Rivista "IBC" XVIII, 2010, 2

Dossier: Che il viaggio non sia stato inutile - Il Novecento: storie, memorie e luoghi

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, dossier /

Il Memoriale italiano di Auschwitz

Elisabetta Ruffini
[direttrice dell'Istituto bergamasco per storia della Resistenza e dell'età contemporanea]

Il 2 luglio 1947 lo Stato polacco riconosce il complesso di Auschwitz-Birkenau come monumento commemorativo nazionale: il sito è sottoposto alla tutela della sovrintendenza polacca per i beni culturali, assume il nome di Museo statale di Oswiecim-Brzezinka (mutato nel 1999 in Museo statale di Auschwitz- Birkenau) e nel 1979 è riconosciuto dall'UNESCO. Se fin da subito la definizione "Museo" fa discutere, il progetto di ristrutturazione dell'area allora varato conferisce al sito la sua fisionomia attuale e concentra l'intervento museale nel perimetro di Auschwitz I, dove alcuni blocchi sono destinati a una mostra generale sul campo, altri alle esposizioni nazionali, altri all'archivio e alla biblioteca.

La mostra è stata inaugurata nel 1955, mentre le esposizioni nazionali iniziano a partire dagli anni Sessanta: quelle dei paesi del blocco sovietico sono le prime a essere inaugurate, quella italiana è tra le ultime. Il ritardo italiano è la conseguenza di una politica culturale nazionale che da sempre ha riservato poca attenzione alla deportazione ed è stato colmato grazie all'intervento dell'associazione Associazione nazionale ex deportati (ANED), che dal settembre 1945 aveva lavorato con tenacia e passione per costruire la consapevolezza e la memoria della deportazione nel nostro Paese. È stato l'ANED a volere il "Memorial in onore degli Italiani caduti nei campi di sterminio nazisti" nel blocco 21, e si è impegnata nel progetto per una decina d'anni fino all'inaugurazione, nella primavera del 1980.

La presenza italiana si è tradotta così in un'opera che è il precipitato di quella politica della memoria messa in atto dai sopravvissuti dalla fine della guerra per fare posto, all'interno della sensibilità collettiva, alla loro storia. La sua realizzazione si deve alla collaborazione fra alcuni protagonisti della cultura italiana del Novecento: la scelta è stata non fare del Memoriale una mostra documentaria sulla deportazione ma affidare all'arte la testimonianza attraverso un'installazione a più voci. Lodovico Belgiojoso progetta la struttura architettonica che Pupino Samonà illustra seguendo la traccia di un testo scritto da Primo Levi. Nelo Risi contribuisce con la sua competenza di regista e Luigi Nono con la composizione musicale Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz.

Oggi, a trent'anni dalla sua inaugurazione, il Memoriale, che versa in uno stato d'abbandono, è oggetto di pesanti critiche. Molti visitatori, entrando nel blocco, si trovano disorientati di fronte a un'installazione in degrado, privata della musica e del testo pensati per accompagnare la visita. La rinnovata direzione del Museo e la sostituzione del direttore Kazimierz Smolen, che seguì il progetto iniziale, hanno portato in Auschwitz a una profonda incomprensione dell'opera, di cui viene esclusivamente sottolineata l'inadeguatezza rispetto alle esigenze di supporto pedagogico alla visita. In Italia il mutamento di sensibilità memoriale circa i temi legati alla deportazione è stato lo sfondo di un'iniziativa governativa che implica una volontà di ripensamento del blocco 21, condivisa da alcuni storici che giudicano il Memoriale incapace di trasmettere oggi la specificità della deportazione, e in particolare di quella italiana ad Auschwitz.1

All'inizio del 2008 l'ANED si è mossa per difendere sul piano giuridico la sua opera, mentre l'Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell'età contemporanea, la Scuola di restauro dell'Accademia di Brera e i sindacati edili di CGIL, CISL, UIL (Lazio, Lombardia, Nazionale) elaborano un manifesto per la salvaguardia del Memoriale e organizzano il "Cantiere blocco 21", laboratorio di studio e conservazione che nel settembre si trasferisce ad Auschwitz e, grazie al lavoro di 32 allievi di Brera, compie i rilievi e spazza via almeno vent'anni di polvere. Il lavoro del "Cantiere" porta all'allestimento di una mostra itinerante ("Blocco 21") e all'elaborazione di un progetto di conservazione e integrazione del Memoriale (il "Progetto Glossa") che è approvato dall'ANED nel suo XIV Congresso e presentato alle autorità italiane. Benché il manifesto raccolga firme di importanti studiosi, italiani e stranieri, tuttavia il "Cantiere" non riesce ad attirare l'attenzione collettiva - solo Sergio Luzzatto ne parla sul "Corriere della Sera" - e l'ANED porta avanti le trattative con il governo in un clima di sostanziale disinteresse. Il silenzio cade così, ben presto, sulla vicenda.

In questi mesi si dovrebbe decidere sul futuro del Memoriale, ma non sappiamo quali siano i criteri che muovono le scelte delle autorità italiane rispetto a un'opera che è di proprietà dell'ANED, ma la cui eredità culturale è dell'intera nazione. Sembra possibile l'ipotesi di un rifacimento del blocco 21 - e quindi della presenza italiana ad Auschwitz - e la necessità del trasferimento del Memoriale in Italia (si propone l'ex Campo di Fossoli). Tale ipotesi, da un punto di vista storico-artistico, implica lo snaturamento dell'opera voluta e pensata per Auschwitz; da un punto di vista storico significa congedare da Auschwitz la lettura della deportazione condensata nel testo scritto da Primo Levi e l'associazione che ha costruito la memoria collettiva della deportazione in Italia. Chi ne sta considerando tutte le conseguenze? Auschwitz è oggi un luogo simbolo per la coscienza europea e la qualità della presenza italiana è una questione che ci deve interessare in quanto cittadini di questo Paese.

Nel 1972, Bruno Vasari, durante la riunione dell'esecutivo dell'ANED, al momento di discutere le attività culturali da programmare, osserva: "Noi abbiamo un preciso compito, [quello] di fare delle attività che lascino un segno evidente anche quando non ci saremo più a testimoniare personalmente su quella che è stata la deportazione". Gli fa eco Abele Saba, che ricorda i musei-memoriali della Risiera di San Sabba e di Fossoli e l'impegno preso per quello di Auschwitz. per cui già dal 1970 Emilio Foa aveva avviato le trattative con le autorità polacche. Il progetto è messo in agenda dall'esecutivo del 1972 e tuttavia fatica a partire.2 La fase realizzativa vera e propria si apre solo nel 1978, quando il presidente Gianfranco Maris propone la creazione di un comitato operativo interno all'associazione, con un doppio compito: impegnarsi nella raccolta di fondi e occuparsi dell'allestimento del padiglione. Costituito da sette membri dell'ANED - tra cui Lodovico Belgiojoso, incaricato del progetto architettonico, e Primo Levi, chiamato nel suo ruolo di scrittore per tracciare "l'itinerario delle immagini e il discorso politico culturale"3 - il comitato si riunisce per la prima volta il 7 ottobre 1978. Si dà tempo un anno per terminare il progetto, coinvolge Nelo Risi e Pupino Samonà e infine chiede la collaborazione di Luigi Nono.

È chiaro fin dall'inizio che il padiglione non ospiterà una mostra documentaria, ma sarà un "memorial", vale a dire un luogo vivo, capace di interpellare il visitatore non impartendogli una lezione di storia già pronta, ma obbligandolo a un personale esercizio di memoria che metta in gioco la sua conoscenza del passato. Il primo passo è quindi la progettazione architettonica di Belgiojoso, che struttura lo spazio. L'idea è definita fin dal 1975: una "spirale a elica all'interno della quale il visitatore cammina dall'inizio al termine del suo percorso". Una passerella si snoda lungo un tunnel composto da spire realizzate con nastro e illustrate con immagini che testimoniano il "fenomeno storico del fascismo e del nazismo, della Resistenza e della deportazione italiana". Come preciserà Belgiojoso nell'opuscolo Mai più (aprile 1980), si tratta di arrivare a una visione di sintesi che sappia trasmettere l'esperienza vissuta. Lo spazio intende "creare un'atmosfera da incubo": "unitario, ossessivo, realizzato con un ritmo di zone di luce e di ombra" punta a rinviare, attraverso le finestre, alla visione altrettanto ossessiva degli altri blocchi.

Dare voce a questo spazio è il compito di Primo Levi. Il 7 ottobre 1978 è incaricato di scrivere un testo che serva da guida nell'allestimento: lo presenta un mese dopo e ottiene dal comitato l'approvazione all'unanimità. Attraverso le parole di Levi, lo spirito dell'ANED informa il blocco 21. Al visitatore si propone di pensare alla deportazione unitariamente e da una prospettiva che la radichi nella storia del Novecento: "La storia della deportazione e dei campi di sterminio, la storia di questo luogo non può essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa."4 Per questo i testimoni sono evocati in quanto vittime del fascismo e per l'antifascismo, e i primi sono i partigiani e i combattenti politici. Il visitatore di oggi potrebbe stupirsi che la specificità di Auschwitz in quanto centro di sterminio degli ebrei d'Europa non sia messa subito in primo piano, ma lasciata emergere lentamente nella scia del ricordo degli antifascisti. Potrà considerare questa scelta inattuale, ma dovrà fare i conti con Primo Levi e accorgersi che, a meno di non considerarlo un testimone senza spirito critico, alla fine degli anni Settanta questa scelta andava consapevolmente contro corrente. È proprio allora, infatti, che sulla scena pubblica andava emergendo e imponendosi quell'abitudine memoriale, oggi nostra, che fa della deportazione razziale il prisma attraverso cui guardare i campi.

Nella consapevolezza che la deportazione è una storia che riguarda tutti, la voce del testimone Primo Levi affida al visitatore un compito di responsabilità e di memoria: "Visitatore, osserva le vestigia di questo campo e medita: da qualunque paese tu venga, tu non sei un estraneo. Fa che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia stata inutile la nostra morte. Per te e per i tuoi figli, le ceneri di Auschwitz valgano di ammonimento: fa che il frutto orrendo dell'odio di cui hai visto le tracce, non dia nuovo seme né domani, né mai".

Così il Memoriale si affida alla cura delle generazioni che verranno, a cui è data la responsabilità del ricordo del passato di fronte al presente. E, nella ricerca di un rapporto tra generazioni, proprio l'arte è scelta come canale per instaurare un dialogo in grado di ridefinirsi nel tempo e al mutare della sensibilità e delle domande del presente. Quando Belgiojoso e Levi hanno compiuto il loro lavoro di testimonianza per il padiglione, interviene, su proposta di Risi, il pittore Samonà, che deve confrontarsi con tale lavoro e attraverso il suo aumentarne la visibilità. Da allora si avvia quell'esercizio di memoria fatto di ascolto, partecipazione e creazione che il Memoriale chiede a ogni visitatore. Samonà studia e si documenta e ben presto si rende conto della necessità di scartare ogni soluzione pittorica consolidata e ritorna agli elementi fondamentali della pittura: la luce e i colori. Il nero del fascismo si oppone al rosso del movimento operaio, al bianco del movimento cattolico e al giallo che rinvia al mondo ebraico, e mentre questi colori si intersecano e lottano fra di loro, ne emergono i volti e i documenti che testimoniano per la storia d'Italia dal 1919 alla Liberazione.

Avanzando nel Memoriale, si passa dal cupo della prima parte della spirale, dove il nero del fascismo prevale, ai colori luminosi dell'ultima parte, dove il nero va scomparendo, fino all'ultima spira in cui il rosso, il giallo e il bianco si intersecano e formano il tessuto di un mondo tutto da costruire, ma libero dal fascismo e dalle sofferenze della guerra. Non si tratta di aggredire emozionalmente il visitatore con l'esposizione dell'offesa subìta, ma di invitarlo a ripercorrere la storia d'Italia e in essa quella della deportazione, per sentirsi responsabile di fronte all'eredità storica che lo chiama a partecipare alla costruzione del futuro, il proprio e quello della sua collettività. La dimensione collettiva è ribadita dai volti che emergono dietro i colori e, mettendo in secondo piano la dimensione biografica, sottolineano con forza come nell'io del testimone c'è il noi di una storia che riguarda tutti, non solo i compagni scomparsi ma anche ogni visitatore che ad Auschwitz arriva con la sua consapevolezza di uomo e cittadino.

È un messaggio positivo quello che Samonà evidenzia e tuttavia l'opera non diventa, per questo, l'affermazione pacificata della vittoria: nel Memoriale risuona la musica di Luigi Nono. Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz, pensata per la messa in scena de L'istruttoria di Peter Weiss, accumula tensione senza mai scioglierla. Diffondendosi da sotto la passerella, crea una frizione con l'andamento positivo della tela e introduce l'irreparabilità dell'offesa commessa e quindi la consapevolezza dell'impossibilità di una vittoria senza resti. Nella scelta affidata all'arte si traduce lo sforzo di creare uno spazio in cui la memoria si faccia esperienza del visitatore richiamato alla consapevolezza del proprio sapere e alla responsabilità delle proprie scelte. Che almeno il futuro di quest'opera diventi scelta consapevole e condivisa.


Note

(1) Per una ricostruzione generale della vicenda: Il progetto "Auschwitz - Cantiere blocco 21", "Quaderni di 'Ananke", 2009, 1, pp. 2-4.

(2) Tutta la documentazione riguardante il Memoriale citata in questo articolo è conservata presso la Fondazione Memoria della Deportazione, nel Fondo "ANED, Eventi Memorial".

(3) Lettera espresso firmata da Gianfranco Maris, datata 6 settembre 1978.

(4) Il testo si può leggere oggi anche in: P. Levi, Opere, a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, pp. 1335-1336.

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