Rivista "IBC" XV, 2007, 4

biblioteche e archivi / convegni e seminari, media, pubblicazioni

Quali sono i caratteri peculiari di un ipertesto elettronico? Che differenza c’è tra una biblioteca digitale e un deposito di testi scaricabili on-line? Alcune risposte, formulate dieci anni fa, sono tuttora valide.
Link in funzione

Vincenzo Bazzocchi
[IBC]

La pubblicazione in volume di alcuni saggi sul "paradigma digitale", a distanza di circa dieci anni dalla loro composizione, sfida l'obsolescenza informativa. Ma Letterature biblioteche ipertesti, pubblicato da Carocci nel 2005 a cura di Federico Pellizzi, presenta alcuni piccoli classici risalenti a convegni che si sono tenuti negli anni 1996 e 1997, alcuni anche con il patrocinio dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna (IBC). L'interesse specifico del volume - nel momento in cui una nuova onda, con il Web 2.0 e le piattaforme partecipative, si fa improvvisamente visibile - risiede per noi nell'inserimento programmatico delle biblioteche nell'indagine sul rapporto tra neotecnologie e cultura. Indagine, quest'ultima, resa forse necessaria da quella "esperienza del nuovo" che nell'introduzione di Ezio Raimondi viene a fondarsi sui bachtiniani grandi orizzonti. Il riconoscimento della centralità della rete consente di guardare non più alle mode e alle fasi, quanto ai processi e alle svolte, quei passaggi, cioè, che imponendo un legame con la memoria danno occasione di verificare la tenuta o meno dei quadri teorici (quelli disciplinari in parte sono saltati) o per lo meno permettono di segnalare potenziali indirizzi di ricerca o piste poco battute.

Nell'intervento di Joshua Meyrowitz, autore di un'opera seminale come Oltre il senso del luogo,1 vengono tematizzati il superamento dei confini tra i sistemi di comunicazione (telefono, radio, televisione) e gli ambiti di utilizzo e consumo (casa, ufficio, laboratorio, università, industria), e il venir meno della distinzione netta tra prodotti e servizi (per McLuhan il comune denominatore è l'informazione), fino a esplicitare, nel campo che qui più ci interessa, la "fine delle forme di comunicazione chiaramente delimitate". Così vien facile a Massimo Riva poter affermare che "al testo lineare, ben delimitato e isolato, discreto, concatenato in una sequenza canonica [...] viene così a sostituirsi un ipertesto modulare, collegato simultaneamente in multiple direzioni e molteplici ricontestualizzazioni sincroniche". In riferimento al progetto del Decameron Web,2 in accordo qui non solo con Meyrowitz ma soprattutto con Michael Joyce ("hypertext is, before anything else, a visual form"),3 Riva può concludere che "progettare in ipertesto significa, anche, dunque concepire e visualizzare una nuova dimensione o multidimensionalità 'spazio-temporale' pienamente relativistica dell'opera".

Ma in Letterature biblioteche ipertesti il contributo più denso, dal punto di vista metodologico, è quello di Federico Pellizzi, che nel suo Per una critica del link tenta di tenere assieme due diversi livelli di indagine: il piano del contesto funzionale (una "morfologia" del link) e quello della sua collocazione nell'immaginario collettivo (una "metaforologia" del link).4 Se per quest'ultimo piano la critica principale sta nel fatto che le metafore più diffuse (di carattere nautico, bibliotecario, viario, ecc.) hanno ricondotto il fenomeno al già noto senza comprendere i caratteri più innovativi della testualità digitale, per il primo aspetto si sostiene la tesi che la nozione di link sia troppo limitata e quindi da ricomprendersi in un quadro più allargato di testualità digitale. Mossa teorica decisiva,5 che consente a Pellizzi non solo di ampliare la nozione di link, con cui "qui si intende ogni connessione del testo a un possibile processo", ma soprattutto quella di testualità, e di includervi anche aspetti finora considerati solo come paratestuali o come connessioni operative (gli elementi di interfaccia).

Una delle caratteristiche distintive del testo digitale è la possibilità di connettere "non solo le parti che lo costituiscono tra loro, ma anche ogni sua parte alle cornici che lo includono, le cornici tra loro, e ogni sua parte alle funzioni disponibili". Si tratta quindi di un processo: di un fare e una possibilità di fare relativi non solo alla scrittura, ma anche al momento della lettura, della consultazione, della navigazione, del downloading. Quindi la testualità va vista come una relazione tra possibili azioni e così pure la manifestazione concreta delle relazioni in forma di dispositivi visibili. Certo, su un altro piano, questa riduzione del "visuale" al "testuale" lascia un resto che andrebbe, a nostro avviso, ulteriormente indagato (semioticamente?) mentre la "detestualizzazione", individuata in ambito biblioteconomico come una delle caratteristiche peculiari dell'informazione digitale (da Metitieri e Ridi), mi sembra possa rientrare nella teoria di una nuova testualità, che sia digitale o tout court.

Se tutte le operazioni effettuabili in ambiente digitale sono quindi ipertestuali, allora la natura dei link è insieme rappresentativa, simbolica e operativa, ma in particolare da quest'ultima caratteristica, che implica la fluidità dei testi, non si deve ricavare immediatamente le proprietà di instabilità, non unitarietà o mancanza di autorialità. Ciò che cambia è il funzionamento interno del testo e soprattutto il suo uso. Qui Pellizzi, adottando una terminologia foucaltiana, mette a confronto la strategia discorsiva del modello tipografico incentrato sulla "distinzione tra discipline, saperi, arti e regimi di senso" con quella del modello digitale basata sulla connessione "tra pratiche simboliche differenziate, tra istituzioni e persone", anche "tra lettura e scrittura", che "sono messe più strettamente in relazione, e tuttavia non sono confuse". I link, come strumenti di gestione di queste unità di senso, sono in fin dei conti dei "dispositivi neotestuali che permettono la fruizione unitaria, sul piano temporale e spaziale, di processi che altrimenti travolgerebbero la percezione".

A questo punto Pellizzi avanza l'ipotesi di ricondurre "ciò che si può fare col testo e al testo" a sette funzioni, comuni a ogni ambiente digitale, e di chiamarle "pragmemi". I pragmemi che hanno il loro punto di attivazione in icone e bottoni, propri delle interfacce grafiche, sono i seguenti:

  • avvio;
  • collegamento;
  • determinazione spaziale e temporale;
  • scelta di opzioni;
  • interrogazione;
  • bricolage;
  • uscita.

La descrizione dettagliata di ciascuno di essi potrebbe trovare, a nostro avviso, un utile confronto con uno studio sugli "oggetti di scrittura",6 un concetto di stampo greimasiano introdotto in ambito semiotico.

Poiché possono essere raggruppati o concatenati in combinazioni diverse, i pragmemi possono dar vita a "generi ipertestuali" diversi - a seconda della coppia di funzioni interessate, si potrebbe avere una rivista elettronica (pragmemi: c-e), un OPAC - On-line Public Access Catalogue (d-e) o un newsgroup (e-f) - ma dipendono da una scelta: è il lettore ad attivarli volontariamente. È questo il discrimine, secondo Pellizzi, tra ciò che è testuale e ciò che non lo è, tanto che sulla base del coinvolgimento del lettore è possibile determinare anche la distinzione tra pragmemi strutturali e interattivi (c, d, e, f). Mentre le funzioni strutturali non intaccano il modello classico della comunicazione (mittente, messaggio, destinatario), secondo l'autore i pragmemi interattivi (quelli caratterizzati dalla "compresenza di attività semiotiche differenti nello stesso processo testuale") lo demoliscono in modo definitivo: "Ciò non vuol dire che tali attività si mescolano e sono indistinguibili (per esempio scrittura e lettura); bensì semmai che ciascuna attività è potenziata". Qui il rimando è a Greimas e al suo concetto di "attante" e alle sfere modali: volere, sapere e potere. L'analisi basata sui pragmemi viene poi applicata anche allo studio delle interfacce, che sono ricondotte a tre modelli: "modello a scatola a bottoni", "modello buca delle lettere" e "modello ambiente". In ogni caso la differenza principale mi sembra possa ancora essere riassorbita nella distinzione tra modelli basati sull'interazione e quelli più vicini alla realtà virtuale e ai giochi in rete basati sull'immersione (distinzione proposta da Lev Manovich).7

Nel campo delle metafore, il tentativo di Pellizzi di distinguerle in base alla loro funzionalità e forma semantica conduce a individuare sei classi: metafore compensatorie, modellizzanti, metonimiche, iperboliche, apotropaiche, archetipiche. Per esempio, una delle metafore più ricorrenti, la biblioteca digitale (presente anche in Stefik), rientra in ciascuna di queste categorie, ma se si vuol guardare più da vicino al funzionamento, all'ambiente d'uso del mondo digitale, occorre adottare una concezione interattiva di metafora. L'ipotesi, in altre parole, è che esista un "interscambio metaforico tra oggetti nuovi e modi di descriverli che modifica tanto il campo emittente quanto il campo ricevente".

Interessante, infine, è anche il contributo di Fabio Ciotti sulla biblioteca digitale. Il saggio parte dalla constatazione che, dopo le prime fasi dell'innovazione informatica nel mondo delle biblioteche, si è affacciato negli ultimi anni un nuovo paradigma del sistema biblioteca, che nasce dalla convergenza di alcuni fattori: l'estensione e l'autonomizzazione del documento digitale, non più legato a una fissazione su un supporto materiale; la diffusione di Internet e delle reti in generale, con la trasformazione dei modi di distribuzione delle informazioni e di accesso a esse. Dopo aver enumerato una serie di progetti e iniziative (Digital Libraries Initiative, Gallica della Bibliothèque Nationale de France, Library of Congress di Washington, Project Gutenberg e altri) e aver delineato i prodromi concettuali e metodologici dell'idea di biblioteca digitale, Ciotti ammette che la nozione rischia di funzionare come termine-ombrello per concezioni e applicazioni molto diverse: è un'area specifica di applicazione? in che modo si distingue da quella tradizionale? o da altri sistemi informativi distribuiti? Lo studioso distingue così tra una nozione astratta e una applicativa (tecnologica). Tuttavia, come il contenuto informativo di una biblioteca non si esaurisce in un generico insieme di documenti ma vi è un apporto intenzionale e professionale distinto dai creatori dei singoli documenti (catalogazione, classificazione, ecc.), così nella biblioteca digitale giocano un ruolo importante l'idea di una rete di relazioni tematiche potenziali (interdocumentali e intradocumentali) potenziate da un adeguato apparato metainformativo.

Alla luce di questa definizione diventa possibile distinguere una "biblioteca digitale" da un insieme non organizzato di informazioni eterogenee (il Web), come pure dagli archivi di testi che si presentano come meri "depositi testuali". Ma al modello astratto di biblioteca digitale bisogna aggiungere le tecnologie necessarie a implementarlo (risorse hardware, sistemi di rete, software gestionali, interfacce, information retrieval), cioè un "sistema di biblioteca digitale" costituito da cinque sottosistemi: archiviazione dei documenti; attribuzione e gestione dei metadati; distribuzione dei documenti; consultazione on-line ; ricerca avanzata sui contenuti. Alcuni di questi requisiti - approfonditi analiticamente, perché alla fine degli anni Novanta apparivano rilevanti, ma oggi in parte ormai scontati, all'interno dello specifico dominio disciplinare - restano nondimeno del tutto attuali sul piano metodologico e operativo. Così il richiamo conclusivo non è solo alla necessità di un'attenta progettazione quando si realizza una biblioteca digitale ma anche, data la natura complessa dei problemi, a un indispensabile intervento istituzionale, che sia in grado di promuovere progetti qualificati. E aggiungeremmo, alla luce dell'esperienza successiva, interventi capaci di attivare la cooperazione interistituzionale a tutti i livelli: da quello di servizio a quello programmatico, fino a realizzare una politica digitale che "non disperda l'eredità culturale".

Note

(1) J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L'impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, Bologna, Baskerville, 1995.

(2) www.brown.edu/Departments/Italian_Studies/dweb/dweb.shtml.

(3) Michael Joyce è l'autore di Afternoon, a story, uno dei più noti esempi di narrativa ipertestuale (Bologna-Roma, Elettrolibri, 1993).

(4) Su quest'ultimo piano il rimando obbligato è a Internet dreams. Archetipi, miti e metafore diMark Stefik (Torino, UTET, 1997).

(5) Sembra potersi rinvenire qui la nozione "insiemistica" di "struttura", in quanto le entità e le loro operazioni e relazioni si prendono come dati e se ne isolano (in maniera astratta?) le proprietà.

(6) A. Zinna, Le interfacce degli oggetti di scrittura. Teoria del linguaggio e ipertesti, Roma, Meltemi, 2004.

(7) L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Edizioni Oliveres, 2002.

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