Rivista "IBC" XIX, 2011, 3

Dossier: Lo scaffale dei sapori

musei e beni culturali, biblioteche e archivi, dossier /

Musei del cibo: esporre il rito, le tradizioni, il territorio

Monica Bruzzone
[architetto, docente di Caratteri tipologici e morfologici dell'architettura all'Università di Parma]

La concretezza del cibo e il più immateriale senso del gusto sono una buona metafora della cultura italiana. Ce lo rammenta Pellegrino Artusi, padre elettivo dell'arte culinaria. Il suo libro, La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, trae la propria fortuna da una considerazione semplice quanto essenziale: non è possibile definire univocamente la cucina italiana, è invece indispensabile, per comprenderne le premesse, ragionare sulle differenze tra le eterogenee culture alimentari dei "mille campanili". Il testo di Artusi è un ricco manuale con oltre 700 ricette, che constata una simultanea molteplicità di tradizioni, tipicità alimentari, prodotti e gusti differenti, che in ogni regione d'Italia conformano un aspetto della sua identità e si fanno portavoce di declinazioni culturali e sociali stratificate nel tempo.

È interessante, così, ragionare sul cibo, superando la sua componente per così dire nutrizionale, fino a considerarne il valore di rito sociale, che acquisisce le tradizioni di una popolazione e le caratteristiche fisiche, antropiche e persino climatiche di un dato territorio. Talvolta la produzione e la trasformazione di un cibo risalgono a un lontano passato. Ne sono esempio, in Emilia-Romagna, le acetaie della Val d'Enza, tra Parmense e Reggiano, la cui presenza è testimoniata da documenti dei tempi di Matilde di Canossa. Altre volte l'importanza di un cibo deriva da una tradizione più recente, come la coltura del pomodoro o quella della patata, la cui coltivazione si diffonde solo nel XVIII secolo.

La preparazione del cibo, al pari di altre tradizioni popolari, è un eccezionale patrimonio culturale, come pure le tecniche di lavorazione, di conservazione e persino di presentazione, testimonianze materiali di un saper fare in continua evoluzione. Il cibo può fornire anche un'eccellente opportunità per valorizzare i luoghi in un'ottica di rete tra sistemi di tradizioni popolari e di immaginari culturali, che ben si riassumono nel vocabolo Heimat. Questo termine della lingua tedesca che deriva dalla parola "casa", tradotto in italiano con l'inadeguata locuzione "piccola patria" o "luogo natìo", propone una reazione contro la perdita di identità della comunità d'origine.

Una precisazione necessaria a spiegare la relazione tra cultura alimentare e musei attiene al ruolo inedito che i luoghi dell'esporre hanno acquisito a partire dagli anni Settanta del XX secolo e che oggi appare quasi scontato. In quegli anni il ruolo del museo muta profondamente: non è più soltanto il luogo dove esporre e custodire oggetti appartenenti alla tradizione colta della comunità, ma diventa anche il deposito delle memorie popolari e delle tradizioni spontanee, ed è testimonianza del radicamento tra uomo, produzione e territorio. L'origine comune dei musei dedicati all'antropologia e alle tecniche produttive si spiega nella variazione di significato del museo, che è ancora "recinto sacro" dove ammirare capolavori artistici, reperti storici e collezioni scientifiche ai fini del godimento e dell'apprendimento, ma assume anche il compito di conservare e narrare le tradizioni spontanee, in una logica allargata di patrimonio e di bene culturale che muove dall'esposizione degli oggetti all'esposizione dei concetti, fino alla codificazione espressa dalla Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, redatta dall'UNESCO nel 2003. Il documento definisce questo patrimonio come l'insieme di "pratiche, rappresentazioni, espressioni, conoscenze e saperi", ma anche di "strumenti, oggetti, manufatti e spazi culturali" nei quali una comunità riconosce un senso di appartenenza.

In questi nuovi musei - definiti fin dai primi anni Novanta musées de société, grazie all'apertura dell'allora direttore dei musei francesi Jacques Sallois - gli oggetti esposti, proprio come in un racconto letterario, acquisiscono il potere magico di espedienti narrativi, rafforzano la memoria di una cultura passata al fine di innescare un meccanismo di valorizzazione dell'identità, ricostruendo l'Heimat.

Dei musei della società fanno parte anche i musei del cibo, esattamente come quelli della cultura contadina, dei mestieri e delle imprese. Essi hanno il compito di salvaguardare o valorizzare, a partire dalla cultura del cibo, la specificità delle tradizioni locali, l'unicità delle produzioni del territorio e il paesaggio stesso. Si fa strada la necessità di costruire nuovi musei locali dedicati a quei cibi riconosciuti come tradizionali grazie ad appositi marchi di qualità, che in Italia corrispondono alla Denominazione di origine controllata (DOC) e alla Denominazione di origine controllata e garantita (DOCG) per i vini, e in Europa alla Denominazione di origine protetta (DOP) e all'Indicazione geografica protetta (IGP) per gli alimenti. Il ruolo di tali musei è essenziale solo se compreso come rapporto tra un prodotto agroalimentare e il suo specifico territorio, con le proprie caratteristiche fisiche, climatiche e antropologiche, potremmo dire con il proprio terroir.

Questi musei diventano, così, autorevoli protagonisti di una riconquista dell'Heimat, ma sono il fulcro ideale nella valorizzazione del paesaggio anche in termini di turismo culturale, poiché ogni prodotto alimentare, per essere apprezzato, ha bisogno di un contesto, di un luogo, di una storia. Proprio nel rapporto biunivoco tra uomo e territorio, l'architettura di un museo del cibo si configura come mediazione tra luogo, tipicità, e percorso narrativo; è ambito di memoria, approfondimento e sperimentazione. Il suo compito va oltre il ruolo di esporre oggetti, per entrare nel campo della cultura del ben mangiare, che si compie anche attraverso le degustazioni: prendono dunque valore gli strumenti e i macchinari per la produzione, si esibisce il lavoro come un rito collettivo da conoscere attraverso immagini e testimonianze di un tempo passato, si presenta il cibo attraverso l'esperienza sensoriale (facilitata da tecniche di comunicazione multimediale come audiovisivi, schermi tattili e meccanismi interattivi), per arrivare infine alla degustazione, che inserisce anche il gusto e l'olfatto tra i sensi stimolati dal museo come sistema comunicativo.

Alcuni musei del cibo sono ospitati in edifici storici.1 Qui la relazione tra prodotto, territorio e contesto culturale si fa stretta, e l'edificio si comporta come sfondo del percorso museale, ma anche come espediente narrativo. Nel Museo Provincial del Vino, costruito in Spagna nel 1999 dall'architetto Roberto Valle Gonzales, il castello di Peñafiel occupa uno sperone roccioso in una posizione tanto strategicamente efficace quanto affascinante. Un monumento in cui il rapporto architettonico tra l'edificio antico e gli spazi museali si gioca con la soluzione di affiancare all'antica struttura litica del castello un sistema costruttivo metallico che enfatizza il percorso e l'edificio.

Altri musei nascono in aziende produttive che hanno ospitato la preparazione o la trasformazione dell'alimento. Il lavoro e la produzione sono gli stratagemmi che accompagnano il visitatore nel percorso museale, mentre l'esposizione dei macchinari per la produzione si alterna alle testimonianze immateriali dei lavoratori. Il Museo della liquirizia Amarelli in provincia di Cosenza, quello dell'Olio Carli a Imperia, quello della Birra Peroni a Roma, coniugano un percorso che si snoda tra l'esposizione delle collezioni e degli archivi storici delle imprese, e l'approccio multimediale adattissimo a documentare valori immateriali.

Alcuni di questi musei sono ospitati in edifici di nuova costruzione. Qui il rapporto tra contenuto e contenitore si fa più stretto e il progetto di architettura non prevede solo la costruzione di un sistema di luoghi per esporre oggetti, documenti e testimonianze immateriali, ma prova a cucire un rapporto tra spazio costruito e narrazione museale, come si verifica efficacemente in edifici quali il Food and Agriculture Museum di Tokyo, progettato nel 2004 da Kengo Kuma nell'ambito dell'Università di Agricoltura. In questo caso ricerca, sperimentazione e narrazione si coniugano in un museo che chiude il proprio percorso nello spazio della degustazione. Un'esperienza sensoriale fisica in un sistema espositivo complesso.

In alcune situazioni il museo del cibo si estende al territorio configurando un percorso più esteso, dove l'edificio espositivo è fulcro di un itinerario museale che occupa un'area vasta coinvolgendo luoghi della produzione e della trasformazione dell'alimento, ma anche edifici e resti di un'identità produttiva che da contenitori di oggetti si trasformano in contenuti del percorso museale. Ne è un esempio il Museo del sale sull'isola di Mozia, presso Trapani.

L'eccellenza dell'Emilia-Romagna nel settore alimentare è ben rappresentata dai 32 prodotti insigniti del marchio DOP oppure IGP, mentre oltre 200 sono le eccellenze tradizionali del gusto. Con i suoi 19 musei dedicati al settore alimentare, che fanno parte della rete dei "Musei del Gusto" (www.museidelgusto.it), la regione rappresenta un unicum museografico nel panorama italiano, potendo contare su piccole ma interessanti realtà espositive, come il Museo del pane - Mulino del Po a Ferrara (con la ricostruzione di un piccolo mulino galleggiante), il Museo dell'aceto balsamico tradizionale a Modena, il Museo del prosciutto di Parma a Langhirano, per giungere alla Casa-museo di Pellegrino Artusi a Forlimpopoli, un'eccellente testimonianza delle radici storiche dell'arte del mangiare in Emilia-Romagna.


Nota

(1) La ricerca sui modelli qui presentata è approfondita nella tesi di laurea di Elisa Curini Livierato, Il gusto nelle terre di Matilde di Canossa. Proposta di un nuovo museo del gusto sulle colline reggiane, relatrice Monica Bruzzone, Università di Parma - Facoltà di Architettura, 2011.

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