Rivista "IBC" XI, 2003, 2

musei e beni culturali / corrispondenze

Gli Stati Uniti visti con gli occhi di un direttore di museo. Terza e ultima puntata: tra i diorami dell'American Museum of Natural History, all'ombra del grande Barosauro.
Negli USA per musei / 3

Fausto Pesarini
[direttore del Museo civico di storia naturale di Ferrara]

Per molti versi l'American Museum of Natural History è un po' il contraltare del Metropolitan: situato sull'altro lato di Central Park, quasi alla stessa altezza del grande museo d'arte, è l'unico museo di New York a poter gareggiare con quest'ultimo in fatto di dimensioni e di imponenza. Penso che la contrapposizione non sia del tutto casuale, anche se non è certamente intenzionale - anzi, volutamente plateale - come nei due colossi di Vienna, il Kunsthistorisches e il Naturhistorisches Museum, identici financo nei dettagli e dialoganti vis-à-vis sui due lati della Maria-Theresien Platz.

Dal punto di vista architettonico il Museo di storia naturale di New York è un museo double face: di un pomposo stile Impero sul lato che prospetta su Central Park West, squaderna un'immensa e un po' tetra mole neoromanica a grandi blocchi squadrati di porfido sul lato perpendicolare a quello. Il landmark che accoglie i visitatori ai piedi della scalinata, familiare a tutti i nuovaiorchesi, e che più di ogni decoro architettonico contraddistingue il Museo, è qualcosa di americano fin nel midollo: una grande statua equestre di Teddy Roosevelt cui fanno da palafrenieri un indiano delle praterie e un negro nerboruto, una affermazione di supremazia dell'uomo bianco tanto ingenua da risultare imbarazzante, almeno per un occhio disincantato. Theodore Roosevelt fu un pioniere delle politiche di conservazione dell'immenso patrimonio naturale americano, messo a dura prova già negli anni della corsa verso l'ovest, ed è tuttora ricordato come uno dei patrocinatori del grande museo di New York, che poté fregiarsi, primo e unico nel paese, dell'appellativo di American Museum of Natural History.

Il mio stato d'animo, nel varcarne la soglia, era simile a quello di un pellegrino che aveva finalmente raggiunto la meta di un viaggio di rigenerazione meditato per tutta una vita. Non arrivavo ad annettere un significato salvifico a quella mia visita, ovviamente, ma sentivo comunque di non essere uno qualunque dei tanti individui di ogni età e colore che si affollavano nell'atrio del museo. Come tutti quanti, in ogni caso, pagai il mio biglietto, mi appuntai in bella mostra il lasciapassare colorato che veniva distribuito con la raccomandazione di conservarlo (permetteva di uscire e di rientrare liberamente, e ne avrei approfittato) e finalmente mi avventurai oltre le barriere della biglietteria.

La prima cosa che balza agli occhi, appena messo piede nei musei americani, e che li rende differenti da quelli europei, è l'attenzione che riservano alla scenografia. In America sono soprattutto i musei di storia naturale a dar fondo senza riserve ai trucchi del mestiere, alla ricerca dell'effetto, del colpo d'occhio impattante: si avverte il visitatore sin dalle premesse che non si sta scherzando, che lo spettacolo in arrivo varrà il prezzo del biglietto. Corollario di questa tendenza è il ruolo assolutamente fondamentale assunto dalla grande hall di ingresso nel disegno architettonico dell'edificio del museo, che non è quasi mai, come spesso avviene in Europa, un fabbricato originariamente progettato per assolvere a tutt'altre funzioni. La hall deve avere necessariamente proporzioni monumentali, e trasmettere attraverso una profusione di ornati e di rivestimenti il più costosi possibile una sensazione di solidità e di potenza. L'American Museum di New York ovviamente non fa eccezione: la grande Theodore Roosevelt Memorial Hall che accoglie il visitatore all'ingresso principale del Museo su Central Park West costituisce, con la sua enorme volta a botte impreziosita da cassettoni ottagonali, le sue colonne di porfido coronate da capitelli corinzi e i marmi che ne rivestono il pavimento e le pareti, un'eloquente anticipazione della grandeur planetaria del Museo.

Ma la ricerca dell'effetto non si esaurisce nella grandiosità e nello sfarzo dell'ambiente: questo è solo, per così dire, lo scenario in cui entrano in gioco i veri attori della rappresentazione. Ogni museo ha dei pezzi che, per la loro autorevolezza, valgono - o varrebbero - a rappresentarne e a riassumerne da soli la qualità e l'importanza del contenuto. È un peccato che da noi, spesso, questi oggetti "eccezionali" siano mescolati insieme agli altri all'interno del percorso espositivo, dove non sono nemmeno sempre opportunamente valorizzati sul piano estetico. Nei musei americani, per contro, è regola quasi generale che questi pezzi siano presentati come "biglietto da visita", dunque utilizzati come una sorta di potente simbolo mediatico, con un'operazione che ne privilegia, tra i tanti possibili, il valore di segno rappresentato dalla loro eccezionalità.

Nel Museo di New York, questi speciali testimonial non potevano essere delle conchiglie rare o degli uccelli dal piumaggio splendente, o ancora il copricapo di un qualunque capo indiano: nella grande hall occorreva qualcosa di ben più eloquente. Tipo, ad esempio, un dinosauro. A patto, però, che fosse degno del Guinness dei primati. Il Barosauro a cui è stato affidato questo compito, infatti, non è un dinosauro qualsiasi, ma una delle più esagerate creature mai apparse sulla faccia della Terra, con un collo tanto spropositato da sfidare le leggi di gravità. Non contenti, gli ideatori della messa in scena lo hanno montato drizzato sulle zampe posteriori (facendogli raggiungere una statura di quindici metri: l'altezza del soffitto lo permetteva), come "catturato" nel momento di panico suscitato dall'improvviso attacco di un temibile Allosauro (che da solo sarebbe bastato a garantire un effetto non trascurabile). La scena è indubbiamente frutto di molta immaginazione: è tutto da dimostrare, infatti, che un Barosauro potesse rizzarsi sulle zampe posteriori, e non sappiamo nemmeno se l'Allosauro potesse realmente costituire una minaccia per un colosso di quelle dimensioni. Il risultato, comunque, è di un effetto indiscutibile: i due giganti che si stagliano nella penombra della grande sala, forata dai lampi delle macchine fotografiche, sono il primo incomparabile ricordo che conservo del Museo di storia naturale di New York.

Il grande salone dei North American Mammals è un po' il cuore del Museo ed è concepita come una galleria di scene di vita selvaggia che circondano su ogni lato il visitatore. Sono i famosi diorami che mi avevano affascinato già da bambino dalle pagine di quel magico libro illustrato, e che ora mi ritrovavo davanti nelle loro proporzioni reali, familiari come vecchie conoscenze: davanti a ciascuno di essi era come se mi affacciassi ad una finestra che si apriva ora sul deserto dell'Arizona, ora su una grande prateria, oppure su un dirupo delle Montagne Rocciose, e così via, in una sorta di carrellata su tutti i paesaggi naturali della wilderness statunitense.

L'eccezionalità di questa grande sala sta soprattutto nel numero, davvero unico, di diorami (ben 42, di tutte le dimensioni) e nella qualità della loro realizzazione. In un diorama gli animali devono essere presentati, come abbiamo visto, in pose e atteggiamenti assolutamente naturali e ambientati in una ricostruzione illusionistica dell'habitat da cui gli esemplari sono stati prelevati. Questo significa che la realizzazione di ogni diorama è un'impresa estremamente impegnativa sul piano tecnico e ovviamente molto costosa, che comporta un lavoro di équipe di naturalisti, tassidermisti, scenografi e pittori. Non c'è nulla di peggio di un diorama realizzato in economia da personale privo della necessaria perizia, magari con esemplari di vecchie collezioni impagliati come trofei e rigidi come salami. Uno, forse il principale, degli intenti del diorama è quello di perseguire un effetto di stupefazione sul visitatore, e questo riesce solo se la qualità del prodotto è perfetta. Questa ricerca dell'effetto non è fine a sé stessa.

 

Il diorama ha come valore fondamentale la attitudine a trasmettere una documentazione sulla natura che, prima ancora che a livello razionale, viene colta a livello inconscio mediante un effetto di "percezione globale di natura". Senza la mediazione di categorie logiche della scienza, esso consente di accostare tra di loro gli elementi di un ecosistema, ispirando un sensus naturae che resta profondamente fecondo nella mente e nella coscienza del visitatore. È una sorta di percezione olistica quella che il diorama dà come messaggio anche al visitatore [...] privo di un adeguato bagaglio di cultura e di critica, ciò che invece diventa abbastanza necessario per la miglior fruizione dell'esposizione tematica.1

 

Mi sembra, questa, una esposizione convincente del significato museografico del diorama, che devo a Luigi Cagnolaro, ex direttore (e per molti anni conservatore della sezione di zoologia dei vertebrati) del Museo di storia naturale di Milano: un museo che non a caso ha intrapreso una colossale operazione di ristrutturazione delle sale di zoologia proprio alla luce di questi criteri, realizzando una serie stupefacente di diorami che credo sia la più completa e qualitativamente notevole in Europa. Lo stesso era avvenuto molti anni prima a New York, quando si era decisa la realizzazione della grande galleria dei North American Mammals. Si era ai primi del secolo e il Museo di New York era assolutamente all'avanguardia nell'ideazione e nella realizzazione di queste impegnative scenografie.

Gli animali (intere famiglie di orsi, coyote, linci, puma, alci, bisonti, per non ricordarne che alcuni) sono ovviamente i protagonisti delle scene rappresentate in ogni diorama, ma non meno importante risulta essere, per le ragioni che abbiamo appena visto, il contorno di ciascuna rappresentazione: gli esemplari di flora perfettamente riprodotti, sia con parti naturali che in tessuto, il disegno dell'insieme e soprattutto i fondali. Questi sono spesso il punto debole di un diorama. Un museo di storia naturale può avere nei propri organici tassidermisti e tecnici preparati, ma difficilmente potrà disporre di scenografi e pittori; e non sempre un bravo pittore ha qualche dimestichezza con i problemi di prospettiva che comporta la realizzazione di un diorama. Nelle arti applicate alla museografia è giusto riconoscere un posto importante a James Perry Wilson, l'artista che dipinse tutti i fondali dei diorami dei Mammiferi americani del Museo di New York. Fu decisamente l'impresa della sua vita: spese oltre un ventennio nel realizzarla, recandosi in ciascuno degli ambienti naturali di cui era stata progettata la riproduzione, scegliendo le migliori inquadrature e ritraendo i bozzetti da cui avrebbe ricavato i fondali. La qualità di questo ciclo pittorico, ovviamente ignorato dai libri di storia dell'arte, ne fa un unicum assolutamente eccezionale e rilevante almeno sul piano museografico.

Esiste forse solo un'altra sezione, nel Museo di storia naturale di New York, in grado di reggere il confronto con quella dei Mammiferi del Nord America: ha le stesse proporzioni di questa, occupando il medesimo spazio, in pianta, del piano superiore dell'edificio, ed è dedicata ai Mammiferi africani. La materia prima, cioè i grandi animali delle savane e delle foreste del Continente Nero, è quanto di più radicato nell'immaginario collettivo della vita selvaggia delle regioni tropicali: elefanti, rinoceronti, giraffe, zebre, gazzelle, leoni; e la qualità della realizzazione è altrettanto mozzafiato. Nessun museo al mondo credo possa vantare un colpo d'occhio d'effetto come quello che attende il visitatore all'ingresso della Akeley Hall of African Mammals, con la processione di otto (!) elefanti africani che troneggia al centro del grande ambiente (mi sono immaginato, per un attimo, quali difficoltà logistiche siano state affrontate per collocare i grandi pachidermi al primo piano dell'edificio). Gli elefanti sono gli unici esemplari di fauna presentati nella loro nuda essenzialità, tutti gli altri sono ambientati in 28 grandi diorami.

Il salone è dedicato alla memoria di Carl Akeley, esploratore, tassidermista e scultore che fu il vero artefice, nei primi decenni del secolo, di questa straordinaria realizzazione. Non meno di James Perry Wilson, Akeley ha lasciato un segno profondo nella storia della museografia naturalistica. Fu lui, infatti, a rivoluzionare le tecniche di naturalizzazione degli esemplari di fauna, che fino ad allora erano preparati riempiendo le pelli con paglia o trucioli di legno, con risultati spesso piuttosto grotteschi. Akeley ideò una tecnica di ricostruzione che prevedeva la realizzazione di una impalcatura di legno e di fili metallici e, talvolta, di parti dello scheletro, su cui sovrapporre uno strato di creta da modellare in modo da riprodurre fedelmente la forma di ogni muscolo e persino di ogni tendine; solo a questo punto sulla sagoma dell'animale veniva adattata la pelle.

Oggi si fa ricorso a materiali sintetici molto più leggeri nella fase preparatoria di realizzazione delle sagome, ma la tecnica è rimasta essenzialmente quella messa a punto da Akeley. Fu dunque la ricerca di soluzioni che permettessero quell'aderenza al vero richiesta dai diorami a far compiere un fondamentale passo in avanti nelle tecniche tassidermiche. Akeley morì nel 1926 nel corso di una delle tante spedizioni intraprese dal museo per la realizzazione della sala africana, molto prima della sua inaugurazione al pubblico, che avvenne dieci anni più tardi. Il luogo in cui fu sepolto è riprodotto nel fondale di uno dei diorami della sala a cui dedicò tutte le sue energie, quello in cui troneggia un maestoso esemplare di gorilla di montagna: una nota romantica e insieme un omaggio alla sua memoria.

Nell'American Museum vi sono altre cinque gallerie di diorami dedicati all'illustrazione della fauna del pianeta. La sezione dei South Asiatic Mammals fu inaugurata nel 1930; altre tre sono dedicate agli Uccelli: la Hall of Birds of the World e la Whitney Memorial Hall of Pacific Bird Life, entrambe al primo piano, progettate alla fine degli anni Trenta; e la Hall of North American Birds, al secondo piano. Quest'ultima merita un'attenzione particolare. Concepita come una lunga galleria rettangolare che si apre sulla sottostante sala dei popoli africani, essa ospita 29 piccoli diorami che sono, in assoluto, i più antichi fra quelli realizzati dal Museo e, credo, nella storia della museografia naturalistica. Fu un'idea dell'ornitologo Frank Chapman quella di ambientare le diverse specie di Uccelli del Nord America in altrettanti habitat groups, concepiti come fedeli ricostruzioni di ben precisi contesti naturali e non come semplici "quadretti di genere" (questi ultimi erano già noti alla museografia ottocentesca e rispondevano ad intenti più che altro decorativi). La sala fu inaugurata nel 1909 (!) e c'è veramente da restare ammirati della genialità che li ispirò, anche e soprattutto alla luce della fortuna che in seguito avrebbe incontrato la nuova, felice intuizione. Finanche per la loro qualità, comunque, non sfigurerebbero nella maggior parte dei musei di oggigiorno.

L'ultima delle grandi sale di diorami della fauna del pianeta è un altro must del Museo di storia naturale di New York. Si trova al piano terra, in un vasto e buio ambiente situato praticamente al centro dell'immenso edificio, ed è dedicata alla vita degli oceani. In questa sala è normale vedere i visitatori col naso all'insù e con la bocca spalancata. Di conseguenza, è facile inciampare in uno dei tanti passeggini con i quali mamme e papà scarrozzano i loro pargoli, o pestare i piedi a qualche malcapitato visitatore. Assieme ai gridolini di entusiasmo dei più piccoli, riecheggiano dunque frequenti "sorry" più o meno imbarazzati. È tutta colpa sua: un colosso di oltre trenta metri (per l'esattezza 94 piedi) di lunghezza, realizzato in fibra di vetro e poliuretano, che riproduce fedelmente nella forma e nelle proporzioni un esemplare di balenottera azzurra catturato nel 1925 al largo della Georgia Australe. Ha dell'incredibile il modo in cui gli allestitori del museo sono riusciti a "sospendere" l'animale a mezz'aria: della gigantesca struttura non si riesce a scorgere alcun sostegno. La balenottera sembra levitare a mezz'aria al centro del salone, fermata nella plastica posa che il cetaceo assume nell'atto di immergersi in profondità. E per una volta ancora, prima di uscire, mi sorprende l'illusione di sfogliare quel magico libro illustrato aperto da bambino.

 

Nota

(1) L. Cagnolaro, Criteri di allestimento di sezioni biologiche di un museo naturalistico, in Didattica museale per operatori dei musei scientifici e naturalistici, Ferrara, SATE, 1993, pp. 45-50.

 

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