre e conferenze dovrebbe illustrare tutti questi oggetti al pubblico, oggetti che secondo i curatori sono in grado di "offrire prospettive storiche sugli avvenimenti e su come i newyorkesi hanno sostenuto e superato straordinarie sfide nel passato".

Nel frattempo un problema di prospettiva storica molto più complesso e pressante è quello che si trovano ad affrontare gli architetti selezionati dal consorzio pubblico creato per soprintendere alla ricostruzione dell'intera area: nei progetti richiesti, infatti, devono essere compresi anche un memoriale o un museo. Le indiscrezioni trapelate all'inizio dell'estate scorsa sulle proposte che si andavano definendo - tra cui quelle di Richard Meier, Norman Foster e Daniel Libeskind - hanno suscitato lo sdegno generale e la letterale derisione in quanto ritenute eccessivamente "sperimentali" e totalmente inappropriate per un luogo dal significato e dalle implicazioni così profondamente emotive.

L'esigenza chiaramente espressa dalle associazioni civiche più direttamente coinvolte (i familiari delle vittime, gli ex residenti, i titolari di attività economiche e culturali) è che l'area non venga trasformata in un mausoleo, ma neppure in un parco tematico o in un laboratorio sperimentale per la velleitaria fantasia degli architetti. L'esempio più volte citato, da cui trarre ispirazione, è il Vietnam Veterans Memorial di Washington, considerato una sorta di anti-monumento modernista per il suo essere astratto, orizzontale, testuale con i nomi elencati senza alcuna gerarchizzazione. In opposizione alla insita ridondanza delle realizzazioni architettoniche è stato proposto anche il "valore" morale del vuoto, ossia l'opzione di una non ricostruzione, per sottolineare uno spazio che, seppure destinato a essere di nuovo riempito, continuerà inevitabilmente a essere testimonianza di assenza e perdita.

In attesa che New York, e con essa l'intera America, scelga in che modo commemorare il proprio lutto, tocca ai musei, e agli storici, ricordare ciò che tutti gli altri desiderano dimenticare.

 

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