Rivista "IBC" XXVII, 2019, 3

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Recensione a "La cucina degli scrittori. Letteratura e cibo in Emilia-Romagna", a cura di Alberto Calciolari e Isabella Fabbri, Regione Emilia-Romagna, IBC, Bologna 2019.
Il gusto degli scrittori

Gian Luca Tusini
[Docente, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna]

Molti sono i registri sui quali si può intavolare ― e il verbo è evidentemente pour cause ― un discorso sulle arti della cucina, specialmente nell’attuale profluvio massmediatico di programmi gastronomicamente orientati che si presterebbero a raffinate analisi semiologiche. Non c’è orario del palinsesto (anzi, c’è pure un canale dedicato) che non offra una pluralità di modelli narrativi in tema, spesso d’importazione ma anche autoctoni, che vanno dal semplice tutorial su come preparare qualche manicaretto, ad agonistiche gare ammazzacristiani tra chef in erba. Ma ciò non basta poiché assistiamo pure a vere proprie fictions sul genere del giallo/ spy story ( Spie al ristorante), oppure a un inedito “pantagruelic-on the road” ( Camionisti in trattoria), o ancora, per tacer d’altro, al succedaneo del romanzo d’appendice ottocentesco, ove l’eroe romantico mandato dalla Provvidenza ― per esempio Antonino Cannavacciuolo, burbera gastrostar dal cuore immacolato ― salva dalla rovina incombente ristoratori incapaci ( Cucine da incubo).
Per dimenticare questi baccanali da Basso impero e recuperare un rapporto più dignitoso e meditato con la gastronomia ecco giunto in soccorso il bel volume intitolato La cucina degli scrittori. Letteratura e cibo in Emilia-Romagna a cura di Alberto Calciolari e Isabella Fabbri, edito dall’IBC Emilia-Romagna, riccamente illustrato e in raffinata veste tipografica.

Quattordici studiosi firmano altrettanti brevi capitoli ricchissimi di notizie biobibliografiche, che si soffermano su eminenti uomini di lettere che hanno avuto i natali nella nostra regione o vi hanno soggiornato, in un campionario che corre, in ordine cronologico ed alfabetico da Ludovico Ariosto a Cesare Zavattini. Di taluni si coglie un rapporto elementare, quando non episodico, con il cibo mentre altri riservano dedicata attenzione alle prelibatezze che hanno segnato i momenti pubblici o privatissimi della loro vita. Ma perché le fragranze evocate non rimangano parole sfuggenti ecco, a corredo di ciascun cameo, qualche ricetta dei piatti preferiti dai nostri scrittori, per restituire quello che le parole non possono dare: ricette, talune semplici altre meno, talune aggiornate, riviste e corrette, altre decisamente desuete e talvolta date in forma originale e dunque ancor più intriganti per chi voglia cimentarvisi. Ne vien fuori, insomma, un prezioso condensato di narrazioni e di aromi, sotto gli auspici misteriosi del più puro genius loci dell’Emilia e della Romagna.
Per ovvi motivi di spazio, ma anche per non mortificare in questa recensione le ricchezze del volume, ci limiteremo a qualche citazione scelta. Se l’Ariosto viene evocato per i raffinati banchetti estensi (orchestrati dal celebre Messisbugo) frequentati per la sua posizione di cortigiano e funzionario non vanno dimenticate le più popolari dolci brazzatelle e le salsicce cui lo zafferano conferiva a quei tempi un colore giallo carico. In antifrasi ecco la picaresca figura di Giulio Cesare Croce e la celebrazione dei gustosi “sughi”, dolce povero ma nutriente ancora in voga nelle nostre campagne ma a rischio d’estinzione, di cui si dà un vademecum in rima. Altrettanto popolari le frittelle ― di cui si dà l’antica ricetta, anzi, il Modus frittellizzandi ― per le quali Ludovico Antonio Muratori immagina eruditamente una origine mitologica, addirittura prometeica. La penna del dotto bibliotecario di Sua Altezza Serenissima poi si compiace pure di classicheggianti epitaffi per una lepre impiattata o per i tordi stufati, rassegnati o addirittura contenti della loro sorte, a vantaggio dell’altrui golosità.

Se non può mancare l’elogio del suino nella Modena dei Lumi, con Tigrinto Bistonio (al secolo Giuseppe Ferrari) e relativa ricetta, ormai dimenticata, a base di sangue di maiale, altre interessanti letture riguardano naturalmente Pellegrino Artusi, la cui scienza culinaria fece l’Italia unita non meno dei Promessi Sposi, come notava Piero Camporesi, e soprattutto il suo discepolo Olindo Guerrini, nel cui cameo viene giustamente rilevata la sua propensione alla “cucina degli avanzi”: ai tempi suoi, ça va sans dire, per far di parsimonia virtù, ma oggi ancor più attuale per i ben noti motivi etici legati alla sovrapproduzione e all’iperconsumo. Ecco dunque le ricette del Lesso rifatto all’inglese e la salsa fatta con le bucce (anzi, all’antica: buccie) di piselli.
Le rimpariate del Carducci nella Maremma della sua gioventù sono onorate da tavole principesche ove troneggiavano “tre piramidi di cento [tordi] l’uno; grassi come priori; col collo ritorto e il becco affondato nella forcella dello stomaco, le coscette incrociate, e la salvia sotto le ali”. Ma sono, forse, i versi accorati del Pascoli sul cibo più tradizionale di Romagna (ancora non si parlava di “eccellenze”) cioè la piada, a conferire una sacrale dignità a quel pane tondo e giallo, luminoso come la luna, sapientemente impastato dalla sorella Maria (“con le tue mani blande / domi la pasta e poi l’allarghi e spiani”) ove le bruciature della cottura sul testo sembrano ricordare gli avvallamenti e le montagne del nostro satellite, quei “segni bui” su cui Dante trasumanato interrogava la sua Beatrice.
E proprio la piada non poteva non suggerire al Pascoli latinista qualche dotta considerazione linguistica ed etimologica, buttata lì con consumata facilità tra audaci sperimentazioni culinarie transregionali, quali la mozzarella calabrese sfrigolante sulla stessa piada rovente.
Venendo al Novecento concludiamo queste note, pur tralasciando a malincuore molto altro, con Marino Moretti nelle cui parole quella piada lunare e sacrale diventa una “grande ostia laica”. Sono però le tagliatelle ad essere magistralmente celebrate dallo scrittore di Cesenatico che ne narra l’accorta preparazione, ricordando un episodio della seconda guerra mondiale, quando i militari alleati d’oltreoceano, spaesati ed ignari di tali leccornie, si stupivano nel vedere nascere da elementi primordiali quali acqua, uova e farina, incessantemente impastati e manipolati, la sfoglia, “una grande luna come di stoffa”, da cui sortivano fatalmente, come in una golosa cosmogonia, “le lunghe interminabili fettucce che ricadevano un po’ molli, molto scherzosamente ingarbugliandosi: le tagliatelle, viva, al taiadèli!”.

 

Volume:

La cucina degli scrittori. Letteratura e cibo in Emilia-Romagna, a cura di Alberto Calciolari e Isabella Fabbri, Regione Emilia-Romagna, Istituto per i beni artistici, culturali e naturali, Bologna 2019.

 

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