Rivista "IBC" XXVII, 2019, 2

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / storie e personaggi

Si è svolto a Villa Smeraldi il convegno sui musei demoetnoantropologici dedicato alla memoria di Carlo Poni, uno dei fondatori del Museo della Civiltà Contadina di S. Marino di Bentivoglio. Note introduttive per un dibattito.
Carlo Poni tra storiografia e museografia

Silvio Fronzoni
[Già direttore dell'Istituzione Villa Smeraldi – Museo della civiltà contadina, S. Marino di Bentivoglio]

L'ultima volta che Carlo Poni è tornato a Villa Smeraldi è stato una decina di anni fa, all'indomani della presentazione del suo libro La seta in Italia.
Stava male ormai da diverso tempo ed è difficile dire se, percorrendo in silenzio gli spazi e visitando le sezioni della esposizione permanente del museo inaugurata poco tempo prima, si sia riconosciuto in essa e l'abbia trovata rispondente alle finalità e ai propositi da lui espressi nello scritto che rimane il manifesto di questa istituzione. (1)
Ci ha lasciato ormai da un anno e in questo arco di tempo, ma in realtà ancor prima, al suo lavoro storiografico sono stati dedicati primi contributi. Penso a quello di Franco Cazzola, Dall'aratro al filo di seta: Carlo Poni pubblicato nel 2015 in Una scienza bolognese? Figure e percorsi nella storiografia della scienza; e a quello di Fabio Giusberti e Alberto Guenzi, Carlo Poni, un maestro, pubblicato nel novembre dello scorso anno nella rivista dell'Istituto Beni Culturali. E altri contributi troveranno posto nel seminario The Worlds of Work: The Intellectual Contribution of Carlo Poni che si svolgerà presso il Dipartimento di scienze economiche.
Ha certamente senso, quindi, che il tema della conversazione che gli dedica il primo dei musei dei quali egli, in ordine di tempo, ha promosso la nascita e reso possibile lo sviluppo, sia quello dei rapporti tra storiografia e museografia. Una museografia – mette conto segnalarlo subito – che, nel suo caso, non è stata solo quella dei beni demoetnoantropologici, alla quale è specificamente dedicata la sessione pomeridiana della giornata di lavori odierna, ma anche quella del patrimonio industriale alla quale fa riferimento l'esperienza dell'altro museo bolognese la cui vicenda è legata alla figura e all'opera di Carlo Poni. E anche rispetto al solo museo di S. Marino di Bentivoglio viene forse da chiedersi se una sua catalogazione come museo demoetnoantropologico priva di ogni riferimento alla storia avrebbe pienamente convinto Poni.
Ma cosa si può dire in generale del rapporto tra storiografia e museografia nel suo percorso intellettuale? Senz'altro che – diversamente da Paul Scheuermeier, il ricercatore unico dell'Atlante linguistico ed etnografico dell'Italia e della Svizzera meridionale che, a conclusione di quindici anni di indagini in giro per tutta l'Italia, riconobbe di essere partito “dialettologo” e di essere ritornato “etnografo” – il suo profilo non è sostanzialmente cambiato nel corso del tempo. Egli non ha certamente concluso da museografo la stagione della vita che lo ha visto più impegnato sul fronte museale. Era ed è sempre rimasto innanzitutto uno studioso di storia dell'agricoltura, dell'industria, dell'economia e della società. E la sua figura non può essere compresa tra quelle dei fondatori – talvolta anche eponimi – e dei protagonisti individuali della esperienza di numerosi musei etnografici e della vita contadina, coevi in molti casi del museo di S. Marino di Bentivoglio. (2)
E tuttavia non c'è dubbio che una parte, una stagione importante della sua vita sia stata dedicata - con slancio, generosità, disinteresse - proprio alla progettazione, all'impianto ma anche alla partecipazione alle fasi iniziali della gestione di nuovi istituti museali bolognesi. Così come non vi sono dubbi sulla sua precedente conoscenza e frequentazione non casuale di importanti musei europei quali il Museo della vita rurale inglese di Reading, il Museo ungherese di agricoltura di Budapest e il Museo delle arti e tradizioni popolari di Parigi, nonché sui suoi rapporti con alcuni dei loro responsabili come Ted Collins e Ivan Balassa.

La stagione di cui parlo e della quale non saprei fissare con certezza la conclusione, comincia comunque nei primi mesi del 1973, con il coinvolgimento in prima persona di Poni nell'impresa avviata dai contadini e dagli ex-contadini del Gruppo della Stadura, fondato qualche anno prima da Ivano Trigari e al quale davano voce e gambe assieme a lui uomini come Aderito Corazza, Olindo Maiani e Dino Tampellini, i cui nomi e il cui contributo meritano certamente di essere qui ricordati.
Interpellato da Aldo d'Alfonso, l'assessore alla cultura della Provincia di Bologna che aveva sostenuto le prime campagne di rilevamento dei beni culturali da lui promosse, è Andrea Emiliani – recentemente scomparso e autore in quegli anni del progetto dell'Istituto Beni Culturali – a fare alla Provincia il nome di Poni e a indicarlo come la persona capace di interagire con il Gruppo della Stadura, di dare impulso al processo di costituzione del museo e di ordinare in esposizione il patrimonio documentario raccolto. Così nell'estate del 1973 vede la luce a Villa Smeraldi la mostra Materiali per un museo e, nel gennaio del 1975 – in coincidenza con il Convegno nazionale di museografia agricola promosso dall'Istituto nazionale per la storia dell'agricoltura – l'esposizione Organizzazione del lavoro e sistema agrario curata da Poni con l'aiuto di un primo nucleo di allievi e allestita dal professore Giancarlo Monari. Nel 1978, poi, apre i battenti nella Sala Borsa la mostra Macchine, scuola, industria. Dal mestiere alla professionalità operaia, che vede Poni coordinatore delle ricerche di un secondo nucleo di collaboratori e allievi e che costituisce il punto di partenza del processo che porterà alla nascita del Museo del Patrimonio Industriale.

Ma cosa spinge uno studioso di storia economica, in cattedra dal 1971, a dedicare tempo ed energie all'allestimento di mostre e all'impianto di musei della cultura materiale? Parlare a questo proposito di passione civile per la divulgazione della ricerca è certamente fondato, ma penso ci sia qualcosa in più. Da un lato un lascito ideale, forse, del suo maestro, Luigi Dal Pane, che non a caso nel 1969 in una pagina di Economia e società a Bologna nell'età del Risorgimento avevascritto: “Lamentiamo che nelle raccolte dei musei sia assolutamente scarso e spesso mancante il materiale riguardante il lavoro e la tecnica, che gli oggetti e i prodotti delle attività umane siano considerati solo dal punto di vista artistico e non dal punto di vista dei processi e dei modi di produzione delle fabbriche e delle botteghe da cui ebbero vita”. (3)
Ma a spingere Poni ad impegnarsi anche sul terreno della museografia, a partire da quella del lavoro contadino, c'era anche altro. È sufficiente per rendersene conto sfogliare quello che può essere considerato il suo primo contributo di storia dell'agricoltura e del movimento contadino. Penso all'articolo, firmato assieme a Renato Grillandi e pubblicato nel 1954 sulla rivista dell'Unione delle Province emiliane e romagnole, “Emilia”, (4) che prende le mosse e le distanze da un opuscolo di Piero D'Attorre – il padre di Pier Paolo, il valente studioso e sindaco di Ravenna prematuramente scomparso – dedicato alla questione delle macchine trebbiatrici nel Ravennate agli inizi del Novecento. (5)
Che cosa rimproveravano in sostanza a D'Attorre gli autori dell'articolo? “La mancanza di un esame delle strutture”; l'insufficienza delle fonti; il non aver colto il nesso tra la questione delle trebbiatrici e quella dello “scambio delle opere”; un “risultato della ricerca” che non usciva “dall'ambito della cronaca e della polemica”. Ma quel che importa ricordare qui sono le immagini che corredavano l'articolo: la riproduzione di una miniatura del XIV secolo, attribuita a Tommaso da Modena e conservata nella Biblioteca comunale di Forlì, che ritrae la battitura del grano con il correggiato; quella di un dipinto della raccolta Carlo Piancastelli della stessa biblioteca che rappresenta la battitura coi cavalli; la fotografia di una trebbiatrice novecentesca in azione. Tre immagini che, anche se richiamano l'attenzione del lettore sulla tipologia e sull'evoluzione degli strumenti e delle tecniche della battitura dei cereali nelle campagne nell'arco di sette-otto secoli, nel quadro di dieci fitte colonne di testo possono sembrare un piccolo inciso, se non un dettaglio insignificante.
Penso, invece, che esse rappresentino una prima spia del naturale e specifico interesse di Poni per la ricerca e la lettura dei documenti figurativi di storia delle campagne e per un loro impiego non esornativo, ma legato a quello di tutte le altre fonti, nell'ambito della ricostruzione e dell'interpretazione storiografica.
Di questo interesse sono documento nei primi anni '60 i risultati della “ostinata” ricerca iconografica che corredano il suo libro sugli aratri.(6) Qui trovano posto, tra numerose altre: le riproduzioni di due incisioni di Giuseppe Maria Mitelli che ritraggono altrettanti piò; un particolare degli affreschi di Palazzo Schifanoia che raffigura un varsur; la foto di un vecchio aratro scattata di persona in un podere del suburbio di Bologna. E a commento di quest'ultima e dell'aratro raffigurato Poni osservava: “Ancor oggi non è infrequente vederlo in opera nelle campagne della pianura e della collina, soprattutto nei poderi in cui la trazione a motore non ha sostituito quella animale. Ma anche laddove è stato abbandonato non è raro trovarlo nelle tegge come un oggetto da poco in disuso e col quale hanno lavorato i componenti più anziani della famiglia colonica”. (7)
È a partire, direi, da questi inizi e primi sviluppi – uno dei quali quasi un presagio dell'incontro con il Gruppo della Stadura – che si avvia nei primi anni '70 la lunga stagione del suo impegno museografico. Una stagione, un impegno che si collocano, mi pare di poter dire, su una linea di forte continuità con un lavoro storiografico nel quale l'interesse per le testimonianze materiali e le fonti iconografiche occupavano da tempo un posto importante e con il quale cominciano ora a interagire attivamente, orientandolo nella direzione della ricerca, della produzione e dell'utilizzo di nuove fonti, immateriali e materiali.

Proprio su questo terreno trovano posto, penso, alcuni degli esiti più originali e significativi dell'esperienza dei musei che di quell'impegno recano l'impronta: da un lato, la ricostruzione e la sperimentazione – ad opera del Museo di San Marino di Bentivoglio e a cura di Francesco Fabbri – di un esemplare della macchina seminatrice progettata a metà Settecento dal bolognese Giacomo Biancani Tazzi; dall'altro, la realizzazione per iniziativa del Museo del Patrimonio Industriale diretto da Roberto Curti, di un modello funzionante di mulino da seta alla bolognese. L'una e l'altra frutto delle ricerche di Carlo Poni e della sua visione dei musei della cultura materiale non solo come mezzo di comunicazione e strumento didattico, ma anche come laboratorio e sede privilegiata di reali esperienze di archeologia rurale e industriale sperimentale.

 

Convegno:

Musei DEA: pratiche e metodologie. Giornata di studi dedicata alla memoria di Carlo Poni
22 giugno 2019
Villa Smeraldi - Museo della Civiltà Contadina, S. Marino di Bentivoglio

NOTE

(1) C. Poni, Per un archivio popolare: il museo di San Marino di Bentivoglio, “Quaderni storici”, 31, 1976, pp. 310-320.

(2) G. Kezich, Tracce e notizie dell'agricoltura tradizionale, dopo il diluvio, in Formare alle professioni. I saperi della cascina, a cura di M. Ferrari, G. Fumi, M. Morandi, Milano, Franco Angeli, 2016, pp. 214-224: 220.

(3) L. Dal Pane, Economia e società a Bologna nell'età del Risorgimento: introduzione alla ricerca, Bologna, Zanichelli, 1969, p. 208.

(4) C. Poni, R. Grillandi, I contrasti sociali nelle campagne e la “questione delle trebbiatrici”, “Emilia”, III, 1954, 24, pp. 43-47.

(5) P. D'Attorre, 1910: la questione delle macchine trebbiatrici e la scissione operaia nel ravennate, Ravenna, Tip. Ravegnana, 1953.

(6) C. Poni, Gli aratri e l'economia agraria nel bolognese dal XVII al XIX secolo,

Bologna, Zanichelli, 1963.

(7) Ibidem, p. 144.

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