Rivista "IBC" XXI, 2013, 1
biblioteche e archivi / convegni e seminari, media, interventi
Pubblichiamo una parte dell'intervento pronunciato dal direttore del quotidiano "la Repubblica" nel corso dell'incontro pubblico tenutosi l'8 novembre 2012 nella Biblioteca "Giuseppe Guglielmi" dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, nell'ambito del ciclo "I mestieri della cultura" (per guardare il video completo: www.ibc.regione.emilia-romagna.it/multimedia/video/i-mestieri-della-cultura).
Quando si parla del proprio mestiere, e lo si ama, credo non sia giusto ripararsi dietro uno schermo, fingendo che non ci appassioni. La prima ragione per cui ho accettato volentieri l'invito a venire qui oggi è proprio questa: mi date l'occasione per parlare del mio lavoro, che è la cosa che mi appassiona di più e che continua a provocarmi e a ingaggiarmi come quando ho iniziato, nonostante tutti i cambiamenti che ci sono stati.
Qualche giorno fa siamo stati al giornale fino alle quattro del mattino per seguire le elezioni del presidente degli Stati Uniti. Mentre noi andavamo via è montato il turno che avrebbe preparato l'edizione straordinaria di "Repubblica Sera", una versione digitale e totalmente autonoma del nostro giornale, che è in piedi da un anno e che normalmente esce alle sette di sera, l'ora in cui, secondo gli algoritmi di Google, si è tornati a casa dal lavoro, si prende il tablet, ci si siede sul divano e magari si dà un'occhiata a quello che è successo nel mondo.
Quel giorno abbiamo deciso di fare uscire un'edizione straordinaria, come si faceva con i giornali di carta, ma abbiamo puntato tutto sulla versione digitale. Il quotidiano tradizionale non sarebbe riuscito a dare la notizia, il gioco dei fusi orari e il meccanismo dello scrutinio americano non lo permettevano. Certo, la vittoria di Obama si era andata delineando nel corso della nottata, ma alle quattro meno un quarto, quando le rotative si mettono in movimento, i sondaggi dell'Ohio, lo stato chiave, davano risultati altalenanti e, soprattutto, c'erano molte schede ancora da scrutinare. Quindi abbiamo passato il testimone a "Repubblica Sera", che è uscita alle otto con il risultato finale, e prima che uscisse ci siamo affidati al nastro di notizie che scorre 24 ore su 24 sul nostro sito web.
Quella mattina, qualche ora dopo, quando sono tornato al giornale per fare la prima riunione giornaliera, ho acceso il computer e c'era una email di Obama. Come tutti quelli che hanno dato un qualche contributo alla sua campagna, sono stato raggiunto più volte dai messaggi di posta elettronica inviati dallo staff elettorale, e ognuno di essi era firmato. Il giorno prima Michelle Obama mi aveva scritto: "Mio caro Ezio, sono certo che tu hai votato però passa in rassegna i tuoi amici più fragili: qualcuno potrebbe non aver votato. Vallo a prendere e accompagnalo a votare, o comunque dagli un colpo di telefono...".
Quella mattina l'email era firmata da Barack "in persona". Stava per fare quel discorso meraviglioso che abbiamo pubblicato su "Repubblica" oggi [l'8 novembre 2012, ndr] ma prima di uscire mi ha mandato questa email: "Ezio, sto uscendo, là fuori c'è la folla che mi aspetta, vado a parlare, ma prima volevo dirti che nulla di quello che io sto per dire per celebrare il risultato che abbiamo raggiunto sarebbe stato possibile senza di te. Perché senza di te, e quelli come te, che hanno camminato viottolo dopo viottolo, isolato dopo isolato, in tutto il paese...".
Ecco fin dove arrivano questi strumenti. Per qualche frazione di secondo mi è venuta persino la tentazione di rispondere, poi naturalmente mi sono accorto che avrei scritto a un risponditore automatico. Però, dentro di me, ho pensato quanto sono duttili questi strumenti, quante potenzialità ancora nascondono, ma anche quanto sono antichi. Perché quel messaggio era la ricreazione moderna di qualcosa di antichissimo: la politica che fa verso i militanti e che li ringrazia del sostegno, come accadeva nelle vecchie società di mutuo soccorso operaio che ho avuto modo di conoscere quando facevo il cronista.
Tornando a casa, quel giorno, ho accompagnato un collega che non aveva l'auto e, ripensando alle elezioni americane, gli ho detto: "Ma che grande fortuna vivere questi tempi", e lui mi ha risposto: "Sì, e in questi casi la più grande fortuna è avere un giornale". Torniamo, quindi, al tema del nostro incontro. Mentre venivo qui pensavo come avrei passato questa giornata se non avessi avuto tra le mani un giornale, questo strumento che ti dà la sensazione di afferrare un lembo della storia mentre ti passa davanti, di fermarla per un attimo e di farle qualche domanda.
Per quanto si tenti di minare il diritto dei cittadini a sapere, questo è il vero fondamento della democrazia, che nella parte del mondo in cui per fortuna ci tocca vivere è fondata su un soggetto decisivo: la pubblica opinione. Un'opinione che si forma ogni giorno nella testa dei cittadini informati e consapevoli. Naturalmente i cittadini sono tutti uguali davanti alla legge e, quando vanno a votare contano ognuno nello stesso modo: sia il cittadino informato, sia quello ignorante. Però non c'è dubbio: se la democrazia potesse scegliersi il suo cittadino ideale, ne sceglierebbe uno informato, che conosce i problemi su cui deve pronunciarsi e gli elementi su cui deve basare il giudizio supremo del voto. La democrazia, ha scritto il sociologo americano Neil Postman, ha una mentalità tipografica, perché se potesse sognare sognerebbe dei cittadini che leggono i giornali.
Soltanto nel nostro paese si continua ancora a chiedere a un giornale "con chi stai?", mentre le domande che una democrazia liberale dovrebbe fare a un giornale sono altre. Chi sei? Qual è la tua identità? Di che mondi sei composto? Qual è la tua cultura di riferimento, la tua anima? Perché soltanto se io, lettore, so davvero chi sei tu, giornale, e come sei fatto, come è composta la tua redazione, che tipo di relazione culturale hai con i lettori, soltanto se so tutto questo, capisco perché su certe questioni prendi determinate posizioni, perché conduci certe battaglie e non altre.
Per un giornale, poi, non dovrebbe avere alcuna importanza se il lettore quando legge un articolo la pensi come lui, perché il suo compito non è fare proseliti né convertire, ma semplicemente dare delle informazioni. Io ti ho messo tutti gli elementi sul tavolo: tu, con questi elementi, puoi costruire la tua idea della vicenda. In più, alla fine, come uno dei vari elementi, ti dico anche come la penso io; ma per chiarezza, non per convertirti. Noi non siamo né dei preti né dei partiti: dobbiamo dare qualche strumento per capire.
C'è una differenza tra conoscere e capire, così come tra guardare e vedere. Davvero, allora, è come se il giornale dicesse al lettore: fai il giro, vieni qua vicino a me, questa notizia tu credi di saperla già perché l'hai sentita alla radio mentre ti facevi la barba o l'hai sbirciata sul computer di tuo figlio, ma adesso fermati e proviamo ad aprirla insieme. Il giornale fa questo: prende una notizia dal flusso di informazioni che circonda il lettore da ogni parte, la apre e ne tira fuori i pezzi. E questi pezzi sono sempre tantissimi, molti più di quanto sembrerebbe da fuori.
È vero: nell'offrire un flusso di notizie, internet è imbattibile. Ma la rete è appunto come un fiume, dove a contare di più sono la capacità di portata e la velocità di scorrimento. E dentro al fiume scorre di tutto, dalle barche ai detriti pericolosi. In rete il saggio di un filosofo viaggia incollato alla pernacchia di un blogger, e senza un segno distinguibile di gerarchia rimarranno incollati per l'eternità. Il giornale non è il flusso, il giornale sta dentro il flusso e cerca in qualche modo di dominarlo, lasciando scorrere molte più cose di quelle che trattiene. Si tratta certamente di una scelta discrezionale, ma, con i pezzi che raccoglie, il giornale può costruire qualcosa di ambiziosissimo, una vera e propria cattedrale di notizie. Un luogo in cui chi vi entra può vedere rappresentati i fatti della giornata. In questa ricerca di senso c'è la vera ragione morale di questo mestiere, la sua vera garanzia di perennità.
Quando dopo le 10 di sera sei lì che stai scrivendo e non rispondi più al telefono perché sai che aspettano solo il tuo pezzo per chiudere, quando a un certo punto finisci quelle cento righe e prima di mandarle via le rileggi, a volte succede che ti dici: "Ce l'ho fatta, sono riuscito a restituire almeno una parte della complessità di questa storia". Se attraverso quella consapevolezza aiutiamo il lettore a fare qualche metro in più nel cammino della conoscenza, nella padronanza dei fenomeni su cui come cittadino si dovrebbe pure pronunciare, è un risultato meraviglioso.
Una volta ho fatto i complimenti a Giorgio Bocca per un articolo e lui mi ha detto: "Non sapevo di sapere le cose che ho scritto", e credo di aver capito cosa voleva dire. Esiste una dimensione orizzontale della realtà, quella in cui il mondo ti viene incontro, ti urta, ti provoca, e poi c'è quella verticale delle cose in cui credi, della tua cultura, del mondo che abiti, magari quella del giornale in cui lavori. C'è di continuo un urto tra queste due dimensioni, tra ciò che siamo e ciò che incontriamo, e ogni volta va tutto in pezzi. Se questi pezzi li riprendi al volo come un giocoliere e poi li rimetti insieme, può venir fuori qualcosa che fino a un momento prima non c'era. Qualcosa di inedito, che prima non sapevi. Questo è ciò che intendeva Bocca: il pezzo che aveva scritto, evidentemente, era già dentro la macchina da scrivere.
[trascrizione: Gabriella Sino; redazione: Vittorio Ferorelli]
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