Rivista "IBC" XXI, 2013, 2
biblioteche e archivi / inchieste e interviste, pubblicazioni, storie e personaggi
Già direttrice di alcune delle maggiori biblioteche italiane (tra cui la Nazionale di Firenze, la Palatina di Parma e l'Universitaria di Bologna), Carla Guiducci Bonanni ci ha lasciati lo scorso marzo. La Soprintendenza per i beni librari e documentari dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, memore della proficua collaborazione, la ricorda qui con alcuni passi tratti da La memoria è il futuro dei libri,1 il libro-intervista curato da Luca Nannipieri che prende le mosse da un evento-chiave della storia italiana: la disastrosa alluvione di Firenze del novembre 1966.
Entriamo [...] nel dettaglio di quell'immane lavoro che fu recuperare i volumi e i manoscritti alluvionati. Cosa significò restaurare un'enormità di libri e di opere?
Dopo Forte Belvedere, i volumi furono pian piano riportati nella Biblioteca Nazionale, dove fu istituito un laboratorio articolato di restauro, che per fortuna è poi divenuto permanente. Il laboratorio era composto inizialmente dalle persone più disparate, operai, studenti, carpentieri, meccanici, cioè dalle persone che erano rimaste senza lavoro e spesso senza soldi o casa a causa dell'alluvione e cercavano un'occupazione per continuare a vivere. Pochissimi tra loro avevano qualche specifica nozione, per cui il nostro lavoro fu di organizzare questa catena umana di non professionisti che lavavano i libri, li curavano, li rattoppavano, li legavano e ricollocavano sugli scaffali seguendo un ordine di segnatura. Io stessa ero del tutto a digiuno di che cosa significasse "restaurare" avendo fino ad allora prestato la mia opera nel settore della soggettazione. Lo imparai sul luogo, nell'azione, lavorando, mettendo in pratica i consigli preziosissimi dell'esperto team inglese. L'Inghilterra era, e forse è tuttora, molto avanti a noi nella conservazione.
Con l'alluvione eravamo a digiuno di qualsiasi conoscenza pratica e tecnica nella conservazione della carta. Dovevamo improvvisare con quanto si sapeva superficialmente: per esempio per rinforzare la carta si usavano pesanti velature e colla non reversibili. Era inoltre nostra consuetudine curare soltanto i pezzi più importanti e rari, trascurando del tutto il restante materiale. La cura era mirata soltanto a opere-icona, non era a largo raggio, con la conseguenza che le opere ritenute di maggior pregio erano abbellite e sorvegliate, le altre erano pian piano offese dall'incuria e dal tempo. L'alluvione ci insegnò a salvare anche il foglietto promozionale, perché la memoria di una civiltà passa anche attraverso i materiali ritenuti di passaggio o minori. Inoltre - e fu una lezione che mettemmo a frutto - i restauratori inglesi ci insegnarono che tutti i passaggi nel restauro devono essere reversibili. L'idea della reversibilità fu un concetto apripista nella conservazione, perché si capì che ogni azione sul pezzo originale è per necessità invadente ma non deve essere un'aggiunta incontrovertibile. In ogni momento occorre che il pezzo possa ritornare alla sua originaria integrità.
La figura del bibliotecario conservatore si è ampliata: non era necessaria soltanto una competenza bibliografica - umanistica o scientifica che fosse - ma anche una consapevolezza nella conservazione del materiale. Un volume antico ha le sue malattie, come tutti i vecchi, e perciò deve essere monitorato. Se non sei preparato sui dati che devi rilevare (per esempio l'umidità della carta, la nascita di muffe e funghi sulla pagina), rischi di non vedere una degradazione incipiente. È vero che si apprendono sul posto queste competenze, ma una certa attitudine di base all'attenzione di questi fattori ambientali e fisiologici deve essere richiesta. Il bibliotecario non deve curare le muffe ma deve saperle identificare: non si deve fare il medico dei propri figli, ma essere pronti a consultare il medico se si sentono male.
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Perché una città, una nazione, una civiltà, ma anche un piccolo borgo di montagna conserva i propri libri? [...] Perché gli uomini mantengono le testimonianze del loro passato?
La risposta sembra immediata: la memoria è ciò di cui siamo fatti. È ciò che va a costituire il modo con cui parliamo e pensiamo. Ma oltre a questa risposta di getto, vi è anche una ragione più profonda se ci riflettiamo bene, ed è questa: per quale criterio una civiltà che vuole conoscere sé stessa deve conservare uno scritto di Leopardi e di Dante in quanto capolavori e scartare o dimenticare i libri scolastici di fine Ottocento o un libro di ricette che è stato pubblicato adesso presso una tipografia sconosciuta? Chi ha detto che sono meno importanti? Sa quanto una civiltà può imparare e scoprire del proprio passato studiando e osservando i testi scolastici o i ricettari dei vari periodi storici o anche semplicemente un volantino di propaganda? Il modo con cui venivano scritti, il modo con cui venivano sistemate le figure, il modo con cui si decidevano i caratteri, le forme, le rilegature, la grandezza del volume, tutte queste componenti vanno a definire e, in certo qual modo, vanno a spiegare un tempo della nostra storia e lo diversificano apertamente da un altro.
Nella Biblioteca Palatina di Parma, di cui fui direttrice nel 1979, ti rendi conto, forse più che altrove, che cosa significhi l'importanza di conservare manoscritti e volumi. Nel suo catalogo c'è infatti una fondamentale sezione ebraica. Durante la Seconda guerra mondiale fu nascosta in una caverna sotto la città. Adesso, dopo i bombardamenti e le dispersioni, quel materiale è quanto resta della storia di tanti ebrei in Italia. Dove non fu fatta quest'operazione di salvataggio e di messa in custodia, le opere sono andate disperse. Pensa a quello che è successo in Germania o nei paesi occupati dal nazismo: una cancellazione capillare di memoria. Nessuna altra biblioteca italiana ha questa ricchezza di storia ebraica come la Palatina di Parma. Ci sono per esempio degli antichissimi contratti matrimoniali tutti miniati e tantissime famiglie ebraiche sono venute lì a ricercare le proprie origini.
Senza questi documenti, è come per un uomo avere l'alzheimer. L'alzheimer è un morbo che distrugge la memoria e tu vedi un signore di settant'anni che ha le caratteristiche di un bambino di tre anni. Non riconosce né le persone né gli oggetti: è come se non fosse mai vissuto. Eppure ha settant'anni. Ecco: la stessa cosa accade quando non conserviamo la memoria o la distruggiamo in guerre o dispersioni.
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Conservare un libro significa dunque curarlo, sorvegliarlo, accudirlo: fa quindi pensare a un compito tipicamente pubblico. Un manoscritto antico è un bene della civiltà, va conservato, e dunque lo Stato per primo deve provvedere alla sua tutela. Il privato, avendo sacrosante e proprie esigenze di profitto, come può entrare nella salvaguardia del patrimonio librario? [...]
[...] Sentirsi artigiano è il primo passo per essere un buon restauratore. Il privato ha necessità di guadagno, dunque non può avere i trattamenti più lenti del sistema pubblico. Uno studio privato di restauratore deve restaurare il pezzo entro un certo tempo. Nel sistema pubblico, davanti a un problema, ti puoi fermare per capire, per studiare le soluzioni. Il privato ha tuttavia un "punto" in più per la lunga tradizione di lavoro: per esempio, da Allegri, restauratore eccelso di Parma, abbiamo imparato che sarebbe un errore non apprezzare quanto e come i laboratori privati possono insegnare; così come sbaglierebbero quei restauratori che non accettassero di mettere a frutto la maggiore scientificità dei restauri effettuati in sedi pubbliche. Il privato ci ha sollecitato a nuove tecniche e ad accorciare i tempi del restauro.
Però occorre guardare anche l'Italia di oggi, non solo a quella del dopo alluvione. Ebbene il paese di oggi vede questa cura del libro molto trascurata. Nell'epoca della digitalizzazione e di internet, si è data enorme importanza a dare immediata visibilità, con intenti promozionali, a quello che le biblioteche posseggono: la quantità di libri in giacenza, la volumetria degli spazi, i servizi aggiuntivi, gli eventi collaterali, i settori di ricerca. Ma a fronte di tale pubblicitaria esposizione "mediatica", da dépliant comunicativo e seducente, vi è il contraltare di un personale sempre più esiguo, sempre più incapace di far fronte ai problemi dei servizi, in primis la conservazione. Le nuove tecnologie possono essere di estremo aiuto allo studente, allo studioso e al lettore attento. È importante e bello permettere di consultare manoscritti importanti, miniati, storici, a distanze fino a ora inimmaginabili, tramite il computer. Ma il virtuale è documentazione, informazione, immagine: non è l'originale con tutte le altre mille cose che un testo antico racconta con la sua carta, la legatura, le note... (Perché mai carovane di turisti si muovono migranti con la suggestione di un quadro, un affresco, una statua, una mostra, e verso un libro, verso un manoscritto miniato e antico, che è fonte di notizie uniche, invece no?).
Tuttavia pensiamo a quanto le nuove tecnologie abbiano aiutato l'integrazione dei diversamente abili che possono ora consultare materiali prima fisicamente proibitivi. Però, ripeto, a fronte di questo avanzamento, di questa operazione democratica e servizievole delle biblioteche, vi è un graduale e adesso molto preoccupante arretramento per quanto riguarda la custodia, la salvaguardia e la sorveglianza del materiale prezioso che possediamo. L'ultimo concorso pubblico è stato bandito molti - troppi - anni fa, e il numero degli operatori nel frattempo è in estinzione. Quando divenni direttrice della Biblioteca Nazionale di Firenze avevo come organico 370 persone. Era il 1988. Oggi sono 180. Ed è il 2011. Cioè, a più di venti anni di distanza, la biblioteca ha dimezzato il suo organico. Ma come può andare avanti bene un'istituzione senza persone? Come può proseguire il lavoro della Bibliografia Nazionale o dei laboratori quando anche l'ultimo "vecchio" bibliotecario se ne andrà in pensione?
Accanto alle indubbie luci di una generazione che come la mia ha durato fatica, ma ha avuto la capacità e la fortuna di realizzare una parte almeno delle molte trasformazioni richieste per allinearsi al progresso, sussistono le ombre di un incerto futuro la cui precarietà si annuncia inequivocabilmente da tanti segni. Ciò che rattrista profondamente è constatare l'impossibilità di trasmettere alle generazioni destinate a succedersi quanto in anni di lavoro è stato acquisito, soprattutto per quei settori particolarmente specializzati dove la professionalità si raggiunge con molti anni di applicazione. Non esiste al momento alcun programma di reclutamento organico a fronte di una pressante domanda di occupazione di molti giovani orientati proprio alla scelta del nostro lavoro: si sono aperte molte scuole dove anche la biblioteconomia ha avuto e ha grandi docenti (e fra questi ancora devo ricordare Diego Maltese), ma non si vede lo sbocco per queste professionalità. Il reclutamento è ancora e solo casuale, discontinuo e non tiene alcun conto delle mutate esigenze e dell'alta specializzazione richiesta in ogni livello.
Se non si riuscirà a ottenere, e in tempi stretti, una selezione articolata e complessa legata alla tradizione bibliotecaria, ma con tutte le implicazioni del nuovo rapporto con l'informazione, ogni sforzo per mantenere i nostri istituti bibliografici agli alti livelli che competono sarà davvero vano. [...]
Quando lei dirigeva le biblioteche, le uniche fonti di conoscenza su un autore o un fatto storico erano le enciclopedie o i libri che ne erano stati scritti. Adesso la prima fonte di conoscenza è accendere il computer e guardare su internet ciò che ci serve. [...]
Anzitutto farei una distinzione tra ricerca e informazione. La conoscenza avviene tramite la ricerca. L'informazione è un insieme di notizie che, di per sé, non garantiscono nessuna maturazione dentro di te. Tu ti informi degli orari dei treni, ma questo non aumenta la tua conoscenza, tanto è vero che, il giorno dopo, ti sei già dimenticato quegli orari e non lo senti come una mancanza. Ti serviva sapere quegli orari, ma non ti occorreva conoscerli, non ti occorreva nessuna conoscenza più approfondita in merito. Dunque, per parlare di conoscenza, facciamo questa distinzione: la ricerca è un processo disgiunto dall'informazione. E cosa distingue l'una dall'altra?
Internet è un esempio chiarissimo di tutto questo. Se vai su Google e cerchi Leonardo da Vinci, troverai tutto su di lui e queste informazioni sono utili e necessarie. Cioè l'informazione soddisfa una tua necessità immediata e momentanea: vuoi sapere quando è nato Leonardo da Vinci, vai su internet e lo trovi istantaneamente, senza dover andare a rintracciare nella biblioteca e nella libreria un libro dedicato a Leonardo con una sua biografia oppure una collana enciclopedica del sapere. Dunque internet istantaneamente ti fornisce l'informazione che volevi. E appena la conosci, essa si esaurisce. Su internet, dedicate alla mia persona, ci sono scritte alcune cose che ho fatto ma esistono moltissime altre cose che ho fatto e che non sono state riportate. Se ti informi soltanto su di me, il giudizio che avrai è il giudizio che hanno dato gli altri e che tu senza consapevolezza hai incamerato perché desideravi soltanto informarti. Se ti fermi alle notizie di me che trovi su Google, ti fermi a ciò che grossolanamente o meccanicamente è stato inserito sulla mia persona.
Mentre invece, se tu fai una ricerca, contatti le fonti originarie, le studi, le fotocopi, le compari, le scarti, le giudichi alla luce del tuo giudizio, cioè avvii un processo di conoscenza molto più complesso e articolato, approfondisci la tua consapevolezza su ciò che stai ricercando. A differenza dell'informazione che si brucia subito, che è funzionale a ciò che ti serve, la ricerca deve avere una forte motivazione per avvenire, deve avere una curiosità basilare, un input, un motivo iniziale che la matura: di conseguenza è attraverso la tua preparazione e la tua quantità di curiosità che si alimenta lo spirito della ricerca.
[...]
Apparentemente l'informazione su internet è a disposizione di tutti. Però, non sottovalutiamo questi eventi: un'insegnante di scuola assegna un compito su Chagall ai suoi alunni. Loro vanno a casa, accendono il computer, digitano Google, inseriscono la parola Chagall, e possono accedere immediatamente a una quantità enorme di informazioni sulla vita, sulle opere, sulla critica delle opere, addirittura sulle dicerie riguardanti la sua vicenda. Su Chagall come su qualunque cosa, dalle guerre mondiali alle muffe sopra il legno. I ragazzi dunque hanno subito a disposizione tutti i dati e le informazioni, ma ragioniamoci attentamente. Le informazioni che hanno non sono selezionate, non hanno avuto una direzione, non hanno avuto un filtro. Questi ragazzi stampano pagine e pagine dedicate a Chagall, posseggono un surplus di informazioni, ma le hanno ricevute senza effettuare alcuna analisi nella ricerca.
Non c'è stata applicazione, non c'è stato giudizio di merito, non c'è stata quella selezione del materiale che ti viene data dalla consapevolezza, ancorché adolescenziale, della ricerca e dei passi effettuati. Se con un tasto hai la soluzione, il tragitto per arrivare alla soluzione è stato scavalcato, cancellato, compresso dalla velocità e dalla semplicità di arrivo alla soluzione stessa.
[...] non è prevedibile che le biblioteche si riducano drasticamente nei prossimi decenni se i libri sono sempre piu a disposizione a prezzi ridottissimi o dati in abbonamento o in offerta con i quotidiani e i saggi scaricabili tranquillamente da internet o visibili su e-book?
Le biblioteche non scompariranno mai. Esistono ed esisteranno non soltanto per dare servizi ai cittadini ma per essere il giacimento di memoria di una civiltà. I cittadini possono anche ignorare questo piccolo dettaglio e ritenere le biblioteche dei luoghi con la polvere e un po' di muffa. Ma chi guarda con più consapevolezza al loro ruolo si rende conto che esistere per custodire le testimonianze scritte della vita attuale e passata non è secondario. Guardiamo i paesi nascenti dallo sgretolamento dell'Unione Sovietica: stanno conquistando pian piano barlumi di democrazia, ma buona parte della loro memoria scritta è stata dispersa nelle infinite e sanguinose guerre seguite al comunismo sovietico. Non caddero soltanto migliaia di vittime, ma fu dispersa anche una parte consistente del patrimonio del loro passato. E l'identità non la costruisci dal niente. La costruisci dalla semina che nel presente ha lasciato l'eredità scritta, artistica, legislativa, archivistica, del passato.
Quando diciamo che le biblioteche possono sparire, è come dire che Michelangelo e Raffaello possono sparire. Certo, possono sparire. Ma quanto viene perso in noi dalla loro sparizione?
Ai giovani non è stato insegnato ad avere rispetto per una certa memoria che si mantiene in un certo modo. E stato insegnato loro l'importanza della memoria artistica o archeologica: occorre che conoscano Leonardo, Botticelli, Simone Martini, Piero della Francesca, Beato Angelico, occorre che mostrino sensibilità per i quadri, gli affreschi, i mosaici, per il sito archeologico, per il fossile di dinosauro. Ma non è stata insegnata loro l'importanza della memoria libraria. L'importanza del volume in quanto tale. Del libro in quanto tale. Delle migliaia e milioni di libri che compongono il nostro esserci. Questi milioni di volumi non possono essere scambiati per un fascicolo o un romanzo dato gratuitamente con i quotidiani. La memoria che ti viene da milioni di volumi è garantita soltanto da quel luogo apparentemente inutile e sprecone che è la biblioteca, che li conserva e li rende fruibili.
Nota
(1) C. Guiducci Bonanni, La memoria è il futuro dei libri, a cura di L. Nannipieri, Pisa, Edizioni ETS, 2011, pp. 33-48.
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