Rivista "IBC" XXVI, 2018, 3
Dossier: La città in prima visione. Nasce I-Media-Cities, il portale che raccoglie i patrimoni delle cineteche europee
media, progetti e realizzazioni
Il documentario Bologna monumentale del 1912 presenta due inquadrature brevissime, una decina di secondi ciascuna, che testimoniano una realtà cittadina sconosciuta alla maggior parte degli abitanti e soprattutto dei visitatori, che è la “metà nascosta” ( 1) di Bologna, un tempo, insospettabilmente, “città d’acqua”. Nella prima scena appaiono dei panni stesi sulla balaustra di un ponte di legno che collega i caseggiati prospicienti il canale. Un uomo sta percorrendo il tratto terminale del ponte, mentre su un camminamento in legno lungo il canale si incrociano due donne con il grembiule. Sullo sfondo sono presenti altri due ponti e più lontano si intravede una ruota idraulica che compare più ravvicinata durante la seconda sequenza. Appare una lavandaia che immerge i panni nell’acqua corrente per sciacquarli e poi li batte sull’asse di legno. Accanto a lei, una seconda lavandaia trasporta un mastello. Sembra che il canale in quel punto abbia un invaso adibito a lavanderia e che si tratti della tipologia di lavatoio a trincea costituito da una sola barriera scavata lungo la sponda del canale che permetteva alle lavandaie di lavorare stando all’asciutto. ( 2) Riconosciamo nelle due scene via Capo di Lucca, bagnata dal tratto del canale di Reno denominato canale delle Moline. ( 3)
La ruota idraulica è quella che era situata sul retro dell’edificio di via Capo di Lucca n. 12, e “trasmetteva l'energia idraulica a una ‘gualchiera’ per panni a due tini e ai meccanismi per la filatura della lana”. ( 4) Questo manufatto idraulico è l’unico sopravvissuto tra le tante ruote presenti nell’antica Bologna ed alcuni decenni orsono venne collocato presso il Museo della Civiltà Contadina di S. Marino di Bentivoglio; l’Istituto regionale per i beni culturali nel 2007 affidò al restauratore Pietro Barnabé il compito di ripristinarne la morfologia originaria, presentando l’oggetto restaurato alla fiera internazionale del restauro di Ferrara poi tornò alla sede di provenienza, non essendo stato possibile per vari motivi reinserirla nel contesto originale. Una ruota idraulica, esatta copia dell’originale, si è però potuta rimettere in funzione a scopo documentale e didattico, ovvero quella dell’ex opificio di via della Grada, che fu un tempo pellacaneria, cioè conceria, manufatto costruito nel 1681. L’edificio ora ospita la sede dei Consorzi di Reno e Savena in Bologna, organismi che svolgono sia funzione di mantenimento e di controllo del reticolo idraulico artificiale e che quella di centri di documentazione e didattica sulle acque urbane.
L’IBC curò anche il riordino dell’archivio storico del Consorzio, e soprattutto promosse una serie di studi che culminarono in una esposizione multimediale dal titolo Bologna e l’invenzione delle acque. Saperi arte e produzione tra ‘500 e ‘800, organizzata nell’ambito delle manifestazioni di Bologna 2000, Città Europea della Cultura.
La mostra fu l’occasione per esporre la cartografia storica, i catasti, le fotografie e la riproduzione di opere e documenti d’archivio legati al tema delle acque e offrì al pubblico un efficace filmato dove immagini dell’attualità si alternano a ricostruzioni virtuali, ripercorrendo lo stretto legame tra Bologna e le acque.
La storia di Bologna “città d’acqua” è molto antica e copre svariati secoli. L’unico corso d’acqua naturale che bagnava la ‘Felsina’ etrusca e poi la ‘Bononia’ romana era il torrente Aposa che scendeva dalla valle di Roncrio e si divideva in due rami, uno occidentale in corrispondenza delle attuali via Tagliapietre, via Val d’Aposa, via Galliera, e via Avesella; l’altro orientale, al di sotto delle attuali vie Rubbiani, S. Domenico, piazza Minghetti, via Rizzoli, via dell’Inferno, piazza S. Martino. In età augustea, con la crescita demografica della città, fu costruito il primo acquedotto che, mediante una presa d’acqua dal Setta, raggiungeva la città con un cunicolo sotterraneo sull’asse dell’odierna via D’Azeglio.
L’antico acquedotto romano, caduto in disuso, venne scoperto nelle parti prossime alla città nel tardo medioevo, ma solo nel Cinquecento venne attivato un continuo rifornimento d’acqua potabile mediante due conserve, quella del Remondato che raccoglieva le acque dal colle di San Michele in Bosco, e quella di Valverde (conosciuta anche come Bagni di Mario), che captava dal colle dell’Osservanza; entrambe riunivano il loro apporto nei pressi della chiesa dell’Annunziata che veniva poi condotto alle fontane di piazza, la fontana del Nettuno, progettata da Tomaso Laureti nel 1563, e la Fonte Vecchia, sull’attuale via Ugo Bassi, rifornendo anche il giardino botanico che si trovava nel luogo ora occupato dalla biblioteca Salaborsa. Comunque, il rifornimento idrico capillare della città fino a tutto l’Ottocento, era dato dai numerosi pozzi, pure con il contributo degli acquaioli che distribuivano l’acqua con le botti su carro, come compare in tanti dipinti e fotografie storiche. Però la carenza di pulizia e di igiene provocava frequenti epidemie e ancora nel 1881 l’ultima diffusione del colera indusse alla progressiva chiusura dei pozzi e furono iniziati i lavori di ripristino dell’acquedotto romano, che per diversi decenni da solo ha servito la città.
Tornando al tema generale, di una città in crescita alla fine del XII secolo e priva di un corso d’acqua consistente, cioè di significativa maggiore portata del torrente Aposa, il Comune optò per lo sfruttamento delle acque dei fiumi Reno e Savena, mediante la costruzione di chiuse per convogliare parte del flusso in canali diretti alla città. Così dal Duecento all’Ottocento inoltrato le vicende urbanistiche, economiche e sociali di Bologna furono determinate da un apporto che ebbe finalità difensive, alimentari, di pulizia, ma soprattutto di forza motrice per mulini di svariato genere e di componente necessaria per varie attività manifatturiere. Emergente fra tutte la produzione serica fra XV e XVIII secolo, che coinvolse gran parte della popolazione, diede forte impulso all’economia cittadina e fu prodromica di un’ingegnosità locale per la meccanica che emergerà nello sviluppo industriale del Novecento. Né va sottaciuta la dimensione dell’acqua come via di trasporto, dal medioevo alla metà dell’Ottocento, quando verrà soppiantata dallo sviluppo viario e soprattutto ferroviario; ma per lunghi secoli Bologna ebbe un porto per trasporto di merci e persone alla volta del Po e di Venezia. Si trovava nei pressi dell’attuale porta Lame, dove vennero costruiti un magazzino per le merci, gli uffici della dogana e banchine di approdo.
La ruota del filmato pubblicato dalla Cineteca di Bologna sulla piattaforma I-Media-Cities è pertanto lo stimolo per pensare o ripensare a una Bologna scomparsa e sconosciuta che reca il segno dell’importanza delle acque, sia nell’emergenza di palazzi nobiliari e di conventi situati nei luoghi dove il rifornimento era più ricco, sia nella toponomastica.
In via Pellacani, ora Petroni, c’era una concentrazione di concerie per la lavorazione delle pelli, attività che scompare in loco nel secondo Settecento. Via Cento Trecento deve il suo nome a cento, ovvero molte, traxenda, paratie di derivazione dell’acqua. ( 5) In via Cartolerie e via Cartolerie Nuova (ora via Guerrazzi) l’acqua muoveva più di un meccanismo per la lavorazione della pergamena, infatti cartolaro voleva dire colui che fabbrica la pergamena. Verso la metà del Trecento venne introdotta a Bologna la produzione di veli di seta e in via Castellata si situa il primo mulino da seta.
La presenza dell’acqua a Bologna la si ritrova anche nel nome evocativo delle chiese: San Bartolomeo di Reno, Madonna del Ponte delle Lame, SS. Girolamo ed Eustachio detta la Chiesa delle Acque, il Crocefisso delle Navi, San Michele del Ponticello, Madonna della Grada, San Martino dell’Aposa, Santa Maria della Chiavica, degli Annegati, Sant’Antonio di Savena. ( 6)
Quasi tutti i canali artificiali all’interno della cinta muraria vennero interrati innanzitutto per motivi edilizi e di viabilità e poi per questioni di igiene e pulizia (ad esempio fra Cinque e Seicento il canale di Savena in via Castiglione e nel 1840 il suo ramo detto Fiaccacollo lungo via Rialto), l’energia idroelettrica soppiantò quella idromeccanica e la produzione industriale cominciò a concentrarsi sulla meccanica. Il Piano regolatore del 1889 dismise il porto e nel 1934 furono demoliti gli edifici ad esso collegati, di cui sopravvive oggi solo la Salara.
Dagli anni settanta del secolo scorso, nell’ottica di una valorizzazione della Bologna scomparsa, vennero avviati i lavori che dal1990 a oggi hanno portato alla riapertura degli affacci sul canale delle Moline, il recupero dell’ex opificio di via della Grada, la riscoperta del condotto sotterraneo dell’Aposa, la sistemazione dell’area del Cavaticcio, la creazione di un percorso ciclopedonale sulla riva del canale Navile, il consolidamento e l’illuminazione notturna della chiusa di san Ruffillo, le iniziative balneari presso la chiusa di Casalecchio.
Il rapporto stretto con l’acqua accomuna Bologna a molte altre città italiane ed europee come è testimoniato da molti documenti visivi presenti sulla piattaforma I-Media-Cities e ne citiamo alcuni. Nel film Fidanzate di carta del 1951, parte del patrimonio audiovisivo della Cineteca di Bologna, compaiono alcuni bagnanti lungo le rive del Reno o del Navile a Bologna. La porte du rivage è un documentario belga del 1967 conservato alla Cinémathèque Royale de Belgique sulla storia del canale di Willebroek, che collega Brussels all’Escaut, caratterizzata da mutamenti architettonici e modernizzazioni. Nel filmato tedesco Ruderregatta (Kaiserregatta) del 1914, accessibile dall’archivio del Deutsches Filminstitut - DIF di Francoforte sul Meno, si assiste a una gara internazionale di canottaggio sul Meno mentre nei documentari italiani Vita torinese e Scene di famiglia, parco del Valentino degli anni Trenta, reperiti tra le collezioni digitalizzate del Museo del Cinema di Torino, alcune riprese mostrano il Po con un’imbarcazione adibita al trasporto persone, una diga, dei canottieri.
Si suppone che la compresenza sulla piattaforma I-Media-Cities di documentari che riflettono realtà metropolitane geograficamente molto distanti, permetterà un’analisi comparativa tra diversi modelli di riqualificazione e di recupero della fisionomia antica dei centri urbani anche in chiave di valorizzazione turistica.
Note
1. Ezio Raimondi, La metà nascosta, in Bologna e l’invenzione delle acque. Saperi, arti e produzione tra ‘500 e ‘800, Editrice Compositori, Bologna, 2001, p. 8.
2. Giovanna Pesci, Cecilia Ugolini e Giulia Venturi, L’area del Cavaticcio e del Porto Naviglio nei catasti gregoriani urbani del 1831 e 1873: vicende e trasformazioni, in Bologna d’acqua. L’energia idraulica nella storia della città, a cura di G. Pesci, C. Ugolini e G. Venturi, Editrice Compositori,Bologna, 1994, p. 96.
3. Pier Luigi Bottino, L’alimentazione idrica a Bologna, in Bologna d’acqua, op. cit., p. 13.
4. Carlo De Angelis, I modelli degli opifici storici bolognesi, in IBC Informazioni, commenti e inchieste sui beni culturali, 1, 2007 (cfr. la versione on line della rivista http://rivista.ibc.regione.emilia-romagna.it/xw-200701/xw-200701-d0001/xw-200701-a0022).
5. Stefano Pezzoli, Il Savena in città, in Angelo Zanotti, Maria Cecilia Ugolini, Maria Adelaide Corvaglia et al., Il Savena in città. Due interventi strutturali e ambientali per Bologna. Il risanamento del condotto Fiaccacollo. Il consolidamento della Chiusa di San Ruffillo, Corrado Tedeschi Editore, Firenze, 2018, p. 7.
6. Fabio Foresti, Il lessico e il racconto delle acque in Bologna e l’invenzione delle acque, op. cit., p. 154.
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