Rivista "IBC" XXVII, 2019, 3

biblioteche e archivi / pubblicazioni

“Teatro di Marte. Il cimitero militare germanico del Passo della Futa”, a cura di Elena Pirazzoli, Firenzuola (Firenze), archiviozeta editrice, 2019.
Sul luogo del nemico

Vittorio Ferorelli
[IBC]

È dal 2003 che, nelle serate di agosto, prima del tramonto, poco lontano dal confine tosco-emiliano, tra le tombe di più di trentamila soldati tedeschi morti sulla Linea Gotica vanno in scena le rappresentazioni di Archivio Zeta. Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, i fondatori della compagnia, hanno scelto questo luogo così remoto, e così perturbante, per far risuonare nel vento le domande cruciali dell’umanità, quelle poste nei secoli da Eschilo, Sofocle, Omero e Shakespeare, fino alle voci più profonde del nostro tempo: l’estate appena trascorsa è stata dedicata ai dilemmi di Fëdor Dostoevskij. Quest’anno, creando un marchio editoriale in proprio, Archivio Zeta ha pubblicato un libro che, per la prima volta in Italia e non solo, indaga la storia del Soldatenfriedhof Futa Pass, il cimitero militare germanico più grande tra quelli costruiti nel nostro paese.

Il volume, intitolato Teatro di Marte e affidato alle mani esperte della storica Elena Pirazzoli, prende le mosse dal ciclo di incontri “Dialoghi in quota”, che nell’estate del 2018 ‒ coinvolgendo storici dell’arte e dell’architettura, storici della Seconda guerra mondiale, dell’occupazione tedesca in Italia, della guerra antipartigiana e della guerra ai civili, ma anche esperti di cultura tedesca e di politiche della memoria ‒ ha ricostruito il contesto storico e culturale in cui il cimitero è stato progettato, si è chiesto chi fossero i soldati qui sepolti e ha posto una domanda di fondo ai visitatori di oggi: che senso può avere addentrarsi in questo luogo?

Commissionato nel 1959 all’architetto Dieter Oesterlen dal Volksbund Deutsche Kriegsgräberfürsorge (VDK), l’Ente popolare tedesco per la cura delle tombe di guerra, il sacrario della Futa si distingue nettamente dai precedenti realizzati in Italia tra i due conflitti mondiali. Dopo la catastrofe nazifascista, infatti, conveniva senza dubbio abbandonare ogni monumentalità eroica e ispirarsi a valori diversi, come quelli sintetizzati dalla parola tedesca Bescheidenheit: modestia, riservatezza, moderazione. Nessuna fortezza imponente, quindi, ma un intervento integrato nel paesaggio. Il muretto in pietra che sale lentamente dal cancello di ingresso fino alla sommità del colle ne asseconda il profilo e si avvolge su di sé creando una spirale che, curva dopo curva, si affaccia sui terrazzamenti erbosi in cui galleggiano le lapidi: piatte, relativamente piccole, inserite quasi rasoterra, portano incisi i nomi dei soldati, il loro grado, la data di nascita e di morte. Si tratta in larga maggioranza di giovani, dai 16 ai 30 anni, per lo più fanti e ufficiali di basso grado, tra cui alcune centinaia dei famigerati reparti di combattimento SS.

L’unico punto in cui il costruito spicca sul paesaggio è la vetta, dove il muro si innalza fino a prendere la forma di una lama appuntita verso il cielo. Una forma che, mentre si ascende, sembra mutare ogni volta che cambia il punto di vista: all’inizio è un pilastro sottile, poi diventa una vela, poi una torre spezzata, come a suggerire quella cautela rispetto ai miraggi e alle imposture dei potenti di turno che, dopo la tragedia della guerra voluta dal nazifascismo, è divenuta una necessità vitale.

I lavori di costruzione, in cui Oesterlen si avvalse del paesaggista Walter Rossow e del botanico Helmut Bournot, furono molto rallentati dal terreno roccioso, dalle infiltrazioni d’acqua e dall’abbondanza di ordigni bellici inesplosi. L’inaugurazione ufficiale, il 28 giugno 1969, venne accompagnata dalle proteste degli abitanti dei dintorni, che contestavano la scelta di un sito così vicino alle valli insanguinate dalla violenza tedesca. Ma al dissenso subentrò quasi subito il silenzio che ha mantenuto a lungo sconosciuto questo luogo, nonostante la sua elevata qualità architettonica. Un silenzio interrotto proprio dal progetto teatrale di Archivio Zeta, che nelle pagine del libro viene ripercorso dalle parole dei due fondatori e dalle immagini del fotografo Franco Guardascione.

La scelta di utilizzare come scena senza palcoscenico il “luogo ultimo del nemico” (come Pirazzoli propone di definirlo) nasce dall’esigenza profondamente politica di ogni autentico teatro civile: raccontare le contraddizioni dell’agire umano là dove queste contraddizioni sono più “radioattive”, invitando lo spettatore a uscire dall’illusione pericolosa di vivere nel migliore dei mondi possibili. E se il teatro tragico è di per sé il luogo del disagio creato ad arte, il Soldatenfriedhof Futa Pass può essere pensato come un teatro al quadrato, dove le fratture esposte dalle tragedie immaginarie sono potenziate dalla frattura costitutiva del luogo, che obbliga a convivere due istanze contrapposte, entrambe legittime: quella di mantenere viva la memoria dei morti da parte dei loro familiari, quella di tramandare la memoria di una tragedia reale, in cui quei morti hanno avuto il ruolo dei colpevoli.

Volume:
Teatro di Marte. Il cimitero militare germanico del Passo della Futa, a cura di Elena Pirazzoli, scritti di Luca Baldissara, Giacomo Calandra di Roccolino, Carlo Gentile, Gianluca Guidotti, Sofia Nannini, Enrica Sangiovanni, Birgit Urmson, foto di Franco Guardascione, Firenzuola (Firenze), archiviozeta editrice, 2019.

 

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