Rivista "IBC" X, 2002, 4

musei e beni culturali / corrispondenze

Gli Stati Uniti visti con gli occhi di un direttore di museo. Seconda puntata: prendendo (e perdendo) tempo in attesa dell'American Museum of Natural History.
Negli USA per musei / 2

Fausto Pesarini
[direttore del Museo civico di storia naturale di Ferrara]

I musei di storia naturale americani usano un "linguaggio" molto immediato ed efficace, che rifugge in genere dalla necessità di esprimere un ordinamento rigoroso di ciò che espongono: sono piuttosto come dei grandi teatri in cui il mondo della natura viene "messo in scena" in presa diretta; e quello di New York ne è senz'altro l'esempio più eloquente e paradigmatico.

La prima volta che seppi della sua esistenza avevo ancora i calzoni corti. Ero bambino, infatti, e in casa c'era un libro sui Mammiferi molto ben illustrato per quell'epoca di fotocolor chiassosi e stonati. Nelle tavole fuori testo di quel volume erano riprodotte superbe scene di vita selvaggia, i cui attori erano orsi, alci, zebre, ghepardi e così via. Sotto ognuna di quelle immagini ricorreva una scritta, un po' ermetica nel suo significato, ma proprio per questo capace di catturare la mia curiosità: New York, American Museum of Natural History. Com'era possibile? Mandrie di bisonti sullo sfondo della prateria in un museo? Venni poi a sapere - non ricordo quando - che quelle magistrali rappresentazioni erano dei diorami, cioè ambientazioni di animali "impagliati" (il termine più corretto è naturalizzati) entro fedeli ricostruzioni dei rispettivi habitat naturali. Restava un interrogativo: quali faraoniche proporzioni dovevano avere le vetrine di quel museo per accogliere intere famiglie di elefanti africani?

Quel libro, posso dirlo con certezza, agì con straordinaria efficacia nel fissare indelebilmente nel mio immaginario la suggestione del museo. È incredibile come piccole cose, magari comprate da un genitore su una bancarella, possano esercitare un'influenza duratura, quasi una sorta di imprinting, sul futuro di un essere umano. Ricordo come una vecchia collezione di dispense illustrate sull'evoluzione, inserite settimanalmente in un rotocalco, avesse agito allo stesso modo, facendo assurgere ad una dimensione mitica, nella mia fantasia, la figura di Darwin col suo patriarcale barbone.

La strada che mi ha portato a diventare un naturalista, a trasformare una passione dapprima acerba, poi via via più consapevole, in una professione, ha avuto origine senza dubbio da circostanze come quelle che ho appena ricordato e che solo a un adulto possono apparire futili. I manuali di orientamento agli studi, i consigli dei parenti, agirono semmai come potenziali depistaggi, almeno nel mio caso. Vivendo a Milano, il fascino del museo ebbe modo di agire su di me con particolare efficacia. Le domeniche in cui mia madre mi portava in tram ai giardini pubblici per visitare il Museo di storia naturale sono un ricordo, ancora oggi, di rara intensità: nelle grandi sale del museo mi pareva di immergermi ogni volta in un universo di scoperte, anche se conoscevo a memoria l'espressione di ogni animale che ammiccava dietro le vetrine.

"Ogni bambino sogna di visitare un regno della magia", scrive il biologo americano Edward Wilson nella sua bellissima autobiografia, che ha intitolato semplicemente Naturalist, e che ho letto d'un fiato proprio al ritorno da uno dei miei viaggi negli Stati Uniti. E prosegue:

 

Il mio mi fu dischiuso all'età di dieci anni, quando mio padre si trasferì a Washington D.C. [...], a pochi passi dal Giardino zoologico nazionale e ad una breve corsa in macchina dal Museo nazionale di storia naturale [...]. Spesi ogni volta delle ore a vagabondare per le grandi sale del Museo Nazionale, conquistato dalla varietà senza fine di piante e di animali esposti nelle vetrine, tirando fuori i cassetti di farfalle e altri insetti, perso nel sogno di lontane giungle e savane. La nuova visione di una professione scientifica prese forma allora. Sapevo che dietro le porte chiuse lungo la galleria del Museo, la loro privacy protetta da guardie in uniforme, lavoravano i curatori, sciamani del mio nuovo mondo. Non incontrai mai alcuno di questi importanti personaggi; forse qualcuno mi passò accanto, non riconosciuto, nelle sale di esposizione. Ma la sola consapevolezza della loro esistenza [...] fissò in me l'idea della scienza come un obiettivo da perseguire nella vita.1

 

Anche per me il museo (quello di Milano) era stato un regno della magia. Anch'io avevo nutrito lo stesso sogno di potere un giorno varcare le porte dietro le quali si svolgeva il lavoro silenzioso e appartato dei professionisti delle scienze naturali. Avrei imparato che quel lavoro, come tutte le cose adulte di questo mondo, deve scontare la tara del disincanto, e può apparire persino arido e ripetitivo, condizionato com'è da finanziamenti, adempimenti burocratici, da quella quotidianità fatta di cose routinarie che rischiano di spegnere ogni passione. Ma posso dire che il museo non ha cessato di esercitare su di me la suggestione che contraddistingue ogni impresa creativa della mente umana. Un'impresa che ti forma e ti permette di crescere e di lasciare un segno, per quanto modesto. Ora, tornando alle tavole a colori del libro che aveva catturato la mia immaginazione di bambino, era giunto il momento di conoscere di persona lo straordinario contenitore di quelle scene di vita selvaggia: in tre dimensioni e nella loro eloquente materialità. Con un occhio esperto e, appunto, disincantato. Ma era comunque una grande emozione.

 

Come per molte migliaia di italiani e di europei prima di me, quello dell'aeroporto "Kennedy" di New York è stato il primo suolo americano sul quale abbia posato i piedi. Certo, finché calcavo il pavimento tirato a lucido del salone degli arrivi intercontinentali potevo trovarmi a New York come a Heathrow, a Francoforte, a Sidney o a Dubai; ma appena uscito sul piazzale antistante l'immenso edificio, be', quella era America, sin dal primo sguardo. Ricorderò sempre quella limo (sta per limousine: gli americani abbreviano tutto) che mi si parò davanti mentre stavo raccogliendo idee e bagagli: esagerata, bianca e, come vuole la regola, con i vetri scuri. Dentro però non sedevano sceicchi arabi in America per compere, come sarebbe sembrato logico. Là è normale servirsi di questi leviatani su quattro ruote, a quanto sembra solo per concedersi un lusso extra e, in definitiva, a buon mercato: i taxi sono roba di tutti i giorni, la limo serve per occasioni un po' speciali. Non per far sfoggio, comunque: nessuno si volterebbe a guardare mentre passano i tuoi sei metri e mezzo di metallo in affitto. Io non lo sapevo ancora, e quella smisurata esibizione di status (così credevo) mi colpì di più di quanto non avrebbe fatto lo zio Sam in persona se fosse venuto a ricevermi. "Siamo in America" pensai, inevitabilmente.

Debbo ad un signore di Bologna, con il quale avevo condiviso le formali operazioni di sbarco, se in quella occasione indubbiamente speciale per entrambi mi servii - ci servimmo - di un taxi per raggiungere Manhattan. Salendo su quel taxi ho potuto poi raccontare agli amici in tutte le circostanze possibili (spero non agli stessi amici in più di due occasioni, l'età non lo giustificherebbe ancora) l'effetto prodotto dallo stagliarsi in lontananza della più conosciuta, inconfondibile, ineffabile skylineche una città vanti sull'intero pianeta, effetto scontato fin che si vuole ma innegabile. Fosse stato per me, probabilmente sarei salito sulla navetta per Howard Beach e da lì mi sarei servito della metropolitana, non perché sia refrattario alle emozioni che può suscitare il primo impatto con una città unica al mondo come New York, ma per via di una inclinazione alla parsimonia che fa parte del mio carattere e della mia educazione e di cui non sento tutto sommato il bisogno di disfarmi. Non rividi più il mio occasionale compagno di viaggio dopo che lo lasciai davanti al suo albergo nella zona centrale di Manhattan. Io dovevo proseguire ancora per parecchi blocks: avevo prenotato la camera al Washington Square Hotel, nel Greenwich Village.

Benché nella scelta mi fossi affidato solo all'intuito, questa non poteva essere più felice. Ero fermamente deciso a non farmi impacchettare in uno dei tanti albergoni preferiti dalle agenzie, e quella sistemazione mi sembrava ideale non solo perché economica o almeno inexpensive, ma anche e soprattutto perché era al centro di una zona che sapevo essere relativamente immune dagli eccessi più o meno fastidiosi della Grande Mela: un albergo senza troppe pretese, piccolo e vecchiotto, che si affaccia sul rettangolo sempre animato di Washington Square, cuore del Village per antonomasia. Il Greenwich Village è uno dei luoghi più attraenti e vitali non solo di New York ma di tutti gli Stati Uniti. Nel Greenwich Village può succedere di percorrere stradine con lampioni a gas e il cui selciato è ancora in ciottoli, come è raro trovarle da noi; solo nel Greenwich Village può capitare di imbattersi in un ristorantino old fashion come il "Ye Waverly Inn", esistente addirittura dal 1844 in quella che era un tempo una stazione di posta - e che è rimasta tale e quale come costruzione - e in cui ho gustato una squisita "Chicken pot pie", specialità della casa. Nulla, nel Village, è esagerato, l'atmosfera è invece familiare e raccolta come, appunto, in un villaggio. Ma soprattutto il Village è un luogo pervaso dalla voglia di vivere senza ostentazioni e senza pregiudizi che è tipica dei giovani di tutto il mondo. E Washington Square e gli isolati circostanti sono davvero come in mano ai giovani, che sciamano in ogni ora del giorno dagli edifici della New York University e che si affollano fino a tarda notte negli innumerevoli locali dove si beve in compagnia e sempre in compagnia si ascolta della buona musica (rock, jazz, fusion, sempre e comunque dal vivo).

Questa atmosfera di giovanile informalità si respirava anche nell'albergo in cui mi ero sistemato: il personale della reception non aveva i sorrisi affettati e la cortesia puramente professionale ostentati in tutti i grandi alberghi americani, e se a qualcuno il loro modo di fare poteva sembrare magari un po' troppo sbrigativo, a me andava bene così. La mattina, poi, il breakfast era servito da ragazzi e ragazze in jeans e maglietta che sembravano quello che erano: giovani che si davano da fare per guadagnare i soldi per i loro studi (o per i loro divertimenti: fa lo stesso) e non damerini impomatati che fan parte del corredo, come capita sempre negli alberghi più trendy e costosi. Comunque, per intenderci, erano rapidi, efficienti, simpatici nel loro modo di parlarsi e di scherzare e tutti, ragazzi e ragazze, bianchi, neri o gialli, belli da guardare come solo riescono ad essere i giovani. Anche i muffinscon le uvette che venivano serviti caldi con il caffelatte mettevano di buon umore. Fuori, nella piazza sempre animata, sotto lo sguardo di Garibaldi, e lungo la Sixth Avenue (ufficialmente Avenue of the Americas), andava in scena lo spettacolo della Grande Mela, e ti pareva di essere capitato dentro a un film con Bob De Niro. Intellettuali dall'aria svagata rovistavano su bancarelle improvvisate di edizioni economiche di terza mano, poliziotti in mountain bike facevano sfoggio dei loro abbigliamenti di ordinanza all'ultima moda (davvero un look molto ganzo), e sciami di Hell's Angels rombavano sulle loro supermoto facendo a gara a sembrare cattivi. Una coreografia spontanea eppure incredibilmente coerente, una sorta di messa in scena non concertata ma straordinariamente efficace, che ad ogni passo mi sussurava nell'orecchio: oh yes, dove pensavi di essere, ragazzo?

La prima sera, con qualche apprensione, andai incontro al mio primo impatto col mangiare americano. Credo di avere un certo fiuto nel cercare i posti giusti. Il segreto è che non amo la cucina internazionale, e soprattutto detesto anche solo l'idea di mangiare, in un qualsiasi angolo del mondo, le stesse cose che mangio a casa mia. Se si vuole conoscere veramente un paese, bisogna imparare ad apprezzarne anche i gusti alimentari, benché, non di rado, occorra "farsi il palato", esattamente come serve farsi l'orecchio per appassionarsi a Schoenberg o Hindemith. Ho imparato che esistono cucine barocche, sapori impressionisti, ricette minimaliste, mentre chi si ostina a volere le tagliatelle e il filetto con l'insalata anche a Marrakech mi ricorda molto quelli che "_le Madonne come Raffaello non le fa nessuno" e ricoprono le pareti di casa con orripilanti clown che piangono. Comunque, mi si perdoni questa digressione autoreferenziale, quando sono in giro cerco sempre di mettermi a tavola con la gente del posto, e non con i turisti: una piccola regola aurea per mangiar bene e spendere poco. Ritornando alla mia prima sera di esperimenti gastronomici in terra d'America, riferirò solo come sono andate le cose, senza anticipare giudizi.

Scartate dunque le innumerevoli pizzerie, i ristoranti italiani più o meno rinomati, gli immancabili ristoranti cinesi, e la sequela senza fine di cucine malesi, afghane, ecuadoregne e chi più ne ha più ne metta, e non avendo ancora impattato nell'imperdibile "Ye Waverly Inn", mi rifugiai in un Restaurant sulla Sixth Avenue (in America, attenzione, Restaurant è più o meno sinonimo di postaccio, a differenza di Café che significa sempre qualcosa di sofisticato). Il posto sembrava uscito dritto filato da un quadro di Edward Hopper: luci al neon, banchi di fòrmica, servizio - come definirlo? - informale, ovviamente aperto ventiquattro ore su ventiquattro. Bene: punto sul piatto unico e per otto dollari e novantacinque centesimi ordino un "Yankee pot roast". Ed ecco che mi servono una zuppa di cereali e tacchino (a metà tra un porridgee le soupes dei francesi) accompagnata da una monumentale insalata mista (lattuga, cipolla, formaggio, piselli, salsa tartara). Quasi sazio, ma deluso, penso che sia finita, ed ecco che arrivano: sedici (!!!) fette di arrosto; un piattone di chips(straripante); una scodella di corn (granoturco bollito); e un bicchiere di vino. Non entro, ripeto, nel merito della qualità della cucina, ma in Italia ci avrebbero mangiato quattro persone. Trangugiai quasi tutto, dichiarando forfait solo davanti all'inesauribile montagna di chips. Non riuscivo a credere che quello fosse lo standard di un pasto medio americano, e per quel prezzo. Forse avrei rimpianto i sapori di casa, magari avrei sognato per un attimo di trovarmi in Borgogna o nel Périgord, ma di una cosa potevo essere certo: non sarei morto di fame.

Nei primi giorni di permanenza a New York ho fatto il turista. Non mi sono precipitato al Museo di storia naturale. Doveva essere un momento topico del mio viaggio, e non ho voluto "bruciarlo". Mi sono visitato dunque tutto ciò che di visitabile può offrire Manhattan, e non esagero: non ho mai sofferto la stanchezza del turista frettoloso. Dopo diversi giorni di pellegrinaggi su e giù per Manhattan, le strade e i palazzi di Midtown mi erano divenuti familiari, e cominciavo ad associare un carattere alle numerazioni dell'anonima toponomastica della metropoli. Per quanto immensa, New York è una città piacevole da girare a piedi, proprio perché nello spazio di pochi blocks si attraversano paesaggi urbani ed umani estremamente variegati e non è mai monotona (in realtà non bisognerebbe dimenticare che tutto o quasi si concentra a Manhattan, e che quest'ultima è solo una fettina della Grande Mela). Ho quindi cominciato a girarla senza mete precise, curiosando qui e là, senza negarmi qualche concessione ai miti (e ai riti) del turismo di massa, come quello di mettere il naso da Tiffany o di comprarmi un paio di boxer da Sacks, di oziare al tavolino di un caffè del Rockefeller Center (e di scoprire il fascino rétro del vicino Radio City Music Hall), o ancora di salire e scendere sulle scale mobili della Trump Tower, con la sua incredibile stratificazione verticale di negozi e boutiques e, la sera, immergermi nella fantasmagoria di luci di Times Square. Stavo prendendo (e perdendo) tempo. Era venuto il momento di puntare in direzione dell'Upper West Side e di salire i gradini del Museo di storia naturale.

Nota

(1) E. O. Wilson, Naturalist, Washington D.C., Island Press, 1994 (il brano citato è tradotto dall'autore dell'articolo).

 

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