Rivista "IBC" XIX, 2011, 4
biblioteche e archivi / mostre e rassegne
C'è una storia dal "basso" che le generazioni più anziane hanno raccontato alla mia e che, senza remore e reticenze, noi siamo tenuti a trasmettere ai nostri figli: è la memoria delle diseguaglianze, delle illiberalità e dei soprusi che si compirono in Italia nel primo ventennio dopo la Seconda guerra mondiale. Una serie di illegalità facilitate e, di fatto, autorizzate da considerazioni discendenti dalla politica internazionale. La guerra fredda aveva in effetti un fronte mondiale, in cui si consumava il confronto titanico tra blocchi e superpotenze, e un fronte interno che imponeva alle persone in carne e ossa di misurare le proprie intime scelte politico-sindacali con la collocazione di campo nazionale. Non fu una storia solo italiana, perché avvenne (con modalità sempre diverse) un po' dovunque in Europa, al di qua e al di là di quella che veniva chiamata la cortina di ferro. Ma nel nostro Paese a farne le spese furono soprattutto comunisti e socialisti.
È una storia raramente ricordata sui manuali scolastici, mai impartita dai docenti; bistrattata e misconosciuta. Luigi Arbizzani, storico militante, si fece carico, esattamente venti anni fa, di dare visibilità e dignità a quelle migliaia di lavoratori che avevano sofferto gli effetti, durissimi, della sospensione dei diritti. Per la mia generazione fu soprattutto il suo libro, La Costituzione negata nelle fabbriche. Industria e repressione antioperaia nel Bolognese: 1947-1957, a svelarci senza riserve quella realtà. Un saggio che resta il punto di riferimento più importante e alto per il Bolognese (oltre che essere rimasto pressoché l'unico esempio).
Quella pagina di storia italiana (e il libro che ne dava conto) è stata riproposta alla cittadinanza nella mostra "La Costituzione negata", promossa dal Comitato provinciale di Bologna dell'Associazione dei licenziati per rappresaglia politico-sindacale-religiosa (che associa coloro che, "negli anni della ricostruzione postbellica, lottarono nelle fabbriche, nelle campagne, negli uffici pubblici, perché i principi di libertà e di pari opportunità, scritti nella Costituzione, diventassero realtà nei luoghi di lavoro, e per questo furono licenziati").
La mostra, ospitata dal 19 al 30 luglio 2011 nella Biblioteca comunale Salaborsa a Bologna, si compone di 23 pannelli ricchi di foto, documenti, lettere, giornali e altri materiali, a ricordare un ventennio di lotte nelle fabbriche del Bolognese. Vent'anni di mobilitazione sociale che diede importanti frutti: il 15 luglio 1966, infatti, veniva emanata la legge numero 604 sulla risoluzione del rapporto di lavoro per giusta causa, che poneva fine alla lunga stagione in cui le scelte politico-sindacali potevano bastare per licenziare. Un punto fermo rafforzato nell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (1970), che ordinerà "al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore" in caso di "licenziamento intimato senza giusta causa".
Le persone interessate dal provvedimento furono migliaia: tra il 1947 e il 1966, nella sola realtà bolognese, erano infatti stati licenziati, per le idee politiche professate o per l'impegno sindacale, 8.300 lavoratori nel settore privato e 250 in quello pubblico. Un'ingiustizia che si era tradotta in dramma umano (per la disoccupazione imposta, per la negazione delle capacità professionali, per il rifiuto del riconoscimento di diritti elementari) e che aveva gettato migliaia di famiglie nel disagio materiale, andando a comporre quel numero, spaventoso e imperdonabile, di 480.000 lavoratori licenziati su scala nazionale.
Operai e contadini, che avevano agito e lottato per "portare nelle fabbriche" i diritti sanciti dalla Costituzione repubblicana; uomini e donne impiegati, in massima parte, nella metalmeccanica (3.800) e nell'alimentare (1.500), i settori industriali a quel tempo più sviluppati di questo territorio. Ma dati rilevanti si registrarono anche nei comparti del tessile e dell'abbigliamento (per un totale 1.900 lavoratori), del chimico (600) e del legno (500).
Un ultimo elemento assolutamente degno di nota e richiamato, giustamente, sul sito dell'Associazione dei licenziati per rappresaglia è che molti tra i licenziati avevano partecipato al movimento resistenziale: schiere di partigiani che si trovarono a passare, nel volgere di qualche manciata di mesi, da eroi-liberatori a fastidiosi sovversivi dell'ordine democratico-capitalista.
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