Rivista "IBC" XVIII, 2010, 4

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / interventi, mostre e rassegne, pubblicazioni

Andare via o restare? Dalla "Settimana della lingua italiana nel mondo", tenutasi quest'anno a Barcellona, una riflessione sulla scelta di chi espatria e sul destino di chi, invece, vorrebbe rimanere.
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Cristina Basili
[dottoranda in Filosofia politica all'Università "Pompeu Fabra", Barcellona]

C'è chi se ne va e chi tenta disperatamente di entrare. Chi consapevolmente sceglie di trascorrere la propria vita altrove e chi fugge da una vita impossibile. Sono questi i due fenomeni che attraversano l'Italia attuale: l'emigrazione consapevole dei giovani laureati italiani e l'esodo senza posa degli extracomunitari. Due traiettorie che si incrociano e che, nel loro punto di incontro, svelano la trama culturale di un paese.

Su questi due temi si è aperta la "X settimana della lingua italiana nel mondo" a Barcellona. Evento culturale internazionale che, su iniziativa dell'Accademia della Crusca in cooperazione con il Ministero italiano degli affari esteri, si svolge a partire dal 2001, ogni anno nel mese di ottobre. Un ruolo centrale nell'organizzazione della manifestazione all'estero si deve, tra gli altri, agli istituti italiani di cultura e ai consolati. La rassegna del 2010, svoltasi dal 18 al 24 ottobre, ha avuto per tema: "Una lingua per amica: l'italiano nostro e degli altri". I primi tre incontri della manifestazione, valorizzando l'aspetto meno accademico del tema proposto, suggeriscono una riflessione attuale sulle condizioni sociali e culturali del Bel Paese, ma anche una riflessione più generale sulle condizioni della cosiddetta postmodernità.

La prima giornata si è aperta con la presentazione di un libro appena pubblicato, Vivo altrove, alla presenza dell'autrice.1 La giovane giornalista e scrittrice italiana Claudia Cucchiarato, residente da cinque anni nel capoluogo catalano, cerca di definire le caratteristiche di un fenomeno emergente, di cui è lei stessa protagonista: l'emigrazione di massa dei giovani italiani, con età compresa tra i venti e i trent'anni, nel resto d'Europa e del mondo. Fenomeno emergente, appunto, ma statisticamente visibile solo a partire dalla seconda metà del decennio in corso. Integrando con lo strumento aggiornato dell'inchiesta i dati ufficiali dei consolati e delle ambasciate italiane (insufficienti per dare conto dell'ampiezza e delle cause del fenomeno), l'autrice traccia le linee di un mutamento in atto. Attraverso il canto corale della narrazione biografica, il libro segue le rotte privilegiate dei giovani migranti italiani, tentando di cogliere il punto in cui la vicenda personale di ognuno si incrocia con la storia.

Dalla lettura del testo e dal dibattito svoltosi durante la presentazione a Barcellona - città simbolo degli italiani all'estero, meta privilegiata e corteggiata - emerge il quadro di un paese e di un'italianità speculari rispetto a quelle dominanti in patria. Perché a dispetto del sottotitolo dato al libro (secondo cui i giovani emigranti italiani di oggi sarebbero "senza radici") quasi tutte le testimonianze raccolte rivendicano una forte, seppur ambigua, componente identitaria. Mentre si pretende una cittadinanza universale o quanto meno europea, infatti, l'appartenenza al proprio paese d'origine sembra definirsi in maniera duplice. Da una parte in positivo, attraverso l'attaccamento a ciò che l'Italia offre di non ambivalente dal punto di vista morale: la bellezza del suo territorio, le sue città d'arte, i suoi paesaggi, la sua illustre tradizione letteraria e artistica, il suo clima, i suoi sapori. Dall'altra in negativo, come necessità di emanciparsi da un tessuto sociale e culturale in cui l'elemento politico interviene a determinare un malcostume diffuso e generalizzato.

Nell'elenco delle motivazioni che spingono i giovani italiani all'estero tornano a ripetersi incessantemente una serie di termini: chiusura, stagnamento, vischiosità, opacità. Il quadro che ne emerge è quello di un paese stanco, vecchio, in corto circuito. Il modo di valutare la propria provenienza sembra quindi affetto da dissociazione: alla patria amata, fonte di nutrimento per il corpo e per l'anima, luogo in cui affondano, legate al passato, le radici dell'identità, si contrappone lo Stato italiano, terra arida in cui la res publica si perde e si corrompe. Lo Stato appare come un elemento estraneo nel corpo del Paese, emblema dei suoi mali e dei suoi vizi, causa e conseguenza di una società immobile, destinata a ripetere sé stessa. Cosicché, uscendo dalle maglie strette del territorio italiano, si cerca nella continuità territoriale o culturale (il riferimento privilegiato è sempre l'Europa) di accedere a una nuova identità.

Coadiuvato, ma non determinato, dalla crisi economica, il fenomeno migratorio attuale si differenzia, rispetto a quello del secolo precedente, per la centralità dell'elemento culturale, inteso in senso ampio. Non si fugge dalla terra amata per cercare (esclusivamente) il benessere materiale, si viaggia alla ricerca di una diversa modalità di esistenza. A essere avvertita è la mancanza di progresso: la mancanza, a dispetto di qualsiasi proclama politico, di una corrispondenza, sempre più precisa, tra le condizioni di vita e le necessità, non solo materiali, degli individui. Il dato economico non esaurisce quindi la complessità di un fenomeno che prospetta cause multiple e che scava a fondo nel tessuto delle odierne società.

A favorire gli spostamenti, per lo più infraeuropei, intervengono una serie non secondaria di fattori, oltre a quelli culturali: l'ampia disponibilità di voli a basso prezzo, l'abbattimento delle frontiere (almeno per quanto riguarda l'Unione Europea), i finanziamenti alla mobilità internazionale, i programmi di scambio universitari. Sono questi i mezzi con cui le nuove generazioni spezzano il circolo vizioso delle identità nazionali e si pretendono cittadine dell'Europa e del mondo, ma il venir meno dei confini può mettere in crisi il senso della rappresentanza democratica e rendere inabitabile una società, come quella italiana, isolata dalle sue infinite strategie di chiusura.

L'interesse del caso italiano risiede nella sua anomalia: mentre il Paese, grazie alla massiccia migrazione dei suoi giovani e avveduti abitanti, contribuisce in maniera determinante alla formazione di una coscienza europea, è al tempo stesso tagliato fuori da questo circolo virtuoso. L'Italia è il paese europeo che meno attrae i laureati stranieri, soffrendo così il depauperamento di una delle risorse più preziose per un ordinamento democratico. Il libro di Cucchiarato suggerisce, in maniera discreta, che si tratta di un fenomeno critico e tenta di inquadrarlo secondo criteri scientifici e griglie ermeneutiche più ampie del contesto nazionale, stilando anche una bibliografia di riferimento.

Parlare, come fa l'autrice, di "fine delle grandi metanarrazioni", descrivendo i nuovi modi di "viaggiare in un mondo liquido", evoca lo sfondo teorico-concettuale della postmodernità, da Pirandello a Bauman. Implica la coscienza che gli avvenimenti presi in esame siano il frutto maturo di una coincidenza di mutamenti strutturali subìti nell'ultimo secolo dal mondo in cui viviamo. Si tratta di eventi definibili in termini di crisi: crisi della democrazia rappresentativa, crisi del soggetto, crisi del capitalismo; ma si tratta anche dell'apparizione di un nuovo scenario: cosmopolita, multiculturale, decentralizzato, globalizzato e, per molti versi, ancora sfuggente. In un contesto del genere, dai tratti non chiaramente definibili, in cui la linea di separazione tra interno ed esterno non regge quasi a nessun livello, in cui "in ogni paese, ormai, la popolazione è una somma di diaspore",2 il caso italiano può diventare lo spunto per ampliare i termini della riflessione.

Il libro di Cucchiarato suggerisce che ad attirare i ragazzi che espatriano sono per lo più le grandi capitali europee, i paesi dinamici dal punto di vista sociale e non solo economico, le realtà cosiddette multiculturali o, a volte, la semplice diversità: il desiderio di confrontarsi con un ambiente internazionale, la volontà di togliere la maschera a una rappresentazione del mondo ritenuta non più adeguata, di aprirsi a un altro tipo di narrazione. La soglia più avanzata della postmodernità - almeno dal punto di vista dell'Occidente, della sua componente giovane e istruita e quindi, per sua natura, progressista - sembra dunque essere la dilatazione dei confini: nazionali e culturali. Il disegno di una nuova mappa mondiale, non più verticistica, ma orizzontale, decentrata e pluralistica. L'anomalia italiana pare derivare, allora, dal non essere all'altezza di questo progetto, tanto che i suoi giovani si sentono costretti ad andarsene altrove, da qualsiasi altra parte, per poter vivere al passo coi tempi.

Mettendo in prospettiva queste riflessioni, tanto condivisibili quanto eurocentriche, con il secondo evento in programma - la proiezione, alla presenza del regista Marco Simon Puccioni, del film documentario Il colore delle parole - si può aggiungere un'ulteriore chiave di lettura. Presentato nel 2009 alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, il documentario racconta le vicende biografiche di quattro amici africani, immigrati in Italia da oltre trent'anni. Attraverso la storia della loro amicizia e il racconto delle loro attività e delle loro personalità, si ripercorrono tre decenni di immigrazione. Da studenti a "vu cumprà", da extracomunitari a immigrati, il documentario narra il processo di un'integrazione difficile, in bilico tra l'omologazione e l'estraneità, soggetta ai mutamenti del gioco politico: un progressivo inasprimento della legislazione che cambia il volto stesso dell'immigrazione. Vengono messi in scena la fatica del cambiamento, il problema di un'identità cercata, persa, rivendicata; la difficoltà di dover rinchiudere la propria complessità di uomo in una rappresentazione univoca quanto astratta; la fatica e il tentativo di dare e di ricevere. Il desiderio di trovare una nuova patria, senza perdere la propria, lottando con i confini soffocanti di una società che restringe via via per i migranti i margini di libertà: fino alla criminalizzazione odierna.

Si può individuare allora, anche nella resistenza della società italiana attuale ad accogliere nel suo seno, seppur in maniera contraddittoria, la diversità, il germe della sua anomalia. Il Paese, immobilizzato dal sostrato opaco del clientelismo e dei compromessi, consuma le proprie energie residue, mentre non è in grado di attingere ad altre risorse. Molti dei suoi giovani, quindi, lo abbandonano a quella che sembra una morte lenta, cercando altrove un più ampio respiro, una cultura più ricca, un ventaglio più esteso di possibilità. Ma le due prospettive incrociate consentono forse di intravedere l'inizio di un cambiamento: mentre il resto del Paese, inconsapevolmente, resta fermo - nel suo paternalismo, nella gerontocrazia delle sue istituzioni, nel nepotismo stantio che permea la sua vita pubblica - l'emigrazione cosciente e l'immigrazione extraeuropea, fonte di rinnovamento, potrebbero col tempo scardinare i meccanismi mal funzionanti.

Il Paese potrà tornare forse in tal modo a farsi patria: accogliente, viva, aperta; perché non si dà cultura senza culture. Nella sua accezione non reazionaria, la patria è il luogo che conserva, tramanda e mantiene vivo il sostrato comune dei popoli: è un particolare, insostituibile, tipo di nutrimento per gli uomini. Legata alla memoria, la patria, come la cultura, vive grazie all'incontro e allo scambio: agli apporti venuti dall'esterno; perisce invece sotto i colpi dell'esclusione e dell'omologazione.

Parlando del suo libro Le città invisibili, Italo Calvino lo designava come "un ultimo poema d'amore alle città".3 A quella concezione della città che va scomparendo, alle città intese appunto come patrie: luoghi del desiderio e della memoria. Il terzo degli appuntamenti della "Settimana della lingua italiana" di Barcellona, la lettura-performance, da parte di Michela Caruso, di brani tratti dal regesto delle città calviniane, chiude così il cerchio della riflessione. Che le parole di Marco Polo - che trova, cerca, perde e arricchisce la sua città nel racconto di ogni città - siano un augurio per il fiorire di nuove patrie, capaci di accogliere chiunque vi cerchi rifugio, vive nelle nuove modalità dell'incontro che la contemporaneità propone come sfida.


Note

(1) C. Cucchiarato, Vivo altrove. Giovani e senza radici: gli emigranti italiani di oggi, Milano, Bruno Mondadori, 2010.

(2) Z. Bauman, L'etica in un mondo di consumatori, Roma-Bari, Laterza, 2010.

(3) I. Calvino, Le città invisibili, Milano, Mondadori, 1993, p. IX.

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