Rivista "IBC" XXI, 2013, 3

biblioteche e archivi / convegni e seminari, didattica, interventi

Gli archivi raccontano come e perché, durante il ventennio fascista, la scuola italiana propagandò l'idea che la guerra fosse una condizione naturale, inevitabile, persino positiva, della vita nazionale e dei rapporti tra nazioni.
Una cattiva educazione

Gianluca Gabrielli
[dottorando in Storia dell'educazione all'Università di Macerata]

Il 9 maggio 2013, a Bologna, nell'ambito di "Quante storie nella Storia - XII Settimana della didattica in archivio", si è tenuto un seminario di studio sulla funzione propagandistica svolta dalla scuola italiana a favore della guerra duran te il ventennio fascista. Il seminario, "Echi di guerre a scuola", è stato promosso dalla Soprintendenza archivistica per l'Emilia-Romagna, dalla Soprintendenza per i beni librari e documentari della Regione Emilia-Romagna e dalla sezione regionale de ll'Associazione nazionale archivistica italiana, in collaborazione con il Centro italiano di documentazione sulla cooperazione e l'economia sociale. Pubblichiamo una sintesi dell'intervento di Gianluca Gabrielli, dottorando in Storia dell'educazione a ll'Università di Macerata.


Enzo Traverso ha definito gli anni che vanno dal 1914 al 1945 come l'epoca di una "guerra civile europea" che ha "profondamente modellato le mentalità, le idee, le rappresentazioni e le pratiche dei suoi protagonisti". Non si fa fatica a cercare l a conferma di questa affermazione; infatti le dimensioni inedite e drammatiche assunte dalle due guerre mondiali presero alla sprovvista le stesse gerarchie politiche e militari preposte alla preparazione e conduzione del conflitto. La partecipazione alla guerra, che fino ad allora era rimasta in gran parte appannaggio degli "specialisti" militari e confinata alla linea del fronte, si estese come mai in precedenza, arrivando a coinvolgere le intere popolazioni dei paesi belligeranti (i civili oltr e ai combattenti, la produzione oltre alle forze armate), rendendo così di importanza strategica anche la mobilitazione del fronte interno.

Le nuove tecnologie impiegate, dotate di potenza distruttiva incomparabilmente superiore rispetto al passato, produssero laceranti sconvolgimenti nella vita degli individui e delle società europee e trasformarono potentemente le modalità della partecipazione degli uomini al conflitto, convertiti sempre più in appendici dei sistemi d'arma e sempre più annullati nella manifestazione del valore individuale.


In questo contesto in Italia, nel 1922, prese il potere il fascismo, che si affermò presto come una dittatura liberticida e proiettata verso una politica di espansionismo imperialista. Il regime considerava l'esperienza della Prima guerra mondiale come parte fondante della propria identità e si impose presentandosi come movimento rigeneratore della nazione anche attraverso l'esaltazione del bellicismo e tramite la militarizzazione di settori importanti della vita pubblica. In Italia, quindi, q uesta prima parte del secolo dalle forti accentuazioni belliciste trovò un interprete politico che, giunto al potere, ne incarnò in gran parte le istanze e fece di tutto per accentuarne i toni.

Durante il ventennio fascista, così, numerosi elementi del contesto politico contribuirono a rafforzare in Italia l'idea che la guerra rappresentasse una condizione naturale, fondamentalmente positiva, o comunque inevitabile, della vita naziona le e dei rapporti tra le nazioni.

Già l'affermazione del regime era stata tributaria dell'uso sistematico della violenza delle squadre fasciste contro gli avversari politici; l'organizzazione dello squadrismo sulle suggestioni del corpo d'assalto degli "Arditi" attivo durante l a Prima guerra mondiale trasferì le modalità di combattimento spietato dalle trincee alle vie cittadine, rivolgendole contro i "nemici interni" incarnati dagli avversari politici e sindacali e dagli oppositori del regime, facendo della violenza politi ca il caposaldo dell'idea di rigenerazione patriottica.

Esauritasi la fase squadrista, intervenne poi la costituzione stessa del regime a esaltare e finalizzare alla guerra gran parte della politica nazionale; basti pensare alla campagna di crescita demografica e di sostegno alla maternità condotta non per tutelare madri e bambini, bensì in funzione di un accrescimento della potenza militare e imperialistica della nazione (nel 1927 Mussoolini afferma: "Pregiudiziale della potenza politica, e quindi economica e morale delle Nazioni, è la loro pot enza demografica"). A conferma di questo progetto inoltre, fin dalle operazioni militari in Libia negli anni Venti e poi soprattutto dalla conquista dell'Etiopia nel 1935-1936, la politica estera bellicista e revisionista contribuì fortemente a sconvo lgere i fragili equilibri internazionali e a condurre l'Europa alla catastrofe della Seconda guerra mondiale.

Su questo sfondo il regime operò per riorganizzare il sistema educativo nazionale al fine di renderlo funzionale ai nuovi "destini imperiali". Non si trattava cioè semplicemente di potenziare l'esaltazione patriottica di matrice risorgimentale che aveva accompagnato la prima fase di costruzione dell'identità nazionale, tra l'Unità e la Prima guerra mondiale. In questo nuovo contesto, per il regime si trattava di costruire un "italiano nuovo", curandone e controllandone l'educazione fin dall a tenera età, in modo che maturasse in sé un'immagine positiva della guerra come affermazione non degli individui ma della collettività subordinata al duce, realizzando i destini della nazione e coltivando la potenza fisica, morale e in un certo senso biologica della stirpe.

Per raggiungere questi fini non era più possibile operare la trasformazione solamente all'interno dei canali tradizionali - che pure furono usati - come la riscrittura dei programmi e dei libri di testo. Si trattava di una trasformazione più am pia, che non poteva che coinvolgere la stessa struttura organizzativa dell'educazione nazionale al fine di ottenere una piena militarizzazione dell'infanzia.


L'intervento in questa direzione fu particolarmente precoce. Già all'indomani della marcia su Roma fu nominato sottosegretario all'Istruzione Dario Lupi, fascista militante, che, attraverso un fitto e oculato lavoro di circolari, promosse numerosi interventi di cambiamento nella vita quotidiana della scuola, molti dei quali orientati proprio al rafforzamento delle ritualità relative al ricordo della Grande guerra e alla sua fascistizzazione.

Fu lui che istituì i "parchi della rimembranza", giardini cittadini in cui piantare alberi destinati ognuno a ricordare un caduto del primo conflitto mondiale; Lupi riuscì a innestare un culto sacralizzante sull'enorme quantità di lutti che att raversavano tante famiglie italiane; questa nuova forma di religiosità politica coinvolgeva le scolaresche di tutta Italia, attraverso la gara a essere nominati a far parte della guardia d'onore, riservata agli alunni maschi più meritevoli.

In breve tempo questa commemorazione incluse tra i nomi dei martiri celebrati anche i "caduti della rivoluzione fascista", cioè gli squadristi morti nel contesto degli scontri del periodo 1919-1922. Le scuole, quindi, divenivano le custodi del culto dei martiri della Grande guerra e della rivoluzione fascista, e inauguravano una ventennale presenza organizzata nelle piazze, reiterata secondo il calendario politico del fascismo e volta a mostrare l'obbedienza disciplinata dei corpi degli sco lari al progetto totalitario.


Un secondo elemento cruciale fu l'istituzione dell'organizzazione giovanile del regime, l'"ONB - Opera Nazionale Balilla" (poi "GIL - Gioventù Italiana del Littorio"), che affiancò e allargò l'ambito di competenze della scuola costituendone allo s tesso tempo la palestra e la caserma. Se la scuola tout court non poteva venire trasformata in caserma, era però possibile, mutando di segno le esperienze laiche e religiose dei boy scout, istituire una "caserma" collegata all'istituzione sco lastica e finalizzata alla gestione del tempo libero e dell'attività fisica delle giovani generazioni: all'ONB fu infatti affidata l'educazione fisica degli alunni, fortemente orientata verso le forme della preparazione premilitare.

Le esercitazioni sportive si alternavano agli schieramenti e alle marce coreografiche in cui i bambini e le bambine dovevano dare prova della propria obbedienza disciplinata agli ordini degli educatori o dei capisquadra. Le iniziative pubbliche del regime erano il momento in cui questa preparazione trovava la propria realizzazione pubblica. La divisa, tipica dell'istituzione militare, era uno dei cardini della frequentazione dell'Opera Nazionale Balilla, codificata e obbligatoria nelle pubb liche celebrazioni. L'altro oggetto fondamentale di questa appendice della vita scolastica era il moschetto, fucile in dotazione ai fanti della Prima guerra mondiale, che costituiva lo strumento per eccellenza della preparazione degli allievi più gran di; per i piccoli esistevano le riproduzioni in legno, quasi un'istituzionalizzazione del gioco della guerra all'interno di una grande caserma parascolastica gestita direttamente dal regime.

A queste attività partecipavano anche le bambine, le cosiddette "piccole italiane"; anch'esse erano dotate di una divisa e prendevano parte alle medesime coreografie, ma il modello educativo a cui erano indirizzate era quello ritenuto tipico de l genere femminile, in funzione non certo militare, semmai materna e di supporto dei ruoli maschili: come madri e infermiere.

Comune ai maschi e alle femmine era il contenuto educativo fondamentale dell'organizzazione balillistica: lo spirito gerarchico e l'esaltazione dell'obbedienza cieca ai superiori. Se la caserma, infatti, storicamente assolveva il ruolo di agenz ia specializzata all'"obbedir tacendo", solamente l'ONB, con i suoi capi selezionati tra i militanti fascisti più convinti, poteva trasmettere alle giovani generazioni l'esaltazione di questo annullamento individuale nel gruppo e nella subordinazione gerarchica verso un capo (e, per successive mediazioni, verso Mussolini, capo supremo).


Mentre la "caserma" dell'Opera Nazionale Balilla operava parallelamente alla scuola, con finalità più dirette ed esplicite, la scuola stessa a sua volta si sarebbe trasformata integrando progressivamente, nei propri testi e programmi didattici, gl i elementi dell'ideologia fascista, e tra essi coltivando il militarismo e il bellicismo.

Nell'anno scolastico 1934-1935, per esempio, prima della guerra di invasione dell'Etiopia, fu introdotta una nuova materia di studio, la "Cultura militare", per l'ultimo anno delle scuole medie inferiori e per i primi due delle superiori. Veniv a insegnata per 20-30 ore annuali da ufficiali attivi o della riserva e costituiva il curricolo di formazione teorica su temi come le forze armate, la cartografia, le armi e il tiro, le caratteristiche della guerra antica e moderna. Riservata esclusiv amente ai maschi, era finalizzata a elevare la preparazione del cittadino-soldato e a diffondere una disposizione morale alla vita militare e al combattimento.

Oltre alla materia specifica, però, la cultura bellica penetrò anche in modo indiretto nei curricoli delle più disparate materie di studio. Non solo l'italiano, le letture, la storia, ma addirittura la matematica. Per esempio, nel sussidiario d i Bonomi del 1941, tra i numeri che si invitano i bambini a trascrivere in cifre si trova: "milleundici, furono le mitragliatrici catturate al nemico durante la vittoriosa guerra italo-etiopica"; tra gli oggetti da misurare troviamo il "moschetto Bali lla"; tra i problemi inclusi nel sussidiario di Armando dello stesso anno troviamo: "un proiettile tra i più piccoli per cannoni di medio calibro ha il raggio della base di millimetri 105. Quanti centimetri è la circonferenza?".

Non si trattava quindi solamente di "insegnare" la perizia bellica, aspetto pure ritenuto importante, ma di infondere uno spirito generale, in modo che la guerra e i suoi strumenti fossero percepiti come naturali attività dell'uomo. Proprio in questo senso vanno lette le esemplificazioni matematiche di questo spirito bellicista: non solo forzature ideologiche, ma espressioni ormai ordinarie di una quotidianità scolastica che andava introiettando la naturalezza della guerra.

Si trattò di un caso unico in Europa nella sua pervasività e nella potenza dispiegata, paragonabile solamente a quello espresso dalla Germania nazista. Solo analizzando approfonditamente la dimensione educativa di questa trasformazione antropol ogica degli italiani si può comprendere la "disponibilità" della popolazione alla mobilitazione bellica senza precedenti che coinvolse la popolazione italiana dal 1935, senza interruzione, fino alla catastrofe della Seconda guerra mondiale.


Bibliografia

E. Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Bologna, il Mulino, 2007.

A. Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Torino, Einaudi, 2005.

La scuola fascista. Istituzioni, parole d'ordine e luoghi dell'immaginario, a cura di G. Gabrielli e D. Montino, Verona, Ombre corte, 2009.

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