Rivista "IBC" XXVII, 2019, 3
musei e beni culturali / mostre e rassegne
Moving objects. Stories of displacement – Oggetti in movimento. Storie di spaesamento è il titolo di una piccola mostra ospitata nell
’Ottagono della sede centrale dello University College di Londra, proprio sotto l’iconica cupola dello storico Wilkins Building. Aperta dal 18 febbraio al 6 ottobre 2019, Moving Objects è stato uno degli eventi attraverso i quali UCL si racconta al pubblico esterno (visitatori internazionali e comunità cittadina), dando conto delle ricerche dei suoi studiosi attraverso modalità aperte ai non addetti ai lavori.
Oltre che da finalità di trasparenza e disseminazione del sapere, le esposizioni ospitate nell’Ottagono sono caratterizzate da un alto livello di interdisciplinarietà e costruite su metodologie partecipative: anche nel nostro caso si trattava infatti del risultato di un processo di coproduzione che ha coinvolto, oltre ai ricercatori di UCL, migranti forzati e rifugiati che vivono a Londra o nel Medio Oriente.
Non è un caso che la mostra sia nata in questo contesto: in coerenza con il motto attuale -
disruptive thinking - UCL, nata all’inizio dell’‘800 come alternativa laica di Cambridge e Oxford, è oggi considerata uno dei centri mondiali più avanzati e innovativi per quanto riguarda la ricerca in campo socio-antropologico e non solo. In particolare per quanto riguarda l’ambito del patrimonio culturale, l’Università inglese, assieme all’Università di Göteborg, è sede del
Centre for Critical Heritage Studies (CCHS), centro di ricerca internazionale e interdisciplinare che ha promosso la mostra assieme a UCL
Grand Challenges Programme e al
Department of Geography.
Uno degli obiettivi programmatici del CCHS è senz’altro quello di inserire il tema del patrimonio culturale e dei processi di patrimonializzazione al centro dei dibattiti della società contemporanea. In linea con l’assunto dei
critical heritage studies secondo il quale il patrimonio è un processo di negoziazione del passato con i bisogni e le aspettative del presente ed è quindi pienamente radicato nella contemporaneità, il CCHS indaga come tale patrimonio possa assumere un ruolo attivo e propositivo nella creazione dei futuri scenari sociopolitici e ambientali.
Come noto, il tema delle migrazioni ha assunto un ruolo di primissimo piano nell’agenda contemporanea ed è per questo al centro di moltissimi programmi di ricerca di UCL.
Moving Objects, che esplora le relazioni fra esseri umani, animali e oggetti in esilio, è quindi il frutto di alcune di queste ricerche sulla condizione del migrante nel mondo contemporaneo, status che riguarda, ad oggi, circa 68,5 milioni fra rifugiati, richiedenti asilo e coloro forzatamente costretti a spostarsi all’interno dei loro paesi: una moltitudine di persone nel mondo intrappolate in una sorta di “temporaneità permanente”.
I programmi di ricercada cui è scaturita la mostra hanno visto collaborare i dipartimenti di archeologia, geografia, bioscienze, assieme alla Helen Bamber Foundation, una
charity che si occupa dei diritti di rifugiati e richiedenti asilo.
Attraverso foto, poesie, materiali d’archivio e oggetti selezionati, creati o analizzati da persone con esperienze di allontanamento forzato dalla propria casa assieme ai ricercatori di UCL, l’esposizione intendeva sfidare la comune percezione di ciò che significa essere un rifugiato.
Il senso dell’essere “fuori posto” è stato indagato attraverso 4 temi:
out of place, being in place, talking objects e
challenging views. Molti dei materiali esposti, chiamati a illustrare questi temi, sono il prodotto dei laboratori di scrittura, artigianato, fotografia organizzati a Londra e nei campi di rifugiati in Libano e Giordania. Oggetti che proprio dal loro essere “fuori posto” rivelano nuovi significati, che raccontano storie di conflitti, esili, migrazioni forzate, a volte sperimentate più di una volta nel corso di una vita e per periodi prolungati. E assieme rivelano aspetti dell’incontro fra cittadini e rifugiati, che è scambio di oggetti, ma soprattutto di idee e memorie.
Così attraverso l’interazione prodotta da oggetti (dalle stoffe ai gadgets di ricorrenze, ai modellini giocattolo, ai ricami), parole (brani di poesia, massime e proverbi), foto, la mostra costringeva ad affrontare domande sul senso profondo di termini quali “locale” o “straniero” e sull’ambiguità della loro contrapposizione.
Oggetti “fuori posto” - in molti sensi - erano anche i reperti archeologici che i curatori di
Moving Objects avevano inserito nel percorso, provenienti dalla prestigiosa collezione di antichità egizie di Flinders Petrie che costituisce il nucleo principale del Petrie Museum, la raccolta universitaria di UCL ospitata “temporaneamente” (ancora un
displacement) negli angusti spazi di Malet Place. Reperti che in questo contesto servivano a raccontare non solo il
displacement, ma il
dispossessment, di quando il Medio Oriente era terra di rapina per le potenze coloniali occidentali. L’archeologia divenne allora strumento prediletto per esercitare - con l’appropriazione e la decontestualizzazione del patrimonio nei musei europei - quell’egemonia culturale di cui Edward Said cominciò, in
Orientalism, ad analizzare i meccanismi. Così gli oggetti “rimossi” raccolti da Flinders Petrie ci hanno raccontato anche le pratiche di un tempo - non del tutto archiviate - in cui i ruoli di “ospite” e “straniero” erano invertiti, ma non i rapporti di potere, tuttora inalterati.
E ancora i piccoli manufatti egizi nel loro essere così “fuori posto” rispetto ad una mostra archeologica ‘tradizionale’, rivelavano una volta di più la complessità di cui gli oggetti e le loro storie sono dotati.
Nel percorso della mostra trovavano posto, infine, alcuni fossili, riproduzioni e disegni di forme di vita estinte, e quindi “fuori del tempo”, a richiamare un altro dei temi cruciali della nostra contemporaneità: il cambiamento climatico e l’impatto sull’habitat della specie umana. L’“essere a posto” (
being in place) del titolo di questa sezione si riferiva in questo caso alla nozione presente in molte culture indigene che richiama la necessità, per gli uomini, di una visione non antropocentrica, ma consapevole dei diritti e dei “valori” di tutti gli esseri viventi: solo così riusciremo, come esseri umani, ad essere “a posto”.
Fin dal titolo, la mostra londinese ha dichiarato la propria appartenenza - come cornice epistemologica - a quella
agent network theory che rappresenta uno dei riferimenti teoretici principali dei
critical heritage studies: gli oggetti come strumento ermeneutico, in grado di disvelare la complessa rete di rapporti fra esseri umani, animali e cose, in cui ci troviamo inseriti.
Alla così detta archeologia del presente o del passato contemporaneo, settore di studi di grande attualità ed effervescenza e anch’essa inseribile a pieno titolo nei
critical
heritage
studies, si può ricondurre questo uso di oggetti quotidiani e quindi normalmente trascurati e invece riletti, come avviene nella pratica dell’archeologia tradizionale, sotto nuova luce, frammenti di un progetto sociale e materiale, testimoni in grado di farci leggere con uno sguardo diverso, “dal di fuori”, la nostra contemporaneità, svelando rapporti di potere/sapere che il nostro occhio e la nostra pigrizia mentale non percepiscono più.
Infine, anche l’altro termine presente nel titolo, “
moving”, rimandava intenzionalmente oltre che al movimento fisico implicato dall’esilio, dal
displacement nello spazio (ma anche nel tempo), anche all’altro significato del verbo ‘
move’: commuovere. Gli oggetti dunque come tramite, esplicitamente richiamato, per esplorare forme di coinvolgimento emotivo connesse ai temi dell’essere fuori posto.
Il richiamo intenzionale all’ambito emotivo si ricollega anch’esso ad uno dei più recenti campi di ricerca aperti dai
critical heritage studies, ovvero sia quello sulle pratiche affettive -
affective
practices - analizzate nella loro organizzazione sociale. Le emozioni sono una forma di giudizio valutativo inestricabilmente legata alla cognizione e che fa leva su precedenti conoscenze ed esperienze.
Il fatto che le pratiche affettive siano storicamente e culturalmente determinate e quindi espressione di relazioni potere/sapere, ne rende cruciale l’analisi e l’uso per gli
heritage studies e in generale la ricerca sociale critica.
Così le emozioni possono essere sfruttate come strumenti di accesso al patrimonio, per di più dotati di un grande potere di coinvolgimento e in grado di creare quel corto circuito passato-presente costitutivo del processo di patrimonializzazione di oggetti, luoghi, monumenti. D’altro canto se si considera il patrimonio, così come avviene nei più avanzati
heritage
studies, come una forma di pratica sociale, collegata come è all’espressione di identità e al senso di appartenenza ai luoghi, diventa possibile includere fra le pratiche affettive lo stesso patrimonio culturale.
Fra le emozioni che mette in gioco
Moving
Objects vi sono sia quelle più “rassicuranti” attraverso le quali siamo portati a riconoscere modalità, usi, espressioni a noi familiari e da noi accettate, ma anche quelle che mirano volutamente a destabilizzare visioni e narrazioni assodate di identità e appartenenza.
Come dimostrato, la natura delle risposte emotive/affettive è spesso dotata, nella sua complessità, di forte carica di ambiguità, quando non contradditorietà e anche per questo il suo uso contribuisce a sperimentare una nuova frontiera nell’ambito dell’interpretazione del patrimonio culturale, non più legata ad una idea di trasmissione lineare di messaggi, quale è quella tuttora dominante nelle pratiche museologiche.
Oggetti talora minimi e niente affatto dotati di particolare pregio artistico o estetico, ma che raccontavano storie di oggi, facendoci riflettere sulla nostra contemporaneità e i grandi problemi che la affliggono in modalità del tutto diverse dalle cronache giornalistiche o dal flusso informativo incessante e schizofrenico della rete. E quegli accostamenti che parevano a prima vista inusuali, finivano così, nei loro molteplici rimandi, per rivelare legami impensabili eppure evidenti.
A chi ha avuto il privilegio di assaporare l’atmosfera raccolta eppur così densa di stimoli, intellettuali ed emotivi, di
Moving
objects non sarà sfuggito lo sforzo in termini museologici - nel senso pieno del termine - che un’operazione di questo tipo ha comportato.
Obiettivo di ogni esposizione è far parlare degli oggetti - dai grandi capolavori della storia dell’arte ai più umili manufatti - e tramite loro raccontare una storia. Innumerevoli sono le storie che
Moving
Objects è riuscita a raccontare, mobilitando, in un intreccio non semplice e non scontato risorse razionali ed emotive.
Ma come nelle operazioni culturali di più alto livello, in
Moving
Objects non c’è solo la capacità di legare gli oggetti esposti in storie anche molto complesse: attraverso queste, chi visita la mostra è inevitabilmente condotto a innescare collegamenti personali e non, e a porsi domande. Sulla precarietà della nostra vicenda terrena, sui molteplici legami che ci uniscono, esseri viventi e non solo umani, sulla necessità di trovare - assieme, e in fretta - altre risposte e altri percorsi da quelli oggi prevalenti e che hanno prodotto tanto insensato e doloroso spaesamento.
Mostra
Moving objects. Stories of displacement
University College di Londra
18 febbraio-6 ottobre 2019
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