Rivista "IBC" XXV, 2017, 2

biblioteche e archivi / interventi, storie e personaggi

Il 9 marzo 2017, nella Biblioteca bolognese dell'Archiginnasio, è stato presentato al pubblico il libro postumo di Ezio Raimondi, Dialoghi dall’IBC. Corrispondenze tra lavoro e amicizia (1995-2009), a cura di Ivan Orsini. Pubblichiamo il testo dell'intervento del professor Andrea Battistini.
La forza riflessiva del sentimento

Andrea Battistini
[docente di Letteratura italiana all'Università di Bologna]

In questa raccolta di lettere inviate dall’Istituto per i beni culturali appare un Raimondi inedito e per certi versi sorprendente. Innanzitutto non si parla di libri, e già questa è una sorpresa, perché chi non lo ha conosciuto bene potrebbe pensare che quello dei libri fosse il suo unico mondo. O meglio di libri parla in modo divertito e divertente il direttore dell’IBC, Alessandro Zucchini, che descrive l’ufficio di Raimondi sommerso dai volumi, simili a dune che secondo il momento e il bisogno si muovevano qua e là per la stanza. Non solo, ma in queste lettere Raimondi parla di sé con un abbandono, con un’emozione, con un sentimento così intensi che difficilmente si ricordano nei suoi dialoghi orali. Anche queste lettere sono dei dialoghi, come giustamente è stata intitolata la loro raccolta selezionata e curata da Ivan Orsini, che negli anni di presidenza all’IBC è stato il suo affezionato e devoto segretario. Sono però dei dialoghi in assenza dei destinatari, sempre ben vivi e presenti in Raimondi, ma con i quali proprio la distanza spaziale consente paradossalmente di entrare in maggiore intimità e vicinanza emotiva. Lo teorizza lo stesso Raimondi quando a Fabio Roversi Monaco scrive che quando si è in presenza diretta dell’interlocutore “certi sentimenti rimangono nel fondo silenzioso della coscienza o si esprimono appena in una stretta di mano nel segno breve della commozione che si consegna al battito fragile degli occhi o nell’incrinatura sommessa della voce”.

È possibile che per questa ragione ci si sia fatta di Raimondi un’idea se non sbagliata per lo meno riduttiva e fuorviante. Il suo eloquio sempre impeccabile, il tourbillon di citazioni, la sua cultura prodigiosa non solo ci faceva sentire più ignoranti, ma suscitava l’impressione di un uomo dedito esclusivamente allo studio, ai libri, alla scrittura ed estraneo alla vita degli uomini. Effettivamente il suo sapere irraggiungibile aveva l’effetto di tenere a distanza, ma di questo la responsabilità era la nostra. Qualcosa però ci metteva di suo anche Raimondi e forse la sua cultura sconfinata è stata un mezzo di difesa, da una parte una rivalsa e un riscatto della condizione socialmente subalterna da cui proveniva e di cui parlava senza ritegno forse proprio per fare presente con un certo orgoglio questo avvenuto riscatto, e dall’altra uno schermo con cui nascondere la fondamentale timidezza del suo carattere che forse pochi hanno compreso.

In realtà Raimondi è stato un passionale, che metteva nelle cose che faceva un “fervore” fuori del comune, e uso di proposito la parola “fervore” che è ricorrentissima in queste sue lettere. Qualche rara occasione gli ha dato modo di manifestare questa passionalità: lo sa bene chi era studente nel ’68 e ha partecipato alle assemblee, dove Raimondi era l’unico professore che non esitava a prendere la parola in un contesto a lui pregiudizialmente ostile e a controbattere con veemenza agli attacchi del movimento. Lo sa bene chi ricorda il periodo in cui stava per nascere il Dams, o quando si doveva dare vita al Dipartimento di Italianistica, quando Raimondi si infiammava nel constatare l’inerzia e il grigiore delle idee. Di solito il calore passionale saliva alla ribalta quando parlava dei libri e di cultura, facendo credere che il suo fervore fosse soltanto di tipo intellettuale. Ma non era affatto così. Il vero Raimondi è quello che in una lettera si chiede, con una domanda retorica: “ma che cosa sarebbe la filologia e tutto il resto, se non servisse anche ad animare, come in un commento invisibile, la vita dei sentimenti, la misura essenziale degli affetti?”.

Vale insomma per se stesso la definizione che Raimondi ha dato della personalità del suo amato Renato Serra, la cui civiltà era fatta a suo dire “di pathos che non si ostenta, di uso sommesso del grido”. In Raimondi tuttavia la distanza fisica che la lettera pone tra chi la scrive e chi la riceve riesce comunque a ridurre la distanza affettiva tra i due corrispondenti, che poi non è altro che ritegno, e fa trovare in queste lettere parole in lui insolite come “emozione”, “commozione”, “cuore”, “nostalgia”, “affetto”, “tenerezza”, perfino “io piango in silenzio”. Spesso sono sentimenti suscitati dalla perdita degli amici più cari, ma sono anche sentimenti suscitati dal tempo dei bilanci esistenziali che, scrive Raimondi, “per me sono sempre più frequenti” e poiché, precisa in un’altra occasione, questi bilanci si fanno quando “si proietta uno sguardo sempre più miope in un futuro sempre più incerto”, avviene che “le malinconie […] si insinuano soprattutto nelle ore dei monologhi più personali”.

Le lettere raccolte da Ivan Orsini sono ovviamente tutte del periodo in cui Raimondi era presidente dell’IBC e in particolare vanno dal 1995 al 2009, ossia sono scritte tra i 71 e gli 85 anni. Naturale quindi che avverta quella che chiama la “furia silenziosa e implacabile del tempo”, ispiratrice di quest’altra riflessione: “a mano a mano che si avanza negli anni e si sente più forte il segno della temporalità e del proprio oscuro destino si infittiscono le domande e si ripetono i bilanci o le varie considerazioni retrospettive”. Senza dubbio l’età molto avanzata con il suo triste corteggio di una salute fisica sempre più precaria può avere accentuato il pessimismo di Raimondi. In realtà la sua indole, nonostante la spavalda sicurezza nel padroneggiare un sapere sconfinato, che come ho detto incuteva quasi timore e ci faceva sentire ancora più minuscoli di fronte alla sua statura, è stata quella di una personalità tormentata, inquieta perché, come non era mai appagato nella ricerca letteraria, altrettanto non lo è stato nella ricerca di sé. Il suo è stato un cattolicesimo perturbato, fatto di interrogativi più che di solari certezze. Si potrebbe dire che la sua fede aveva delle venature gianseniste e non è un caso che lo scrittore con cui è più entrato in un colloquio più intimo e simpatetico sia stato Manzoni. E ancora non è un caso se un convegno a lui dedicato è stato intitolato Ezio Raimondi lettore inquieto.

Egli stesso ne era pienamente consapevole quando, confidandosi con l’amico pittore Aldo Borgonzoni, osservava che “lo scorrere del tempo […] lascia in noi ferite silenziose e fermenti oscuri di dubbio”. Al tempo stesso ammirava e forse anche invidiava la sicurezza di Vittore Branca, il noto critico letterario e filologo dell’Università di Padova, il quale per Raimondi rappresentava “un esempio, una sorta di avanguardia che non rinunzia, anche quando le prove divengono più difficili, alla pienezza di una fede intemerata, all’avventura del colloquio con le grandi ombre, e con la loro parola che illumina e restituisce dignità e sostanza al nostro presente”. In questa stessa lettera sembra addirittura dubitare del valore di quello che aveva fatto nel corso di una vita tanto operosa, nella quale ha dedicato allo studio tutte le sue energie. A fronte della “fede intemerata” di Vittore Branca Raimondi sente che “come un’ombra ostile sopravviene il dubbio che il corso delle cose abbia preso un’altra strada con fini e ragioni che sembrano sempre più divergere da un programma di vita irreversibilmente legato ad un altro secolo e forse ad un altro paesaggio”, spingendosi perfino a chiedersi “più che mai che cosa divenga in un universo senza confini la piccola provincia dei nostri studi, che cosa resti di un costume e di una morale di lavoro che sembrava un principio indiscutibile e certo”.

Questo senso di disincanto, o addirittura di delusione, sembra discendere dalla constatazione dell’avvento di tempi che, come scrive all’amico Fausto Curi, “sembrano avversi alla civiltà degli affetti e delle intelligenze”. Il rammarico non vale soltanto dinanzi a una “vita pubblica così chiassosa e spesso vana”, così poco favorevole “ai discorsi liberi e fuori scena”, ma si estende soprattutto al costume accademico che dai racconti dei colleghi e degli allievi più vicini sentiva essersi deteriorato. Dell’università denuncia i “rituali sempre più stanchi”, entro cui “i rapporti umani sono grigi e fragili, dove è così difficile uno scambio di idee, un dialogo di lavoro, e resta soltanto il costume informe di un saluto accennato in fretta”. Potrebbe applicarsi anche a Raimondi quel “pathos della distanza” di cui ha parlato Nietzsche, in quanto dalla specola dell’IBC poteva osservare con preoccupazione il declino di un’istituzione avvolta nel “grigiore della vita accademica quotidiana segnata dai conflitti”, di un’italianistica dominata dagli “stanchi paradigmi ordinari di una disciplina che i tempi mettono a più titoli in crisi” e da “esiti concorsuali” che, testualmente, lo “hanno addolorato […] vedendo come procedano i nostri concorsi e come ignorino meriti e lavoro ben fatto”.

Sono questi alcuni squarci di lettere che testimoniano una partecipazione, una solidarietà, un’adesione alle ragioni degli altri. Raimondi ha amato i libri, ma anche gli uomini, sia pure con un pudore, con un ritegno tutto suo. Ha avuto fortissimo il sentimento dell’amicizia, un sentimento che si esprime con un’intensità ancora più grande attraverso le lettere. Per esempio, nello scrivere a Gianni Antonini, lo straordinario redattore della collana dei classici Ricciardi con cui ebbe colloqui quasi quotidiani al tempo in cui lavorava all’antologia dei Trattatisti e narratori del Seicento, Raimondi ammette che il proprio bilancio esistenziale, che altrimenti sarebbe risultato in rosso, “torna quasi in pareggio” pensando agli “amici che si sono conosciuti”, agli “incontri di cui ci è stato fatto dono”, tanto più che “gli eventi dell’amicizia non si esauriscono nell’emozione di un istante, continuano ad agire entro di noi, a scuotere gli strati profondi del nostro essere, a diventare sequenza di ricordi, luce trepida di sensazioni oramai remote”. Si direbbe che la corrispondenza in entrata e in uscita abbia per Raimondi il ruolo che ebbe la madeleine per Proust in quanto le lettere fungono da catalizzatori capaci di ridestare i ricordi anche più remoti, diventando ciascuna un “lungo monologo della memoria” che mette in moto “una riflessione retrospettiva”, “una sorta di sguardo prospettico sul paesaggio confuso di ricordi, sensazioni, speranze che rintracciamo nel nostro agitato teatro interiore”.

È un fenomeno, come spiega lo stesso Raimondi, che si intensifica quanto più “si avanza nel tempo, con la sensazione di una strada che si fa sempre più breve”. Ognuno dei corrispondenti fa rivivere un momento della vita di Raimondi e mettendo in ordine tutte queste stagioni si potrebbe ricavare la sua autobiografia interiore. Ecco allora che il figlio del tabaccaio di via del Borgo fa riemergere gli anni dell’infanzia, contrassegnata dalla caccia alle figurine della Perugina e dalla ricerca del Feroce Saladino; una compagna di università restituisce “il tempo remoto degli anni confusi e fervidi del dopoguerra” e il giorno in cui si festeggiò la laurea dell’amico Mario Pazzaglia; un antico studente del collegio Irnerio poi divenuto primario fa rivivere, anche dopo sessant’anni, le “esperienze importanti di una vita studentesca davvero comunitaria”, insieme con il rammarico che quel tipo di esperienza sia stato cancellato senza che vi si sia sostituito qualcosa di altrettanto vitale; un’allieva della Facoltà di Magistero gli evoca “di colpo un altro tempo, un’altra stagione quando a magistero si poteva ancora vivere un’esperienza comunitaria in luoghi modesti ma operosi e vivi soprattutto di un fervore giovanile, di un entusiasmo creativo che investiva anche i più anziani”.

La condivisione emotiva del ricordo si fa ancora più profonda quando Raimondi scrive agli amici dopo avere saputo di un lutto che li ha colpiti, quando cioè, per ripetere le sue parole, “nel loro lavoro fiducioso entra l’ombra cupa e crudele del destino”. Nelle lettere di condoglianze il sentimento è davvero addolorato, lo stato d’animo affranto, ma lo stile è sempre sorvegliato e impeccabile, la scrittura possiede sempre un registro alto. A questo proposito vengono in mente le considerazioni di Paul Valéry suscitate da una memorabile pensée di Pascal: “le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie”. Dinanzi a questa riflessione Valéry nota una specie di contrasto fortissimo fra la prontezza, l’impazienza, l’irrequietudine del cuore e la lentezza del pensiero fatta di spirito critico, visto che anche nell’emozione più profonda traspare la preoccupazione di scrivere in modo perfetto, emerge lo scrittore, il grande intellettuale che non vuole abdicare al suo ruolo. Con la scrittura, si dà forza riflessiva al “parlato” del sentimento, si rende denso ciò che altrimenti sarebbe più rarefatto, e diventa patetico ciò che altrimenti si sentiva appena. Insomma, conclude Valéry con un giudizio che, valido per Pascal, si può applicare anche a Raimondi, siamo in presenza di un’angoscia che scrive bene”.

Perfino le lettere che, scritte da altri, potrebbero essere di circostanza, per Raimondi comportano un impegno severo. Che si tratti di un semplice ringraziamento per un libro ricevuto in dono o delle felicitazioni per un premio ottenuto da un amico o per l’attribuzione di una nomina di responsabilità, le frasi non sono mai banali ma studiate e dettate da un coinvolgimento che si traduce in una prosa nella cui cura e padronanza si fanno sentire una vicinanza e una complicità molto maggiore di quella che si ricaverebbe da ciò che Gadda chiama il “macinato medio” di una lingua “malata di pauperismo”. Al tempo stesso colpisce la sollecitudine con cui Raimondi sente, oltre a esprimere la gioia per i successi di amici e colleghi, il dovere di ringraziarli per ciò che hanno fatto, non per lui, ma per le istituzioni o, per ricorrere a un termine a lui caro, per la “comunità”. A Romano Prodi scrive più volte per manifestargli tutta la sua gratitudine per “lo stile che impon e alla nostra vita pubblica […], e per la serietà, per la misura quasi familiare e insieme severa con cui parl a a tutti noi”; a Fabio Roversi Monaco, nel giorno esatto in cui lascia la carica di rettore, manda il ringraziamento per quanto ha fatto per l’università e per la città di Bologna, per le quali “non solo ha ridato forza alla tradizione, ma ne ha fondato una nuova e tutta nostra, con una autorevolezza ed una dignità che gli sembrano esemplari”; a Walter Tega, appena ha esaurito il suo mandato di preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, esprime gratitudine per avere “restituito alla nostra istituzione una consapevolezza unitaria e un sentimento rinnovato di appartenenza”.

Che questi riconoscimenti siano del tutto disinteressati lo si ricava dal tipo di favori che talvolta Raimondi chiede ai suoi autorevoli e potenti corrispondenti. Mai e poi mai avrebbe chiesto qualcosa per sé, ma sempre, in qualità di Presidente dell’IBC, a esclusivo vantaggio dell’istituzione per cui ha operato. E nel pregare qualcuno ad accettare un incarico, a intervenire a una manifestazione promossa dalla Regione, a partecipare a un convegno, a collaborare alla rivista dell’Istituto, l’istanza è sempre fatta con discrezione, con ritegno, quasi con pudore e con un senso di colpa, dimenticando che è il suo ruolo a volerlo. Forse questo atteggiamento per così dire imbarazzato nel chiedere dipende da esperienze personali consistenti nel continuo stillicidio di richieste che riceveva, ora per presentare un libro, ora per scriverne una prefazione, ora per partecipare a un convegno con una relazione, ora per presiedere una seduta, ora per presenziare all’inaugurazione di una mostra, ora per dare un parere su un dattiloscritto. Tirato da tutte le parti, è comprensibile che Raimondi debba, per difendersi, schermirsi e rinunciare, in primo luogo perché, come scrive con un’allusione eufemistica, gli “manca il fervore necessario”. Nel diniego però la sua innata generosità viene a sentirsi in colpa, lo obbliga comunque a motivare le proprie ragioni, a spiegare ugualmente per lettera come avrebbe sviluppato il suo discorso a un convegno se avesse potuto partecipare, a offrire il suo parere, mai superficiale, su un libro se lo avesse potuto presentare.

Se poi il giudizio dovesse recare delle riserve, queste erano dette con la massima delicatezza, con l’invito ad accoglierle con il massimo beneficio d’inventario (“è solo una sensazione e potrebbe essere fuori registro”, “è questione di prospettive”). In queste lettere compare la stessa attitudine di quando Raimondi correggeva le tesi e i saggi dei suoi allievi, sulle cui redazioni, se anche gli interventi erano numerosi, segni di un dialogo fitto e ravvicinato, non compariva il “maneggio del lapis rosso e blu” che Contini ebbe a sorprendere sui vivagni dei manoscritti vagliati da chi ha preceduto Raimondi sulla cattedra bolognese. Anziché agli effetti cromatici, la sua preferenza andava ai segni grigi della matita, pieni di ritrosia e accompagnati da un “se crede...” che, nel trarre il meglio dall'interlocutore, non rinunziava mai alla tolleranza, una risorsa da lui ritenuta non già “una forma di indulgenza che dissimula la sua pavida debolezza sotto la norma del lasciar vivere, ma un atto di conoscenza, una presa di posizione, un modo nobile di rendere responsabili noi stessi”. Al senso magnanimo della tolleranza Raimondi ha abbinato un inconfondibile pudore che costituisce il tratto intimo della modestia, propria, osserverebbe Manzoni, un altro dei suoi “autori”, di “colui che conserva i suoi sentimenti nella custodia del suo cuore”.

Intanto però, nelle poche lettere dove in questa piccola raccolta l’uomo Raimondi torna a essere il professore Raimondi, affiorano balenanti intuizioni, sorprendenti liaisons, aperture insospettate. Bastano poche suggestioni appena accennate per delineare un intero saggio critico: la cifra patetica di Tasso a contrasto con l’intellettualismo barocco di Tesauro, il nesso tra Manzoni e Chateaubriand con una possibile mediazione di Ermes Visconti, la bibliografia non scontata su Sterne e su Di Breme, il riconoscimento nell’arte di Aldo Borgonzoni della “forza umana, l’energia di un rapporto vitale, la costanza di una forza inventiva insieme dolorosa e felice”, la scoperta, nelle ceramiche di Sante Ghinassi, di “una sorta di intimità domestica che si fa concentrazione, volontà di cogliere il vero di un oggetto o di una apparenza nella sua pienezza nuda ed essenziale” che vorrebbe sottrarle “al morso e all’ombra insidiosa del tempo”. Ancora più che nei libri dello storico della letteratura, in questa raccolta epistolare scelta e pubblicata da Ivan Orsini e prefata di Alessandro Zucchini salgono alla ribalta le qualità di Raimondi scrittore, un aspetto finora trascurato perché è stato soverchiato dall’interesse per le sue illuminazioni critiche, ma che prima o poi qualcuno dovrà cominciare a prendere in seria considerazione.

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