Rivista "IBC" XXIII, 2015, 2

musei e beni culturali / mostre e rassegne

Al Museo "Pompeo Aria" di Marzabotto, fino al 10 gennaio 2016, una mostra dà l'occasione di mettersi a tavola insieme agli Etruschi.
Quando un dio vegliava sui banchetti

Carla Conti
[Soprintendenza archeologia dell'Emilia-Romagna]

Se è vero che l'uomo è ciò che mangia, poche cose ci appartengono di più del cibo che ingeriamo. Un viaggio tra le risorse dell'ambiente, le scelte alimentari, i modi della trasformazione, i percorsi degli scambi, le tipologie del consumo e i simboli a ciò legati può diventare una chiave di lettura privilegiata di tanti usi e attitudini umane. Indagando quanto accaduto in antico emergono con evidenza le dinamiche sociali, antropologiche e religiose alla base delle scelte alimentari dell'uomo, spesso molto diverse tra loro. La storia del cibo non è solo la storia delle risorse agricole e dell'allevamento ma anche quella delle valenze simboliche di volta in volta attribuite ai cibi, ai modi e alle circostanze in cui venivano consumati, dai sacrifici alle divinità, ai banchetti funebri o conviviali.

È proprio su un tema così coinvolgente come quello dell'alimentazione nell'antichità che è incentrata la mostra "A tavola con gli Etruschi di Marzabotto", promossa dalla Soprintendenza archeologia dell'Emilia-Romagna e dal Dipartimento storia culture civiltà dell'Università di Bologna. Allestita nelle sale del Museo nazionale etrusco "Pompeo Aria" fino al 10 gennaio 2016, la mostra, inaugurata il 17 maggio, è inserita nel progetto "Semi", che l'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna dedica ai temi di "Expo Milano 2015".

Attraverso reperti corredati da pannelli, didascalie e schede di sala, l'esposizione illustra alcuni aspetti specifici dell'alimentazione degli etruschi: le risorse dell'ambiente, le modalità del consumo del cibo e i suoi aspetti simbolici collegati ai banchetti in onore dei defunti.

Icona della mostra è la statuetta in bronzo di Fufluns, signore degli alberi e della linfa vitale, nume della fecondità e dispensatore delle gioie del banchetto e dell'ebbrezza alcolica. Protettore delle riunioni conviviali e corrispondente etrusco del Dionysos greco e del Bacco dei romani, Fufluns era sempre rappresentato nell'atto di reggere un  kantharos, la tipica coppa da vino, tratto distintivo della sua deità. La statuetta che lo raffigura, trovata vicino a Sasso Marconi ed esposta nel museo, continua a brindare nella terra dove visse 2500 anni fa, partecipando da par suo ai numerosi banchetti di questo popolo raffinato, descritto da greci e latini come godereccio e mondano.


A Marzabotto/Kainua la terra è sempre stata generosa, come attesta la sezione della mostra dedicata alle risorse alimentari, integrata da recenti studi paleobotanici. Qui si coltivavano orzo, farro e grano in quantità, si producevano fichi e legumi, si allevavano maiali e ovini, si cacciavano cervi e selvaggina, si importavano olio e vino.

Sulle tavole dei ricchi regnava l'abbondanza. I cuochi preparavano carne arrostita o bollita, condita con salse a base di cereali, verdure e spezie. La carne, cibo di lusso il cui consumo era legato e precisi rituali, si mangiava con focacce, uova e verdure, e il pasto era chiuso da frutta e dolciumi. Il vino era miscelato con acqua e insaporito con spezie, miele o formaggio grattugiato. Il tutto servito in raffinato vasellame da mensa: piatti, vassoi e stoviglie addobbavano la tavola, il vino era attinto da grandi crateri e versato nei calici e nelle tazze dei singoli commensali.

Accanto ai vasi etruschi, la mostra concentra l'attenzione sui preziosi vasi attici decorati e sui servizi in bronzo poi deposti nelle tombe per consentire al defunto di banchettare nella sua nuova vita nell'aldilà. Vengono dalle necropoli di Kainua le ceramiche attiche e a vernice nera del VI-IV secolo avanti Cristo tra cui spiccano crateri,  kylikes (coppe) e uno straordinario  kantharos bifronte con teste di menade e satiro.

Proprio questi vasi sono i protagonisti della sezione dedicata all'ideologia del simposio. Mutuato dalla pratica greca, il rito del  symposion è ampiamente attestato a Marzabotto. Con questo termine i greci indicavano il rito del banchetto, in origine praticato nella sfera aristocratica quale esibizione di  status, occasione di incontro e di socializzazione tra uomini appartenenti a un'élite: distesi su letti ( klinai), i simposiasti trascorrevano il tempo consumando vino e cibi disposti su bassi tavoli ( trapezai), accompagnati da musica, danze e canti. Il valore simbolico e lo stretto legame del simposio con la sfera religiosa, in particolare con il culto del dio Dioniso, si riflettevano nella ritualità della preparazione e del consumo del vino, ma anche nella presenza della poesia, accompagnata da musica, danze e dai giochi tipici del convivio.

Questo sistema di valori proprio del simposio greco è sostanzialmente assimilato dalla cultura etrusca, salvo che al banchetto etrusco, distese accanto ai propri compagni, partecipavano anche donne di rango, mentre in Grecia le sole donne presenti al simposio erano di estrazione servile (danzatrici, suonatrici, etère).

La pratica del banchetto nella società etrusca è riscontrabile nelle frequenti rappresentazioni di simposiasti nella pittura murale funeraria e nella deposizione, all'interno delle tombe, di ricchi corredi di vasi attici, necessari allo svolgimento simbolico del simposio anche nella dimensione ultraterrena.


La maggior parte dei vasi attici importati dagli etruschi presenta forme che rientrano nel servizio da simposio, quindi destinate alla conservazione, alla preparazione e al consumo del vino. Spesso importato dalla Grecia, il vino doveva essere miscelato all'acqua nei grandi contenitori a ciò destinati come crateri e  dinoi. Una volta ottenuta la giusta diluizione, la bevanda era attinta con  oinochoai (brocche) o  kyathoi(attingitoi) e quindi versata nei vasi per bere, che potevano essere coppe di varia forma o più capienti  skyphoi.

La massiccia importazione di ceramica attica figurata e a vernice nera destinata al simposio interessa anche l'Etruria padana sin dalla seconda metà del VI secolo avanti Cristo, ma soprattutto nel secolo successivo: i preziosi vasi attici, trasportati dalla Grecia sulle navi mercantili con altri apprezzati prodotti greci come l'olio e il vino, approdavano nei porti alto adriatici di Adria e Spina, per raggiungere infine i centri etrusco-padani più interni, situati lungo le vie di comunicazione terrestri e fluviali, come Bologna e Marzabotto.

A Kainua il consumo del vino secondo i rituali del simposio è testimoniato dai molti rinvenimenti di vasellame attico, sia nell'area dell'abitato che nelle necropoli. Provengono soprattutto dalle sepolture i vasi conservati più integralmente: si tratta per lo più di crateri,  kylikesskyphoi, ma anche di forme più rare ed elaborate come il  kantharos bifronte.

La presenza di un vasto repertorio di ceramica attica a Marzabotto attesta l'apertura di questo centro etrusco alle correnti di traffico commerciale e l'adozione di tutto il sistema ideologico connesso all'uso di questi contenitori per cibo e bevande, da intendersi come veri e propri  status symbol.

La ceramica prodotta nelle botteghe dei vasai ateniesi costituisce una delle classi vascolari più diffuse e apprezzate nell'antichità. Il successo di questi vasi è dovuto alla grande originalità e capacità tecnica degli artigiani ateniesi che tra il VI e il IV secolo avanti Cristo elaborano una grande varietà di forme vascolari, spesso arricchite da splendide immagini che costituiscono per noi una preziosa testimonianza dei costumi e della cultura di Atene. L'alto livello tecnico raggiunto dalla produzione di ceramica attica prevede l'opera di maestranze altamente specializzate: alla realizzazione di un vaso figurato lavoravano infatti sia il ceramista (di norma il proprietario dell'officina), che modellava la forma al tornio e provvedeva alla cottura del vaso, sia il ceramografo, suo collaboratore, che curava la parte decorativa.

Le immagini presenti su alcuni esemplari illustrano come dovesse svolgersi l'attività all'interno delle officine dei vasai e quali fossero le diverse fasi della lavorazione della ceramica; tra le tecniche adottate dai pittori vascolari attici, quelle più utilizzate erano la tecnica a figure nere e quella a figure rosse.


Per sapere quale fosse l'essenziale dotazione di una cucina antica possiamo affidarci alle parole del commediografo greco Anasippo, dal momento che il mondo etrusco non ci ha lasciato testimonianze scritte dirette: "Portaci un mestolo per la zuppa, dodici spiedi, un uncino per la carne, un mortaio, una piccola grattugia per il formaggio, un bastone, tre scodelle, un coltello, quattro ascette da macellaio. E innanzi tutto, nemico degli dei, porta la piccola caldaia, le cose dal sodavendolo. Ritardi ancora? Anche l'ascia e il sostegno colle padelle" ( Ateneo, IV, 169 b-c).

L'arte etrusca ci ha comunque tramandato numerose scene di banchetto che documentano l'utilizzo specifico e l'utilità dei vari oggetti rappresentati. Certamente il vasellame utilizzato nella vita di ogni giorno e il relativo allestimento della mensa era molto meno raffinato di quello rappresentato in queste raffigurazioni.

A Marzabotto la maggior parte del materiale ceramico rinvenuto è vasellame prodotto  in loco, in vario modo ma con un'unica materia prima, l'argilla. Questa doveva essere facilmente reperibile in zone non lontane dalla città e forse anche all'interno della città stessa. Le forme vascolari prodotte erano destinate essenzialmente alla mensa quotidiana e finalizzate al consumo dei cibi (le coppe, i piatti, i piatti su piede, le tazze) e alla mescita dei liquidi che, nel caso delle brocche, doveva essere l'acqua.

Gli utensili veri e propri adoperati nelle cucine altro non erano che arnesi da lavoro e, come tali, non solo non venivano in genere depositati nelle tombe ma sono anche scarsamente documentati nei contesti di abitato. Bisogna comunque tenere presente che la rarità di questi oggetti dipende anche dalla deperibilità dei materiali con cui erano realizzati (basti pensare al legno) o alla preziosità dei metalli, che ne implicava rifusione.


Molto scarse sono le informazioni e i dati archeologici relativi alla preparazione dei cibi. Se i corredi tombali ci informano in modo molto diretto del consumo della carne, va però detto che non era un alimento della mensa quotidiana ma piuttosto collegato a offerte rituali. Il sacrificio della bestia, compiuto in nome della divinità, si concludeva con il dono agli dei della carne arrostita e delle viscere, e la condivisione delle carni fra i partecipanti al banchetto.

Per cuocere la carne si usavano grandi spiedi di bronzo o ferro, lunghi circa un metro, posti su alari che tenevano sospesa la carne a una certa distanza da fuoco e braci, per ottenere un arrostimento uniforme. Diffusa anche la pratica, illustrata da numerose fonti iconografiche, di bollire le carni in grandi calderoni di bronzo. Come sempre, ciò che resta è per lo più la testimonianza di un ceto dominante. Oltre alla fine ceramica d'importazione, però, restano le tazze e le brocche in ceramica comune prodotte in abbondanza nei laboratori della città, usate nel quotidiano specie per il consumo del più tipico dei piatti etruschi a base di fava, piselli o ghiande.

Il percorso tra le varie sale del museo evidenzia l'uso dei diversi recipienti fittili di produzione locale, di forma chiusa o aperta, utilizzati per contenere o consumare alimenti liquidi e solidi. Alcune anfore commerciali venute da oltremare e una macina per il grano consentono di approfondire i temi dei prodotti d'importazione e della lavorazione delle materie prime, mentre la presenza di pozzi e bacili ( louteria) introduce a un'altra questione fondamentale: come sfruttare in casa le risorse idriche.

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