Rivista "IBC" XXI, 2013, 2

territorio e beni architettonici-ambientali / immagini, mostre e rassegne, progetti e realizzazioni

Un progetto fotografico di Fabio Mantovani racconta sette grandi agglomerati architettonici di edilizia popolare italiana, da Bologna in su e in giù.
Cento case e un affresco

Sara Marini
[ricercatrice in Composizione architettonica e urbana presso l?Università IUAV di Venezia]

"Cento case popolari", il racconto fotografico realizzato da Fabio Mantovani, di cui "IBC" presenta qui alcuni frammenti, esplora sette grandi sistemi abitativi: Rozzol Melara a Trieste, Gallaratese a Milano, Forte Quezzi a Genova, Pilastro+Virgolone e Barca a Bologna, Corviale a Roma, Villaggio Matteotti a Terni.1 O forse, più precisamente, registra, attraverso cento scene, come le persone attraversano e abitano, oggi, architetture costruite quarant'anni fa per essere pezzi di città.

Le sette grandi "case" collettive sono interrogate quali esempi in cui verificare il rapporto tra progetto e vissuto, e lette attraverso uno sguardo che non costruisce risposte a priori ma che cerca, nel e oltre il pensiero architettonico, le tracce di un possibile elogio dell'ordinario. L'obiettivo coglie gesti quotidiani che convivono pacificamente, loro malgrado, con architetture-simbolo della storia del nostro paese, e non solo. Le architetture, se guardate da vicino, sembrano silenziose testimoni di storie anonime, di necessarie storie di vita.


Storia di un affresco

Il progetto "Cento case popolari" è stato allestito nel marzo del 2013 all'interno dello Spazio Lavì,2 in forma di affresco: veniva ribadita così la necessità non di documentare le architetture ma di ritornare su un'idea di architettura, ormai lontana ma tuttora abitata.

Cento scatti compongono un quadro atopico e relazionale: la posizione delle fotografie non è tesa a raccontare i singoli luoghi, ma una stagione precisa del progetto - in buona parte dettata dal Piano Fanfani del 1949 - apparentemente indifferente alle posizioni geografiche. All'osservatore è stato chiesto, prima, di perdersi nella grande scena, d'immergersi in un'idea comune, propria di un tempo preciso, e, solo in un secondo momento, di ricomporre l'immagine dei quartieri attraverso i singoli frammenti. I cento scatti erano disposti quali tasselli di un'unica rappresentazione e senza rispettare il racconto delle singole architetture: era possibile ritrovare le giuste appartenenze abbinando numeri e lettere, scritti per dettare colonne e righe, a una legenda esplicativa, seguendo la logica di una battaglia navale.

Così come Fabio Mantovani ha fissato alcuni dei momenti in cui architettura e abitanti decidono le reciproche posizioni, così l'affresco in mostra invitava a una partecipazione attiva. Al visitatore era data la possibilità sia di cogliere le assonanze di un tempo, gli echi di un pensiero che rimbalzano tra distanti città italiane, sia di trovare le differenti interpretazioni del senso dell'architettura che gli autori cercano di marcare con forza in occasioni che appaiono oggi accomunate da una fiera fiducia nel progetto, fiducia che sfocia in alcuni casi in cieca autonomia del segno. Il visitatore poteva quindi decidere consapevolmente di accogliere lo spaesamento, la moltiplicazione degli sguardi oppure ritrovare attinenze, ricostruire appartenenze, rintracciare il disegno della singola struttura.

La ricerca di Fabio Mantovani è un viaggio che muterà "contenuto" nel suo farsi: le cento case trovate ora diventeranno, nel tempo, ancora cento sguardi, ma su un numero sempre maggiore di architetture. Il prossimo allestimento di "Cento case popolari" - che si terrà nello spazio duepuntilab a Bologna nell'autunno del 2013 - vedrà riproposto l'affresco ma a commento di questo e dello stesso spazio espositivo verranno affissi una serie di scatti relativi allo Z.E.N. di Palermo, opera di Vittorio Gregotti,3 stampati come manifesti da strada. Le scene della grande "casa" siciliana entreranno così successivamente nella rosa delle cento fotografie scalzandone altre delle architetture più rappresentate. Il progetto procederà e si modificherà progressivamente attraverso altri nuovi ingressi, altri sguardi su architetture popolari, fino a far coincidere ogni singola immagine con un unico singolo luogo.

In un gioco di specchi, sia l'allestimento, che il progetto fotografico, che l'oggetto raccontato insistono sulla moltiplicazione delle situazioni e sul loro contemporaneo riecheggiare altrove, sul movimento cercato nella stasi o nella regola del numero fisso. In estrema sintesi si tratta del senso stesso di un affresco: ovvero quello spazio in cui complessità e trasformazione sono imprigionati in un'unica grande scena.


Ambiguamente: un pezzo di città e un'architettura

Nel momento in cui la diffusione orizzontale del sistema urbano è arrestata dalla crisi e, al contempo, non si producono idee di città, il progetto,4 la letteratura,5 e con questi anche chi costruisce narrazioni a partire dal reale, "ritornano" sulle grandi "case" collettive costruite tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo precedente. Si tratta di architetture legate tra loro da una visione di città, da una politica, soprattutto da un pensiero moderno comune e al tempo stesso sfaccettato; e poi ci sono gli ospiti di queste strutture, chi si è trovato per scelta o suo malgrado a viverle e abitarle.

Diverse direzioni sostengono questa attenzione in tutta Europa: un rinnovato interesse verso la densificazione e i modelli dell'abitare condiviso (sempre a fronte di ridotte possibilità economiche), un inarrestabile problema sociale che caratterizza la cattiva fama dei cosiddetti grandi "mostri" (come testimoniano le cronache delle banlieues parigine), l'aver raggiunto quella distanza temporale necessaria per rileggere criticamente un'eredità che in modo sempre più insistente chiede una presa di posizione se non un'azione (come, per esempio, la demolizione per le Vele di Scampia, o agognati recuperi, restauri, riutilizzi o riciclaggi).

Tale "ritorno" assume, nello sguardo di Mantovani, la lucidità della ricerca, senza indecisioni, di un possibile rapporto tra corpo e spazio: non ci sono protagonisti, ci sono relazioni a distanza. Gli abitanti intrappolati negli scatti sono i veri eredi, i veri interpreti di quella tensione verso la modernità, di quell'aspirazione dell'architettura, non sempre concretizzata, a partecipare al disegno urbano.

La possibilità di trovare cento case dentro un numero anche variabile di edifici, tutti appartenenti però al momento in cui le città italiane hanno costruito i propri monumenti all'abitare ensemble, sostiene il valore dello spazio, delle situazioni dell'oggi, oltre la testimonianza storica delle opere raccontate. Fabio Mantovani esplora quella che a distanza di quarant'anni possiamo definire una stagione eroica dell'edilizia pubblica o dell'edilizia per tanti (visto che non tutti gli interventi raccontati sono pubblici). È possibile affermarlo guardando a quello che in seguito è stato il destino progettuale e costruttivo delle case: se si supera appunto la distinzione tra investimento pubblico e privato, il tema dell'abitare, dopo questa vicenda, ha accolto o la via del buonsenso o quella della speculazione edilizia, perdendo tensione verso la ricerca di una traiettoria, di un sogno, di un ideale. Non c'è moralismo però negli scatti: l'architettura è lì a raccontarsi per quello che è oggi, colta nel suo essere nostalgicamente e ambiguamente epica, nel suo voler essere brano di città.

I progetti sono carichi di pensiero, un pensiero introverso, attestato sulle questioni dell'architettura e per questo poco interessato ai luoghi. Un pensiero volto a sancire posizioni che, se lette a posteriori e oltre alcuni distiguo evidenti, fanno di queste esperienze un'unica esperienza protagonista di una storia. Una storia incentrata su un'interpretazione del mestiere dell'architetto volonterosamente atto a dettare direzioni, spesso dimentico di accogliere complessità e contraddizioni.


Una pacifica convivenza

Se l'architettura è sorpresa nel suo attestare un'assoluta fiducia in sé stessa, nelle regole della razionalità, ma anche nella forza dell'invenzione, le persone che commentano la scena normalizzano ogni tensione: argomentano una pacifica convivenza.

Oltre le polemiche che hanno reso note queste architetture al grande pubblico quali condensatori di problemi sociali - con attacchi spesso inconsapevoli del peso impresso dalla collocazione urbana periferica della maggior parte di questi manufatti che nascevano quasi come nuove porte della città, o dimentichi dell'incompletezza dell'opera o ancora della "forzata" omogeneità sociale che li connota - Fabio Mantovani ritrova una vita "normale" costruendo un elogio dell'ordinario capace di addomesticare i cosiddetti "edifici-mostri" nostrani. La vita scorre tra le pieghe dell'architettura in un copione in cui si intrecciano la storia del progetto e la sua quotidiana occupazione. Gli spazi più metafisici sono accolti quali rifugi per la solitudine, l'intreccio dei percorsi disegna modi d'incedere diversi, gli spazi verdi sembrano riflettere la personalità di chi li cura.

Siamo di fronte a una scoperta: quell'architettura che, nel suo ripetersi su grandi estensioni, voleva tutti uguali, anche perché fondata su un'idea di corpo astratto, solo da misurare (non tutta sicuramente: fa eccezione per esempio il Villaggio Matteotti, frutto di un processo di partecipazione), guardata così si trasforma nella misura della diversità umana. Emergono le diverse sfumature degli abiti, le imprecisioni del corpo, il suo movimento, contrapposti ad architetture fondate sulla ripetizione, sul colore come codice per definire l'uso degli spazi, sulla regola geometrica figlia degli strumenti della rappresentazione, sulla staticità del segno.

Non è possibile parlare di sfondo e figura, non si tratta nemmeno di un set per mettere in mostra i diversi mode d'emploi de la vie, come decretava Perec. I cento scatti hanno tutti due protagonisti: l'architettura colta nel suo persistere, sia come manufatto sia come pensiero, e le persone fissate nell'immagine mentre sono in viaggio, cariche di una storia che ne disegna i volti, desiderose di attraversare la scena con le proprie cangianti diversità.


Note

(1) Più precisamente: Carlo Celli, quartiere Rozzol Melara, Trieste 1969-1982; Carlo Aymonino, Aldo Rossi, quartiere Monte Amiata al Gallaratese, Milano, 1967-1972; Luigi Carlo Daneri, Eugenio Fuselli, quartiere Forte Quezzi, Genova, 1956-1968; Giuseppe Vaccaro, quartiere Barca, Bologna, 1957-1962; Francesco Santini con Giorgio Trebbi, Glauco Gresleri, Giorgio Brighetti, quartiere Pilastro, Bologna, 1963-1968 + Franco Morelli, Giuseppe Manacorda, completamento del quartiere Pilastro detto "Virgolone", 1974-1976; Mario Fiorentino con Federico Gorio, Piero Maria Lugli, Giulio Sterbini e Michele Valori, Corviale, Roma, 1972-1982; Giancarlo De Carlo, villaggio Matteotti, Terni, 1970-1976.

(2) Lo Spazio Lavì si trova a Sarnano (Macerata) ed è gestito dall'omonima fondazione progettata e diretta da Monica e Piero Orlandi.

(3) Vittorio Gregotti con Franco Amoroso, Salvatore Bisogni, Vittorio Gregotti, Hiromichi Matsui, Franco Purini, quartiere Z.E.N. (Zona Espansione Nord), Palermo, 1969-1973.

(4) Si veda per esempio la ricerca di Durot, Lacaton e Vassal sui grandi complessi residenziali costruiti tra gli anni Sessanta e Settanta, sviluppata su incarico del governo francese e riportata in: F. Durot, A. Lacaton, J.-P. Vassal, Plus. Large scale housing development. An exceptional case, Barcelona, Editorial Gustavo Gili, 2007. Un'ulteriore testimonianza dell'interesse rivolto al tema è l'attenzione posta nel bando di concorso "Europan 2013" a diverse aree caratterizzate proprio dalla presenza di grandi strutture residenziali appartenenti alla stessa stagione progettuale che ha partorito i progetti letti in "Cento case popolari".

(5) Si veda per esempio: G. Corbellini, Housing is back in town. Breve guida all'abitazione collettiva, Siracusa, LetteraVentidue Edizioni, 2012.

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