Rivista "IBC" XXII, 2014, 2
territorio e beni architettonici-ambientali / convegni e seminari, interventi, leggi e politiche
Il 9 aprile 2014, a Bologna, nella Biblioteca comunale dell'Archiginnasio, l'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna (IBC) ha organizzato il convegno "Per una nuova cultura del paesaggio. Dalla tutela alla valorizzazione", che ha visto l'intervento di rappresentanti delle istituzioni ed esperti della materia. Pubblichiamo l'intervento del responsabile del Servizio beni architettonici e ambientali del'IBC.
Da circa un decennio, il discorso sul paesaggio si è allargato a comprendere ogni cosa: concetti, spazi e oggetti che in precedenza ne erano decisamente esclusi. Oggi sembra che ormai tutto sia paesaggio. Non era certo così al momento in cui la tutela del paesaggio è entrata nell'ordinamento giuridico italiano: nel 1939, la legge 1497, "Protezione delle bellezze naturali", elenca i beni soggetti a tutela, e vi comprende infatti le cose caratterizzate da bellezza naturale o singolarità geologica, gli insiemi di ville, giardini e parchi, i complessi di cose immobili aventi caratteristico aspetto, le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali. Questa impostazione è ancora di derivazione ottocentesca. Nelle foto Alinari che l'IBC conserva nella sua fototeca, compaiono monumenti o panorami di questo genere.
Molti anni più tardi, le regioni vengono chiamate a elaborare piani paesistici dalla legge Galasso, la 431 del 1985: che elenca coste, laghi, fiumi, torrenti e corsi d'acqua, montagne, ghiacciai e circhi glaciali, foreste, boschi, parchi, usi civici, zone umide, vulcani. Anche questi sono tutti beni naturali. Di cose concernenti l'uomo ci sono solo le zone archeologiche, e le unità di paesaggio, definite anche con il ricorso a elementi del mondo del costruito: centri storici, edifici rurali, tipologie edilizie tradizionali. Ma si parla sempre di eccellenze, spesso di manufatti appartenenti al territorio extraurbano, e prodotti da - o appartenenti a - una società da noi lontana almeno un secolo, ancora ottocentesca.
Il Novecento, il secolo in cui vive il legislatore, è evidentemente considerato troppo prossimo, e per giunta è gravato da un giudizio politico-sociale negativo, che condiziona la valutazione estetica: un giudizio negativo sul ventennio fascista prima, poi sulla ricostruzione postbellica, effettuata con criteri quantitativi e non qualitativi, e infine sull'industrializzazione e sull'espansione urbana che hanno spopolato prima, e poi alterato, la campagna. Cosa tanto più grave in quanto il paesaggio è per comune opinione una questione rurale. Chi mai parla di paesaggio urbano, fino all'ultimo quarto del secolo XX, quando il tema entra in campo, in larga misura grazie a fotografi come Paolo Monti? È Monti a definire, con il lavoro sul centro storico di Bologna, il primo concetto di paesaggio urbano del Novecento italiano, se intendiamo una rappresentazione che integra la veduta della pittura e della fotografia storica con l'idea del progetto urbanistico.
È solo nel 2000, e peraltro in ambito non italiano ma europeo, che si comincia a legare il paesaggio anche a questioni antropologiche e non solo estetiche, al Novecento e non solo alla storia. Il nostro paese non compie questo passo da solo, è troppo coinvolto nella tutela del proprio straordinario patrimonio storico-artistico. All'estero, e particolarmente in Francia, si è già cominciato da diversi anni a indagare lo stato del paesaggio senza distinguere tra temi alti e bassi: già tra il 1984 e il 1985 - quando in Italia esce appunto la legge Galasso - la DATAR (Délégation à l'Aménagement du Territoire) affida a un nutrito gruppo di fotografi internazionali un'imponente azione di verifica del paesaggio, soprattutto di quello rurale e naturale, ma anche di quello urbano - la banlieue parigina - e di quello industriale interessato dai processi di dismissione e riconversione. Questo modo di tenere insieme urbano e rurale, storico e recente, compromesso e integro, eccellente e ordinario, il modo che oggi orienta le azioni dei principali organismi europei e internazionali, era dunque già presente nell'approccio francese quando era assente in quello italiano.
La Società geografica italiana, nel suo rapporto 2012 intitolato I nuovi spazi dell'agricoltura italiana, parla dell'importanza di trovare nuovi usi per le aree agricole interstiziali, sempre più ricercate per trasformarle in giardini e orti didattico-terapeutici, parchi agricoli, fattorie urbane. Queste pratiche dimostrano in concreto l'avvenuto assorbimento, anche da noi, di un'idea che non è stato facile accettare. Abituati come eravamo a distinguere rigidamente tra città e campagna, secondo gli studi di Emilio Sereni e di Lucio Gambi, prendiamo atto che esiste invece una terza tipologia di territorio, mista, dove i caratteri originari dell'uno e dell'altro spazio sono strettamente intrecciati. La stessa Commissione europea parla di ambiti che non sono urbani né rurali: è la regione intermedia, dove la popolazione rurale è tra il 20 e il 50% della popolazione totale. L'idea di città metropolitana bolognese maturata nei due decenni che seguono la legge istitutiva del Novanta, l'idea di farla coincidere con il territorio provinciale, delinea un ambito con caratteristiche molto simili a questa terza categoria, né urbana né rurale, uno spazio fisico con caratteri di ibridità, soprattutto in termini paesaggistici.
Naturalmente è anche per queste ragioni strutturali che nascono i nuovi principi della "Convenzione europea del paesaggio" del 2000. Per questo essa introduce un'attenzione originale verso i paesaggi ordinari, esprimendo il principio per cui, oltre a tutelare e conservare i paesaggi eccellenti della nazione, l'attività delle istituzioni deve tendere a qualificare i luoghi percepiti come identitari dalle popolazioni, a prescindere da una loro eccezionale qualità estetica, che può essere assente. In Italia, il "Codice dei beni culturali" fa riferimento alla convenzione europea solo nel 2004, e introduce nell'ordinamento italiano l'idea del paesaggio come costruzione collettiva: il paesaggio può essere - come si diceva all'inizio - tutto ciò che una comunità sente e giudica come tale.
Le nuove aperture normative tendono insomma a spostare l'equilibrio, della pianificazione prima e del controllo poi: dall'azione di tutela-repressione degli abusi compiuti su beni eccezionali, appartenenti a elenchi e vincolati, all'attività di valorizzazione-impulso al miglioramento e alla trasformazione controllata di ambiti costituiti da oggetti di qualità variabile. Assume un ruolo molto più determinante di prima il sentimento della popolazione, a temperare l'autorità assoluta delle istituzioni competenti. Per questo la Commissione europea insiste sulla necessità di sensibilizzare al paesaggio, facendone addirittura una sfida per il XXI secolo, anche in riferimento alle potenzialità economiche insite nella qualità paesaggistica, che è riconosciuta quale elemento imprescindibile per lo sviluppo del turismo. E sottolinea la necessità crescente di educazione, di formazione, di informazione sui temi della qualità del paesaggio, soprattutto presso le giovani generazioni e nelle scuole.
La sensibilizzazione avviene anche nel momento in cui si partecipa ai processi decisionali. E infatti la partecipazione, che nell'ultimo decennio è diventata una pratica necessaria del progetto urbanistico, viene ora a giocare lo stesso ruolo nel campo della tutela-valorizzazione del paesaggio. Cito a titolo di esempio il caso della legge regionale 16 del 2002 dell'Emilia-Romagna, che anche per applicare i princìpi della convenzione europea introdusse il concetto di demolizione di opere definite "incongrue" con il paesaggio, invitando le comunità a riflettere su questo termine e a declinarlo in modo autonomo e approfondito. Per indicare possibili modelli operativi al riguardo, a suo tempo l'IBC commissionò una campagna fotografica pubblica, d'intesa con alcuni comuni, diversi per collocazione geografica e dimensione demografica, con l'obiettivo di ragionare sugli elementi di incongruità paesaggistica presenti nei loro territori. A parte i casi di evidenti dissonanze estetiche con il contesto - quegli edifici che con termine giornalistico vengono definiti "ecomostri" - già allora emerse in modo chiaro che forse la percezione di incongruità più diffusa è proprio il diffondersi di queste zone ibride un po' su tutto il territorio: una città slabbrata, disordinata, scadente, che copre progressivamente il terreno che era agricolo e ne dissolve l'immagine. Richard Ingersoll l'ha definita sprawltown, noi potremmo tradurre "città dispersa".
Lo stile di questa città è composto di ingredienti insipidi, se non proprio sgradevoli: disordine visivo, bassa qualità formale, marginalizzazione degli spazi pubblici, strade ridotte a scorrimento di traffico o a luoghi di sosta, e via elencando questioni che sono quotidianamente sotto gli occhi di tutti. Questo blob urbano, crescendo, non si è diffuso soltanto verso la campagna ma anche verso il centro della città, e tende a uniformare l'immagine di spazi che avevano caratteri molto diversi e riconoscibili. Le strade, le facciate degli edifici, le piazze, gli spazi pubblici della città storica, per più di una ragione, assomigliano sempre di più alle aree marginali della città metropolitana. Soprattutto per la mancanza di cura del bene comune, un tema sempre più evidente e dannoso, che infatti è stato recentemente affrontato dal Comune con l'emanazione di un regolamento apposito.
Sta di fatto che i rimedi contro questi mali non possono essere quelli che si usavano nel passato. Rispetto alla cultura della città storica che abbiamo ereditato dagli anni Settanta, molte cose sono cambiate. A quei tempi si doveva contrastare il "degrado" inteso come scadente qualità edilizia, connessa il più delle volte a livelli sociali e a condizioni di vita di livello scadente, un sottoproletariato urbano del centro storico.
Oggi le cose sono diverse: la qualità edilizia è di solito buona, il recupero del patrimonio immobiliare in quarant'anni ha raggiunto una copertura estesa (è il fenomeno della cosiddetta gentrification), anche se nel frattempo è diventato desueto e dismesso quello industriale e militare. La quasi totale assenza della residenza in alcune zone del centro, e la presenza ai piani terra di attività commerciali praticamente esclusive, fanno però sì che alla chiusura dei negozi il centro si desertifichi, con i conseguenti fenomeni di insicurezza, di violenza potenziale o reale. Gli studiosi del fenomeno dell'"anticittà" - quell'antagonismo distruttivo che trova poi nei writers i testimoni più noti - la mettono in diretta relazione proprio con la gentrification. La frustrazione degli esclusi si trasforma in antagonismo. E viene da chiedersi se non si debba almeno in parte tenerne conto, cercando di attenuare l'eccessiva aspirazione a un'anacronistica cultura del bello classico, dell'ordinato, del perfetto, che a volte sembra orientare anche restauri troppo altisonanti e forse poco allineati a concetti di sostenibilità.
Il problema di oggi non coincide più con la necessità di preservare fisicamente il patrimonio culturale: sono molti i palazzi storici perfettamente restaurati ma vuoti. Oggi ciò che sembra interessare sempre di più la popolazione è il recupero di legami personali e sociali (come è testimoniato dal proliferare di social streets), la creazione di nuove forme di comunità, per reagire contro l'isolamento. Aumenta la domanda di un nuovo urbanesimo del quotidiano, dove hanno importanza le piazze, le strade, gli spazi comuni, a prescindere dal loro tasso di qualità architettonica o di rappresentatività tradizionale; anzi, la globalizzazione, il multiculturalismo, l'inclusione sociale, portano verso un profilo generale, privo di eccessivi simbolismi estetici.
La città europea è diventata un grande accampamento, è il luogo dell'adattamento, dove si coabita. Il principio di differenza e di varietà che storicamente operava per grandi porzioni di spazio (quartieri ottocenteschi, aree produttive, periferia pubblica, centro storico) oggi opera per unità: condominio, centro commerciale, villetta, autolavaggio, svincolo della tangenziale, dando un senso di frammentazione molto maggiore di prima, e difficilmente ricomponibile. È un fenomeno che già un ventennio fa, nel 1995, Rem Koolhaas descrisse in S, M, L, XL, definendolo come "città generica".
Tutti i maggiori studiosi contemporanei della città - Manuel Castells, David Harvey, Saskia Sassen, Richard Sennett, Mike Davis - sono d'accordo nel riconoscere l'inadeguatezza di un punto di vista unitario sulla città, e hanno preso atto della compresenza di classi, gruppi sociali, etnie, culture diverse, del contrasto tra ricchezza eccessiva e povertà estrema, delle molteplici temporalità e spazialità degli stili di vita urbani. Le città non sono più sistemi dotati di coerenza interna, ma altrettanti insiemi di processi disgiunti, difficili da ricondurre l'uno all'altro. Sono luoghi di eterogeneità sociale, di connessioni vicine e lontane, una concatenazione di ritmi in movimento verso direzioni diverse e spesso contrastanti. Se la realtà è questa, bisogna riconoscere che governarla è molto più complesso di prima. La teoria della città come organismo - che attraverso il pensiero dell'urbanista scozzese Patrick Geddes e dell'americano Lewis Mumford ha dato vita all'urbanistica moderna, e che si basava su concetti come comunità, quartiere, ricerca della dimensione ottimale e delle giuste gerarchie delle reti e delle parti - è giunta probabilmente al tramonto.
E tuttavia si tende a voler rimuovere da noi l'esperienza della città generica, a considerarla come un infortunio da cui occorre risollevarsi in fretta, aspirando a valori estetici, di ordine, equilibrio, lentezza, eleganza, valori forse difficilmente realizzabili. Ci sono, è vero, esperienze concrete in questa direzione: per esempio, a Parigi, dal settembre del 2013, in alcune zone sono stati introdotti per le auto limiti di velocità a 30 e perfino a 20 chilometri orari. Ma molti strumenti progettuali che gli urbanisti degli anni Ottanta e Novanta consideravano utili per ridare unitarietà all'immagine frammentata della città - piani del colore, delle pavimentazioni, dell'arredo urbano - sembrano esser stati ormai dimenticati, forse proprio per le difficoltà estreme nel condividerli, nell'adottarli, nell'attuarli.
Restano però radicate alcune convinzioni: i muri dell'urbs continuano per molti a esprimere il sentimento che non si può essere uomini se non si è cittadini. La città è l'espressione visibile della nostra identità. Ecco perché sulla forma della città si litiga tanto ancora oggi. In cima alla scala dei valori percepiti c'è quello dell'horror vacui: i vuoti intaccano la compattezza, che è uno dei valori primari della città. La compattezza è vista come bellezza: tutti i regolamenti urbanistici, da sempre, fin dal medioevo, impongono di costruire, ricostruire, risanare. La città deve essere mantenuta densa, efficiente.
E l'efficienza ha una sua immagine propria, quella dell'ordine visivo. Infatti, a ondate cicliche, emergono questioni di cui si parla a lungo, ritenute sintomi di un disordine che offende: le scritte sui muri, i dehors. Si emanano regolamenti, si studiano azioni correttive. Ce n'è una serie quasi interminabile: il controllo elettronico degli accessi e della sosta; la riduzione dei posti auto e moto; il riposizionamento e la razionalizzazione della segnaletica (sia stradale che turistica); la rimozione dei supporti inutilizzati; l'aumento dei punti luce e l'inserimento di nuovi elementi di light design; l'adozione di linee guida per la progettazione delle vetrine, per la pavimentazione stradale e per quella dei portici; la sostituzione dei cassonetti con isole ecologiche, e quella dell'asfalto con granito o porfido nelle strade non soggette al passaggio del trasporto pubblico; le indicazioni relative a colori, materiali e dimensioni degli oggetti di pubblica utilità; la pulizia delle scritte sui muri; l'elaborazione dei piani del colore delle facciate; la regolamentazione della pubblicità nelle recinzioni dei cantieri e nel paesaggio urbano; gli strumenti di comunicazione, sia tradizionale che digitale.
Sono forse troppe cose, per tempi di scarse risorse e di debolezza delle amministrazioni pubbliche. Si fa strada sempre di più, nel campo del progetto urbano, la filosofia lighter, cheaper, quicker, come reazione rispetto alle pachidermiche attuazioni - o inattuazioni - dei grandi progetti degli anni Novanta. Il ruolo del progettista ne esce certamente ridimensionato, trasformandosi in un tipo di prestazione più vicina a quella curatoriale: una sorta di regista che coordina attori vari, che tiene i fili esercitando la propria sapienza tecnica e la conoscenza di procedure.
Bisogna decostruire le vecchie categorie mentali usate per descrivere la città e i suoi spazi, cestinando l'idea funzionalista che ha governato e modellato la città fino a oggi attraverso politiche dall'alto, adottando invece politiche dal basso, attraverso pratiche che rendano le città vivibili. Si fa strada la convinzione che il degrado urbano sia il prodotto e la causa dello scarso coinvolgimento dei cittadini nella progettazione e nell'erogazione dei servizi locali. La diffusione su larga scala di forme di adozione degli spazi verdi e i regolamenti comunali per favorire la creatività urbana attraverso l'affidamento temporaneo dei "muri legali" a giovani esponenti della street art sono piccoli ma decisivi passi.
Alla "Biennale Architettura" del 2012 il padiglione degli Stati Uniti ha mostrato 124 casi di "Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good": il tactical urbanism esprime l'esigenza di una nuova partecipazione democratica, non più mortificata dall'acquiescenza eccessiva dell'urbanistica tradizionale alle ragioni del mercato immobiliare (un crollo di credibilità avvenuto già negli anni Novanta, e dovuto all'inflazione normativa e alla ridondanza di verifiche quantitative, senza alcuna attenzione alla creatività). Blog e social network hanno facilitato l'espressione del dissenso: le tecnologie informatiche hanno reso accessibile e sempre più conoscibile lo spazio urbano, le amministrazioni hanno moltiplicato la disponibilità in rete di open data, si è creato un flâneur virtuale che visita continuamente la città e si interroga su come possa essere migliorata.
L'attenzione di questi gruppi di cittadinanza attiva si è via via rivolta non solo agli spazi pubblici veri e propri, ma a luoghi banali: aree vuote non compiutamente progettate, marciapiedi, cortili, aree di parcheggio; si sottolinea, anche in questo modo, l'importanza degli anonimous patterns nello sviluppo della heritage identity, che spesso è associata soltanto con le strutture monumentali. Bisogna invece tenere conto che anche lo spazio urbano informale ha un suo ruolo preciso nella città, non deve essere distrutto solo perché non progettato, soprattutto se si considera che oggi noi apprezziamo tessuti storici dalla genesi del tutto identica.
La costruzione collettiva del paesaggio urbano, quello più popolato, più fruito, più discusso, è probabilmente una strada che potrebbe poi essere replicata in altre parti del territorio, magari con altri metodi, ma sostanzialmente con la stessa filosofia.
Nota
Ringrazio Luisa Bravo per i suggerimenti e per gli spunti tratti in particolare da:
L. Bravo, Spazi urbani e vita pubblica. Azioni ed esperimenti di social engagement, in Città Open Source. Spazio pubblico, network, innovazione sociale, a cura di I. Vitellio, atti del workshop "Biennale dello Spazio Pubblico 2013", "Urbanistica Informazioni. Dossier on line", 2014, 6, pp.114-118 (www.urbanisticainformazioni.it/-006-.html); L. Bravo, C. Carmagnini, N. Matityahou, Ligther, quicker, cheaper: towards an urban activism manifesto, in Il governo della città nella contemporaneità. La città come motore di sviluppo, a cura di F. Sbetti, F. Rossi, M. Talia, C. Trillo, "Urbanistica Informazioni. Dossier on line", 2013, 4, pp. 33-36 (www.urbanisticainformazioni.it/-004-.html).
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