Rivista "IBC" XXII, 2014, 2
Dossier: Storia dal "quotidiano"
musei e beni culturali, dossier /
Vi fu un'epoca molto lontana, in Italia, ventiquattro o venticinque secoli fa, che a Roma, a Napoli, a Capua, a Perugia, a Vetulonia, si raccontavano meraviglie di certe terre del Nord che i mercanti, o gli avventurieri, raggiungevano in lunghe carovane dopo settimane di marcia faticosa, e donde tornavano non a basto vuoto ma con le cavalcature prone di mercanzia. Era il tempo delle scorrerie dei galli, delle oche capitoline, e dell'avanzare della repubblica romana nel cuore della penisola, a conquistare a diverso titolo le terre degli etruschi, degli umbri, dei piceni, dei sanniti. Si sa, i mercanti precedono sempre i soldati: così la spinta dei romani verso l'Adriatico e verso la Cisalpina era segnata dalle piste già battute dalle carovane; prima dei romani gli etruschi, e con loro i ricchi e coraggiosi imprenditori delle lontane città della Campania: a cercare che cosa?
Scendevano dal passo di Viamaggio, uno dei più bassi dell'Appennino, e dall'Alpe della Luna, lasciavano il Tevere e calavano nella valle del Marecchia sino alla sua foce, si fermavano verso il piano, sotto Verucchio, che era un grosso centro, un capoluogo già dai primi tempi dell'età del ferro, e poi sulle ultime alture di fronte al mare, a Covignano per esempio, dove sgorgavano acque fresche - miracolose, da venerare - e donde potevano vedere le vele rosse e gialle che dal largo portavano altre mercanzie; oppure spuntavano dalla sella di Gradara, mentre le barche giù sotto contornavano la punta dantesca di Focara ("al vento di Focara / non sarà lor mestier voto né preco") e giungevano ancora alla foce del Marecchia. A coglier cosa? chiedevano nelle città lontane: un po' di tutto, persino granaglie, e poi vino, e dal Nord vengono dei metalli preziosi, viene l'ambra, inoltre c'è gente in cerca di lavoro per sopravvivere, un poco come quei galli che avevano attentato a Roma, ma sono braccia inermi, servi, schiavi, un'immensa forza-lavoro, una colata di energia a disposizione di chi la compra e la mette in via, lunghe marce a piedi, verso centri di smistamento, mercati di vendita; molti prenderanno anche la via del mare, ci sono monarchie lontane, in Grecia o in Siria o in Asia minore dove le industrie hanno bisogno di schiavi.
Ma tutto questo in cambio di che? Appunto, di prodotti dell'industria, di manufatti, di armi battute nel ferro e nel bronzo, di nuovi strumenti agricoli, di oggetti di uso comune in terracotta... Perché - raccontavano - è solo l'inizio di un'immensa pianura, se ci si allontana dagli Appennini non se ne vede la fine, c'è tanta acqua, gente strana che parla in lingue sconosciute, un grande fiume e poi - dicono - una cerchia di monti altissimi nei quali, e di là dai quali, c'è del ferro, dello stagno, dell'argento, del piombo; di là dai quali scorrono due fiumi, Reno e Danubio, che portano a genti dalla lingua ancora più difficile. La prima storia di Rimini nasce così: una sorgente, un santuario, un mercato, tanta gente, un grande scambio di cose, poi i primi tentativi di produrre in loco le ceramiche etrusche e campane, qualche baracca in piano, il bisogno di lavorare la terra (anche più giù nella valle del Conca), il bisogno di investire i capitali, una nuova città; persino una moneta di zecca locale, forse con il simbolo della tribù gallica dominante, oppure della tribù gallica che aveva finito di dominare, ma con il piede ponderale analogo a quello di altre monete delle città dell'Italia centrale, come fosse un serpente monetale, un mercato comune.
Poi, si capisce, giunge il governo con i suoi soldati e coloni: nasce la città di pianta regolare, nel 268 avanti Cristo, che nel suo perimetro e nella sua scacchiera non perirà più; alla congiunzione tra la via Flaminia e la via Emilia, Augusto volterà l'arco che porta il suo nome, e Tiberio cavalcherà il Marecchia con il ponte che non crolla. Sarà persino una città d'apparato: nel basso impero vi sorgeranno residenze di funzionari, con immensi mosaici pavimentali, e vi si terrà un sinodo. Ma la sua cifra, il segreto di Rimini, è quello delle origini, di un'operosità tra le vie di terre e quelle del mare: più ancora dell'arco e del ponte occorre soffermarsi sulle ciotole e sulle anfore, e sulle scritture graffite nel cotto; appunti, sigle, carature, da indagare, schedare, classificare, così come si studiano le piante delle abitazioni, e le preghiere in epigrafe dei mercanti e dei soldati orientali. Perché a Rimini giunge il mondo, e vi si mescola: tra le pietre romane si è trovato persino il monumento di un faraone del VI secolo avanti Cristo, Psammetico II.
Si sa, le guerre rivoltano tutto, anche il sottosuolo: nella sua distruzione del 1944, Rimini ha conquistato una ricchezza immensa. Il patrimonio antico vi è pari a quello delle più strepitose città del mondo, Ostia, Siracusa, Aquileia, Lione, Tarragona, Londra, Colonia, Nicomedia. Si tratta di analizzarlo correttamente per farne partecipe, come di vestibolo necessario alla comprensione della città e della gente di oggi, tutti i cittadini, e gli altri, i milioni di forestieri, di stranieri, che popolano questa città del mondo. Quindi "Analisi di Rimini antica" è un lungo programma di ricerche che storici e archeologi hanno avviato, che ha dato già frutti preziosi, che si è già estrinsecato in volumi e in monografie, che ha come meta finale, necessariamente lontana ma concreta, il nuovo grande museo di Rimini: il piano degli amministratori comunali ha mosso i suoi primi passi, ha fornito agli studiosi una garanzia di razionalità, gli studiosi hanno corrisposto, pare proprio che ci si avvii a tracciare, negli anni, una nuova pagina della luminosa tradizione culturale riminese.
[articolo di Giancarlo Susini; "il Resto del Carlino", 31 luglio 1980]
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