Rivista "IBC" XXII, 2014, 4

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / convegni e seminari, editoriali, pubblicazioni, storie e personaggi

Un volume raccoglie gli editoriali e gli articoli scritti da Ezio Raimondi, italianista e critico letterario di fama internazionale, durante gli anni in cui ha presieduto l'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna.
Ezio Raimondi e l'officina progettuale dell'IBC

Andrea Battistini
[docente di Letteratura italiana all'Università di Bologna]

L'8 ottobre 2014, nella Biblioteca bolognese dell'Archiginnasio, è stato presentato al pubblico il primo libro postumo di Ezio Raimondi: Tra le parole e le cose. Editoriali e articoli per la rivista "IBC" (Bologna, Bononia University Press, 2014). Pubblichiamo il testo dell'intervento di Andrea Battistini, docente di Letteratura italiana nel Dipartimento di filologia classica e italianistica dell'Università di Bologna.


Tra le cose che in qualità di direttore di questa rivista Ezio Raimondi aveva più a cuore c'erano gli editoriali che aprivano ogni fascicolo. Era un appuntamento al quale non ha mai voluto mancare, nemmeno nei momenti in cui una sua defezione sarebbe stata pienamente giustificata. Quando si fratturò il bacino e fu costretto a rimanere per mesi inchiodato a letto, due redattori di "IBC" si recarono a casa sua per sentirsi dettare l'editoriale del numero che stava per uscire. È stata quindi un'iniziativa encomiabile quella di raccogliere, per ricordarlo, una selezione di questi suoi scritti, testimonianza della dedizione che Raimondi ha sempre riservato al suo ruolo ventennale di presidente dell'Istituto. L'abnegazione era tale che, essendo ricoverato in clinica nei giorni in cui, nel marzo 2011, anche la Regione Emilia-Romagna doveva celebrare i 150 anni dell'Unità d'Italia, non volle rinunziare all'impegno, affidando a un registratore il discorso che avrebbe dovuto leggere all'assemblea regionale.

Senza dubbio queste mansioni spettavano ai suoi compiti istituzionali, ma la passione con cui le ha assolte mostra che il suo impegno rispondeva a una vocazione personale. Si direbbe anzi che il suo ufficio di presidenza dell'Istituto regionale per i beni artistici, culturali e naturali gli consentisse di assecondare una sua predisposizione profonda, quella di stabilire dei rapporti, di fare dialogare realtà diverse, di raccordare esperienze, di prodigarsi perché, come si legge in un suo articolo, si compisse il passaggio "dal regno degli sforzi dispersi al regno degli sforzi ordinati".

Una rivista è per definizione un luogo d'incontri e con la direzione del periodico dell'IBC è come se questa ricerca instancabile di dialogo, esercitata da Raimondi dapprima all'Università, con i suoi allievi, vi avesse trovato la sede più idonea per una ideale prosecuzione. Può darsi che il bisogno di conversare con gli altri e di stabilire continue relazioni se la sia formata sul suo tavolo di lavoro, nel colloquio mai intermesso con i libri, la cui lettura non è stata per lui "un monologo, ma l'incontro con un altro uomo, che nel libro ci rivela qualcosa della sua storia più profonda e al quale ci rivolgiamo in uno slancio intimo della conoscenza affettiva, che può valere anche un atto d'amore". Fatto sta che sono continui nei suoi editoriali gli appelli a "programmi concordati", a una "razionalità condivisa", allo "scambio di esperienze", alla necessità di "porre in correlazione", di "pensare insieme", di promuovere un'"istruttoria a più voci".

È significativo che nell'intervista rilasciata a Valeria Cicala e Vittorio Ferorelli, messa in appendice al volume, Raimondi rievochi il momento in cui, arrivato alla guida dell'Istituto, si propose come primo obiettivo quello di fare sì che "le diverse voci e le diverse competenze" dei singoli "convergessero insieme [...], perché il meglio di sé diventasse patrimonio comune". È probabile che questo sforzo di aggregare le individualità in un gruppo, nel riflettere la volontà di una socialità attiva, sia derivata in Raimondi da un forte senso dell'amicizia. Senza dubbio la sua cultura intimidiva, teneva a distanza, ma non era lui che teneva a distanza noi, eravamo noi che ci sentivamo inadeguati di fronte a lui. Quando chiamava gli allievi "giovani amici", era convinto di quello che diceva. E se dava loro del "Lei", era per un atto di rispetto, per evitare il paternalismo professorale e accademico che era la cosa che detestava più di ogni altra. E per capire che cosa fosse per Raimondi l'amicizia basta vedere, nel libro, le parole che dedica ad Andrea Emiliani o a Renzo Renzi, dalle quali traspaiono la profondità e l'energia dei rapporti autentici, non convenzionali.

Questa stessa ricerca di autenticità si vede anche nel rapporto di Raimondi con il suo lavoro, con i suoi compiti istituzionali. Nel libro ritornano più e più volte deprecazioni e gesti apotropaici contro la routine, contro i formalismi, contro le paludi burocratiche, alle quali volle opporre la "lucida, pronta efficienza". Se ci fu una cosa totalmente estranea alla mentalità di Raimondi, questa era la mentalità impiegatizia, la mentalità oggi dilagante del risparmio, dell'osservanza rigida del mansionario, che è un'espressione dell'inerzia e dell'avarizia. Nelle pagine della rivista sono frequenti gli appelli all'"ardimento", al "coraggio" e altrettanto ricorrenti sono formule del tipo "ora sta a noi", "ora tocca a noi". Risalta insomma un fermo proposito di coinvolgimento, di compartecipazione, che è poi la faccia passionale del dialogo.

Ora, questo dialogo il Raimondi presidente dell'IBC, oltre che con le persone, lo ha cercato allo stesso modo tra le cose, nello sforzo continuo di mettere in relazione il ruolo istituzionale della conservazione dei beni culturali con il presente e con il futuro, consapevole che la tradizione va tutelata, ma anche messa continuamente in discussione. Citando Bruce Chatwin, un romanziere che è stato anche un archeologo e che ha lavorato per la casa d'aste Sotheby, Raimondi sosteneva che le cose del passato non sono un possesso di cui noi siamo semplici custodi, ma sono gli interlocutori di un dialogo che quelle cose devono avere con noi, in modo che il passato che resta sia per noi una cosa viva. La difesa dei beni artistici diventa inscindibile dalla loro valorizzazione e dalla loro innovazione, senza quindi che si cristallizzino. Quello che si conserva deve essere rivestito della vitalità del presente, e dunque il passato non va semplicemente tutelato e custodito, ma interpretato, ricreato, perché è autentico solo se ridiscusso. Forse, quando si dice che il presente è responsabile della conservazione del passato, si sottintende che in questo genere di dialogo il compito dell'oggi è di dargli delle risposte, visto che appunto la parola "responsabilità" significa etimologicamente "impegnarsi a rispondere, impegnarsi a dare una risposta". Raimondi, sempre maestro di titoli e di formule efficaci, parla di "osservazione partecipante", di "atteggiamento dinamico" proiettato con tutta la "forza inventiva" nell'"universo del non ancora".

Essendo un filologo, non aveva difficoltà a comprendere l'importanza del restauro, ma insieme con la restituzione fedele del reale, ha anche creduto nella forza, oltre che del reale, anche del possibile, animato da una fortissima tensione utopica che gli ha fatto sempre guardare al futuro. Quando era all'Università, ha creato un dipartimento prima ancora della legge che li istituiva; ha progettato il DAMS prima che interessi di parte ne ottundessero i valori innovativi. Certo, l'utopia è soggetta anche alle sconfitte, ma questo non gli ha impedito di possedere quella che Kierkegaard chiamava la "passione per il possibile", perché non ha mai pensato a risultati irreversibili. Anche il "patrimonio artistico e naturale", ha scritto nella rivista "IBC", "non ha un senso definitivo e la sua funzione va commisurata a una realtà antropologica che muta".

Questo dinamismo ri-creativo e dialogico nei confronti del passato si coglie anche nel rapporto tra le diverse realtà culturali dell'Emilia-Romagna. Fin dal suo primo editoriale della rivista, Raimondi metteva subito in chiaro che "l'officina progettuale dell'Istituto deve porre in correlazione biblioteca e museo, natura e cultura, cultura e territorio, nel quadro di un'ipotesi globale dei servizi e dei comportamenti culturali da iscrivere poi nel sistema dinamico delle iniziative e delle autonomie locali". Anche in questo caso, Raimondi faceva proprio il ruolo dell'IBC di raccordare realtà diverse e stratificate, ma anche in questo caso il compito istituzionale collimava con una sua intima vocazione, predisposta a una cultura pluralistica e al tempo stesso unitaria, flessibile e dalle molte prospettive, capace al tempo stesso di distinguere e di connettere, in una ricerca incessante di convergenze, di condivisioni e di comportamenti cooperativi. Per lui non è esistito il bene culturale isolato in sé stesso, ma solo in sequenza, la cui ragion d'essere è fondata sul confronto. Per questo gli è venuto naturale guidare un'istituzione che per statuto deve promuovere la catalogazione, creare anagrafi seriali e favorire gli inventari, perché per Raimondi queste imprese non sono operazioni inerti e statiche, ma sono le premesse indispensabili che consentono di cogliere "rapporti, scambi, repliche, trasposizioni, metamorfosi, varianti" e perfino, "attraverso il confronto", di esaltare "l'individualità intraducibile di un'opera".

Basterebbe, per avere un'idea di questo senso della complessità, considerare il concetto che Raimondi aveva del paesaggio, una sinergia di fattori naturali e storici, e quindi delle loro interrelazioni, tali da formare un palinsesto stratificato, comprensibile nella sua ricchezza solo con un'"educazione percettiva" fondata su una "cultura dello sguardo". Certo qui aveva presente la lezione di Lucio Gambi, primo presidente dell'IBC, così come, in tema di collezionismo, metteva a frutto i saggi di Benjamin e di Pomian. Va da sé che, anche nella veste di presidente dell'IBC, Raimondi non ha mai dimesso l'abito dello studioso coltissimo. Ne sono la prova, anche in questa raccolta, i frequenti riferimenti agli autori a lui più cari, da Longhi a Focillon, da Febvre a Marc Bloch, da Curtius a Bachelard e, insieme, i veri e propri saggi ricavati dai suoi interventi pubblici, ora su Giuseppe Verdi, ora su Giulio Cesare Croce, ora sulle biblioteche e l'enciclopedia, ora sulla storia della psichiatria al "San Lazzaro" di Reggio Emilia, ora sulla concezione del tempo, ora sull'estetica del paesaggio.


In questo libro però Raimondi, oltre ad apparirci quello di sempre, prodigioso nella sua cultura a tutto campo, ci appare anche in un'attitudine meno consueta, anche se certo non ignota a chi lo ha conosciuto bene. A prima vista viene da pensare a un Raimondi erudito, tutto preso dalle sue letture e dallo studio. Può darsi che sia stato effettivamente così in famiglia, dove c'era la signora Mariella che provvedeva per lui, ma nella sua veste pubblica non si è mai sottratto ai doveri istituzionali. All'Università è stato a lungo direttore di istituto e poi di dipartimento, ha diretto collegi di studenti, è stato in consiglio di amministrazione e ha guidato numerosi lavori di gruppo, rivestendo ruoli di responsabilità anche all'esterno dell'Alma mater, non solo al Mulino, ma anche in numerose altre sedi.

In questo senso è giusto il titolo del libro, Tra le parole e le cose, perché il suo rigoroso senso etico non gli ha mai permesso di limitarsi alle parole, ma ha fatto loro seguire un'intelligenza del fare, invocando spesso quella che ha chiamato la "fattualità dei fenomeni", o anche l'"intelligenza applicata", attento alla dimensione materiale della cultura. Del resto biblioteche e musei non sono forse manifestazioni concrete e tangibili di cultura? Per questo ha tanto ammirato Andrea Emiliani, storico dell'arte sì, ma anche nello stesso tempo "un organizzatore, un costruttore di musei", come pure Renzo Renzi, per avere còlto nelle sue opere il "tratto laborioso e propositivo" delle genti emiliano-romagnole. E ancora, per questo, Raimondi ha anche condiviso il "gusto insopprimibile della manualità", definendo il lavoro del restauro la "filologia sperimentale della materia". È questa una delle tante formule e definizioni fulminanti che rimangono impresse per la loro acutezza e originalità, come quando, discorrendo dei mezzi di contenzione in uso nei manicomi, chiosava in epigrafe che "ogni strumento è una teoria materializzata", o quando, a proposito di Giuseppe Mengoni, il progettista della Galleria di Milano, lo definiva "un Vincenzo Monti della nostra architettura".

L'ufficio di presidente dell'IBC lo ha condotto a occuparsi non solo di biblioteche e musei, ma anche appunto di architettura, di artigianato artistico, di restauro, di centri storici e di urbanesimo, di musica, di fotografia, di teatro, di idrologia e idraulica, di scienza, di tradizioni popolari, di pittura come del fumetto, di paesaggio, ambiente ed ecologia. Se lo ha fatto, non è perché si sentisse un tuttologo, e nemmeno per un semplice spirito di servizio, ma per un radicato senso etico che in Raimondi si traduceva in una volontà di capire, che equivaleva subito in un atto di rispetto e di riconoscimento delle ragioni degli altri, ubbidendo d'istinto all'imperativo di Lucien Febvre che invitava gli storici a bussare alle porte del vicino, ossia a fare i conti con quelli che poi Primo Levi avrebbe chiamato gli altrui mestieri.

La ricchezza e la varietà dei temi affrontati sulla rivista dell'IBC consentono a chi oggi ne legge gli editoriali di Raimondi di rivivere la storia dell'Istituto degli ultimi venti anni, quelli che corrispondono al tempo in cui è stato presidente. Anzi, poiché la prerogativa dei beni culturali è quella di rimandare sempre "a un contesto, a un paesaggio umano", facendosi portatori di una "memoria collettiva", ecco allora che in un libricino di poco più di 200 pagine è racchiusa la storia di questo ultimo quarto di secolo, di cui nelle parole di Raimondi si avvertono gli echi il più delle volte drammatici, quelli del crollo delle Twin Towers, quelli del terremoto nel Modenese e nel Ferrarese, quelli della crisi finanziaria, insieme con i fenomeni della globalizzazione e i progressi dell'informatica, che per Raimondi rappresenta le "frontiere del virtuale", con il suo "universo spettrale" fatto di "icone immateriali".

Ma, di là dai meri dati fattuali, dagli editoriali sui beni culturali si ricava anche una storia del gusto e della sensibilità, nei quali Raimondi coglieva con preoccupazione il prevalere dell'effimero iperbolico, della ricerca sensazionalistica del grande evento mediatico, degli incontri eccezionali esauriti nella contingenza congiunturale, a cui contrapponeva il paziente formarsi di "una capacità educata di vedere e di giudicare, una curiosità che implica uno spirito critico, un'attività di indagine e di comparazione, un esercizio intellettuale calato nel quotidiano". Per chiudere con una formula ricorrente nei suoi editoriali, "sta a noi", ora, portare a compimento questo suo magnanimo auspicio.

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