Rivista "IBC" XXVII, 2019, 3

musei e beni culturali / mostre e rassegne

Alessandro Guardassoni in mostra a Bologna.
L’"ultimo fuocherello carraccesco"

Mark Gregory D’Apuzzo
[Conservatore del Museo Davia Bargellini Istituzione Bologna Musei ]

Non è ovviamente sfuggita all’occhio di Roberto Longhi la qualità della pittura di Alessandro Guardassoni, che “in pieno Ottocento” ha grande fama a Bologna e nel territorio della diocesi come artefice di soggetti diversi e soprattutto di dipinti d’altare e cicli per le chiese. In Guardassoni brilla ancora “l’ultimo fuocherello carraccesco”, scrive Longhi (1935): il breve commento significativamente riconduce le scelte del pittore entro la tradizione bolognese, connettendole alla lezione dei Carracci, grandi innovatori a Bologna nell’età di Controriforma per l’attenzione verso il dato naturale, la ricerca di adesione al vero, l’intenzione di raccontare la storia animandola di sentimenti domestici e familiari.
Al tempo dei Carracci era stato il contesto culturale, legato alla riforma religiosa e morale del vescovo Gabriele Paleotti, e alle indagini scientifiche condotte dal naturalista Ulisse Aldrovandi, ad alimentare la loro sperimentazione; ora, nella Bologna di metà Ottocento, sono ancora i mutamenti politici dovuti al passaggio della città dal governo dello Stato Pontificio a quello del Regno d’Italia, insieme alle novità nell’osservazione della realtà, fondate sulla messa a punto delle moderne tecniche fotografiche, a sollecitare negli artisti l’adozione di più efficaci strumenti espressivi.
Così almeno accade per Guardassoni, che resta fedele al partito cattolico anche nell’era postunitaria, quando nell’ambiente artistico andavano facendosi strada, con Telemaco Signorini e i macchiaioli in capo, idee progressiste, sull’abolizione delle accademie e sul favore per i soggetti in presa diretta dalla realtà, che ne mettessero a nudo le contraddizioni e le ingiustizie sociali.

Entro una così complessa temperie, Guardassoni mantiene invece intatta la propria dedizione ai temi sacri e di edificazione religiosa, partecipando a Roma alla Mostra d’Arte Cristiana e del Culto Cattolico, voluta nel 1870 da papa Pio IX, forse addirittura in opposizione al I Congresso degli artisti italiani organizzato nello stesso anno a Parma, dove i “progressisti” con la loro morale laica sembrano trionfare, riscuotendo maggior consenso presso i mecenati (Claudio Poppi).
Per Guardassoni invece essere uomo del suo tempo significava non rinnegare il proprio sentimento di fede, ed insieme aprirsi all’applicazione all’arte della pittura delle tecniche fotografiche, per rendere ancora più realistiche le scene dipinte. Un’“avanguardia impossibile”, per parafrasare una felice definizione di Claudio Poppi, in cui Guardassoni aveva invece creduto: lo dimostra il bellissimo Autoritratto (Bologna, Fondazione Gualandi), in cui il pittore appare nel proprio studio, fra il cavalletto e la macchina fotografica. Un’esplicita dichiarazione di poetica, che pone l’accento sull’obbligo di riprodurre il “vero”, affidandosi però ad una pittura molto affinata attraverso l’assiduo esercizio accademico, di cui fa testo ancora l’ingente corpus grafico di Guardassoni, oggetto già di molteplici studi da parte di Alessandro Zacchi. Contro la parete inondata dalla luce che entra dalla finestra, si isola la figura dell’artista, in abiti austeri, costruiti su intensi contrasti chiaroscurali, mentre le campiture “larghe e compatte” di colore si associano ad “abbreviazioni geometrizzanti” (Zacchi) per ottenere un effetto sintetico, ma realistico.
Questa la modernità secondo Guardassoni, che molti anni più tardi, nel 1880, ricorderà il 1859, cui risale all’incirca l’ Autoritratto, come il momento in cui “gli balenò alla mente se tra le meraviglie della stereoscopia e la pittura fosse possibile una qualche affinità”.

Un personaggio dunque sicuramente molto interessante per l’ambiente culturale e artistico bolognese: a Guardassoni è infatti dedicata una mostra attualmente in corso presso le Collezioni Comunali d’Arte e la Fondazione Gualandi, curata da Silvia Battistini e Claudia Collina. Una mostra che ha il merito di ripercorrere l’attività del pittore, approfondendone e mettendone maggiormente a fuoco il complesso percorso espressivo: i rapporti con la coeva cultura figurativa europea, maturati grazie ai viaggi compiuti in Francia e Inghilterra fra il 1849 e il 1850 (Claudia Collina); il personale confronto con i modelli accademici, con i maestri emiliani e non solo, l’inedita sperimentazione sulla stereoscopia nell’“ossessione del vero” (Silvia Battistini); il processo di elaborazione delle idee fra grafica e pittura (Valentina Volta).
La ricostruzione della sua identità si è potuta valere di un capillare lavoro di catalogazione, finanziato dall’IBC (Patrizia Tamassia), condotto sulle opere dell’eredità donata dal pittore all’amico don Giuseppe Gualandi, divenuta in questo modo parte del patrimonio dell’omonimo Istituto, fondato per assistere e educare i sordomuti.
La stretta relazione fra Guardassoni e la famiglia Gualandi è anzi un ulteriore aspetto di novità della mostra. Indagata approfonditamente in questa occasione (Lorenzo Campioni, Chiara Sanfelici), fa ben comprendere quale comunione d’intenti e condivisione di valori in ordine a questioni non solo religiose, ma anche morali e sociali, li legasse: come nell’attività del pittore, così in quella dell’Istituto voluto dai Gualandi era centrale l’impegno di educare. Se l’accesso alla “parola” attraverso l’apprendimento di metodiche d’avanguardia, come il metodo mimico gestuale, concedeva finalmente agli sventurati fanciulli sordomuti di “aprire il raggio del pensiero” e di inserirsi nella realtà del mondo, così la tecnica messa a punto dal pittore, mutuata dagli studi sulla visione stereoscopica, mirava a favorire un processo di coinvolgimento e d’immedesimazione dello spettatore, utile a una comprensione partecipe del contenuto della “storia”. Consapevolmente nella cerchia Gualandi/Guardassoni ci si interrogava sulle forme di una retorica “muta”. E con sapienza Guardassoni si confrontava con la grande tradizione figurativa bolognese, attingendo alla cultura carraccesca, così imbevuta di precetti enunciati nella trattatistica paleottiana.
Da lì in effetti sembra tratta la via dei sentimenti, necessari a commuovere, come nelle scene in cui sono trasposti episodi manzoniani, molto vicini alla sensibilità del nostro pittore ( Il Cardinale Federico Borromeo con l’Innominato; Lucia inginocchiata a chiedergli grazia, Bologna, Fondazione Gualandi); da lì ancora sembra derivata la ricerca di un racconto costruito su azioni di facile e chiara comprensione, come nei numerosi dipinti di destinazione sacra, presenti nel territorio della diocesi, raccolti nella checklist contenuta negli apparati del catalogo (Federica Trombacco) e nella mappatura integrata a disposizione dei visitatori della mostra, per possibili itinerari in situ.
Storie narrate con toni commuoventi e attenzione per il verisimile, come nel Gesù Cristo buon pastore (1861) della chiesa della Santissima Trinità a Bologna, che nella luce bianca e nell’aria un po’ aspra del mattino riporta finalmente a casa sulle spalle la pecorella smarrita, rimasta a vagare sola per un’intera notte. Un’iconografia antica, protocristiana; una resa quasi già cinematografica, nel passo lento e nobile di Cristo, che incede contro il primo chiarore del cielo.

Tradizione e avanguardia insieme.

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