Rivista "IBC" X, 2002, 2
musei e beni culturali / corrispondenze
Quand'ero ragazzo sognavo che un giorno anch'io avrei visto l'America. Non sarei sbarcato dalla scaletta di un banale aeroplano, ma dal ponte di un transatlantico pavesato di mille bandierette, per non perdermi l'emozione della baia di New York che si profila all'orizzonte dopo sei giorni e sei notti di mare, mare e ancora mare. Era quello il modo migliore, pensavo, per godere appieno il momento irripetibile in cui il miraggio del Mondo Nuovo sarebbe divenuto realtà.
Allora l'America era per me qualcosa di irraggiungibile, su cui potevo fantasticare liberamente, come è possibile solo quando si è abbastanza giovani da pensare ad un futuro senza limiti di tempo e di orizzonti. Più tardi ho dovuto arrendermi di fronte all'evidenza e rinunciare alla vecchia idea del transatlantico, ma proprio perché l'America era diventata qualcosa di molto più concreto. Andarci non era più un sogno ad occhi aperti: bastava programmare le ferie, informarsi sui voli e sui costi, rinnovare il passaporto. Bastava volerlo. Molti preferiscono che un sogno resti tale. Io, ad un certo punto della mia vita, ho invece capito come il viaggiare fosse una parte irrinunciabile della mia formazione e della mia esperienza del mondo reale. E l'America è diventata un bisogno.
Per chi viaggia andando in cerca di suggestioni di facile presa gli Stati Uniti sono, inutile dirlo, una meta ideale. Siamo talmente imbevuti del mito del "sogno americano" che è praticamente impossibile viaggiare attraverso gli States senza inciampare continuamente nelle sue molte materializzazioni. L'incontro ravvicinato con il mito americano non può non emozionare, almeno la prima volta, ma è un'esperienza francamente un po' banale, e non meriterebbe di riempire le pagine di un sito web come di un libro (anche se è difficile leggere un reportage di viaggio negli USA che non sia l'ennesima celebrazione di quel mito). Se ho cercato di dare una forma leggibile agli appunti che ho raccolto nel corso dei miei viaggi negli Stati Uniti, e se ho aderito con entusiasmo all'invito di pubblicare il mio resoconto sulla rivista "IBC", l'ho fatto perché sono tornato da quei viaggi con una sensazione, che ancora conservo, di sorpresa.
Gli USA sono riusciti a stupirmi. Mi sono convinto di una cosa: se cerchiamo di avvicinarci alla realtà americana rinunciando alle suggestioni dei miti di massa, alla falsa familiarità indotta dal grande schermo con territori, scenari, situazioni che fanno parte dell'immaginario collettivo e che sono perciò icone un po' vuote di significato, gli Stati Uniti sono capaci di rivelarsi una miniera di sensazioni inattese, di stimoli, di tentazioni e di seduzioni niente affatto scontate (pur rimanendo, ben inteso, in un ambito di esperienze confessabilissime e politically correct quali sono quelle che attengono una sfera di interessi squisitamente culturale). Sul piano culturale, infatti, gli Stati Uniti sono tuttora, per noi, quasi un altro pianeta. Questa diversità che si dispiega tra le due sponde dell'oceano è ciò che più rende eccitante il viaggio in America. Viaggio che, per me, ha significato uno straordinario allargamento dei confini entro cui era racchiusa la mia esperienza personale e professionale.
All'inizio della mia avventura pensavo ad un viaggio. L'America, mi dicevo, non è dietro l'angolo, e quindi puntavo su una sorta di grand tour che mi consentisse di vedere non tutto certamente ma almeno le cose più significative e importanti. Soluzione improponibile, me ne resi conto quasi subito: non solo perché avrei dovuto avere a disposizione almeno tre-quattro mesi (cosa impossibile), ma anche perché cominciando a conoscere la realtà americana, dopo i primi due viaggi sulla costa atlantica, mi ero accorto subito delle profonde differenze che le pur giovani tradizioni culturali americane avevano impresso nel vissuto delle diverse città e regioni: non potevo pensare di farmi un'idea di quella realtà così complessa senza aver girato in lungo e in largo attraverso gli Stati Uniti, senza averli per così dire metabolizzati, senza fretta e rifuggendo da programmi di viaggio rigorosamente predeterminati.
Avevo capito molto presto, in altre parole, che negli USA sarei dovuto tornare diverse volte. È quello che ho fatto, sempre a mie spese e sfruttando fino all'ultimo giorno i periodi di ferie che mi erano concessi. Qualcuno riesce a viaggiare in conto spese, lo so. Devo confessare che non ho mai amato l'atteggiamento un tantino snob di chi si fa vanto di aver girato il mondo "dedicando mesi ed anni" a quelle che in fondo sono occupazioni privilegiate secondo il metro di giudizio dei comuni mortali: viaggi di aggiornamento graziosamente concessi da amministrazioni pubbliche, o campagne di ricerca pluriennali in angoli remoti del globo (che comportano certamente delle rinunce e molto spirito di adattamento, ma che altrettanto certamente consentono di dedicarsi a ciò che più appassiona senza l'assillo di riunioni, rendiconti amministrativi, rapporti di area o di settore, lamentele, squilli di telefono e quant'altro allieta la vita quotidiana sul proprio posto di lavoro).
E poi sono insofferente dei condizionamenti cui si va incontro viaggiando conto terzi, perché l'esperienza del viaggio è per me innanzitutto una occasione di rigenerazione, da vivere in piena libertà. Non riesco quasi a concepire ferie sedentarie, anche se talvolta ne ho assaporato i vantaggi: la possibilità di riposare, innanzitutto, di leggere con calma qualche libro, di fare delle passeggiate, di immergersi nella natura. Ma ne godo di più, di questo tipo di rigenerazione, se è di breve durata, una parentesi che ci si concede per allentare la tensione. Nell'ozio mi pare di avvertire l'invecchiamento delle mie cellule, viaggiando invece riscopro ciò che rende diverso il bambino dall'adulto: l'avventura della scoperta.
E non mi disturba il fatto di portarmi appresso il mio bagaglio di esperienze professionali, di ritornare sempre su un tema, quello del museo, in un modo che a qualcuno, forse, potrebbe sembrare ossessivo. Sono, in fondo, un animale da museo: non di quelli imbalsamati nelle vetrine e nemmeno - e questo è meno ovvio - di quelli imbalsamati in un ruolo, mummificati dietro una scrivania. Chi dirige un museo non può essere l'amministratore della quotidianità: deve investire in idee, deve dar forma a progetti. La missione del direttore di museo dev'essere quella di dar vita ad una impresa culturale, che è un impegno nobile e alto di militanza sociale.
A proposito di impresa. Quello che i legislatori e molti amministratori spesso non capiscono è che il governo della cultura non può essere solo una questione di marketing e di efficienza amministrativa. L'idea errata e sbrigativa del museo-impresa, che si sta affermando, trascura il fatto che alla base deve sempre esistere un progetto culturale. Ogni museo dovrebbe avere una sorta di copyright sul suo progetto culturale, non rincorrere modelli di successo di dubbia qualità. Vedo con preoccupazione, invece, come talvolta si guardi con mal riposte aspettative al modello efficientista della grande distribuzione. Seguendo questa strada si condanneranno all'oblio tutti i piccoli musei, così come chiudono i negozi di quartiere, mentre i tanto auspicati (e mitizzati) direttori-manager si contenderanno i pochi musei che "rendono". In modo elegante si sarà liquidata la cultura intesa come partecipazione, come riappropriazione della propria storia, come costruzione di una identità collettiva. Il museologo curioso non potrà mai essere uno di questi direttori-manager. Per quanto mi riguarda, non mi dispiacerebbe se agli animali da museo della mia specie fosse riconosciuto il ruolo di guastatori dell'omologazione. È più nobile e più positivo di quello, che aborrisco, di inguaribili romantici.
Ora, il punto è che, come in tutti i processi di globalizzazione, anche nell'economia della cultura i modelli in grado di imporsi su scala planetaria nascono negli Stati Uniti. Come la motorizzazione di massa, la ristorazione veloce, la televisione e i personal computer, questi modelli (o feticci) si consolidano dapprima oltre Atlantico per dilagare poi in tutto il resto del mondo. L'assurda pretesa di essere depositari di oltre metà dei beni culturali esistenti sul pianeta, troppe volte sbandierata senza ritegno, non può esimerci dal riconoscere che l'Italia non è più laboratorio di idee, né cantiere di realizzazioni che lascino il segno, come almeno possono ritenere di essere la Germania o la Francia. Questi paesi, che pure al pari del nostro sono importatori di modelli e di suggestioni a stelle e strisce, hanno saputo almeno riconoscere il valore di simbolo potente ed efficace di identità collettiva che il museo (ed il patrimonio culturale in genere) conserva anche e forse soprattutto nell'era della comunicazione di massa.
Non a caso i distintivi più eloquenti del ruolo guida perseguito dalla Francia nella compagine europea sono riconoscibili nella piramide di cristallo del Grand Louvre, nell'invenzione del Museo d'Orsay, nella Città della Scienza della Villette, nella grande arca della Galérie de l'Evolution, nei nuovi poli dell'Opéra Bastille e della Biblioteca di Bercy, come già nel "non contenitore" anticonvenzionale e pieno di fermento del Beaubourg (e nel creare questi simboli di eccellenza la Francia ha saputo ribadire, anzi recuperare, il proprio ruolo di laboratorio di idee, al punto da esercitare una potente suggestione oltre i propri confini, come è avvertibile in Olanda, considerando la recentissima realizzazione del Naturalis di Leida). Non a caso la Germania, appena riunificata, si è gettata a capofitto nella titanica impresa del Kulturforum di Berlino e già sta lavorando alla rigenerazione della Museumsinseln con il chiaro intento progettuale di riannodare i fili di una eredità, di una continuità storica spezzata da un cinquantennio di catastrofi e di divisione.
Si può forse credere che il museo-impresa che guarda al mercato sia una necessità ineluttabile; è certo però che tutte queste gigantesche operazioni non rispondono solo a scelte di marketing, non perseguono solo l'obiettivo del museo che "rende", non sono riducibili al modello del supermercato. Soprattutto, quello che è sorto o che sta sorgendo nei cantieri della cultura lungo le rive della Senna o della Sprea non è l'assemblaggio di componenti progettate e brevettate negli Stati Uniti. Gli americani hanno inventato ed esportato in tutto il mondo la motorizzazione di massa, ma non riescono a venderci le loro automobili. A maggior ragione le tradizioni di un paese dovrebbero avere un peso determinante nella politica culturale.
Dovrebbe essere evidente a chiunque che l'Italia ha nella propria storia il know-how che gli consentirebbe di avere una sua politica della cultura, come l'hanno la Francia e la Germania, pur non essendo esenti (tutt'altro!) da contraddizioni e conflitti sul concetto di redditività dell'impresa culturale. Perseguire l'efficienza economica e amministrativa senza avere un progetto culturale vuol dire rincorrere delle suggestioni, e rischia di appiattire l'offerta dei musei su modelli di consumo di importazione che non riflettono la nostra identità e i nostri bisogni. È forse un segnale positivo che l'articolo 33 della legge finanziaria 2002 abbia introdotto dei "paletti" alla concessione ai privati della gestione dei beni culturali dello Stato: hanno avuto effetto, evidentemente, i richiami giunti da ogni parte d'Italia - e da tutto il mondo - sull'imprescindibile necessità che la gestione dei musei risponda al criterio dell'interesse pubblico e non a logiche di profitto; ma è solo un primo passo, a mio avviso, perché ai musei italiani sia finalmente riconosciuto il ruolo sociale che loro compete.
In ogni caso, mi sono sempre rifiutato di credere che il modello di museo americano, e più in generale la politica dei beni culturali praticata negli Stati Uniti, si riducano ad un banale miscuglio di efficientismo e di redditività. Vivendo in Europa si può avere un'opinione distorta di tante cose, e sono convinto che occorrerebbe conoscere meglio realtà sociali e culturali lontane dalle nostre ma che oggi ci riguardano non fosse altro perché premono alle nostre porte; ma quando si considera quanta influenza esercitano gli Stati Uniti come modello di riferimento, ogni rischio di fraintendimento di quella realtà ha certamente conseguenze più dirette e insidiose. È per questo che bisogna conoscerli. Il racconto continua: alla prossima puntata.
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