Rivista "IBC" XVIII, 2010, 2

territorio e beni architettonici-ambientali / interventi, mostre e rassegne

Negli scritti di Bruno Zevi torna il termine "urbatettura" che, fondendo due discipline diverse, cerca di superarne i difetti: il disegno a due sole dimensioni dell'urbanistica e l'architettura che non dialoga con il contesto.
Una parola per costruire

Andrea Zanelli
[IBC]

Questo articolo riproduce l'intervento pronunciato dall'autore il 29 aprile 2010 nell'ambito della rassegna "Disegnare la città. Il controverso rapporto tra architettura e urbanistica", un ciclo di 16 lezioni e una tavola rotonda con docenti ed esperti delle due discipline, realizzato a Bologna tra marzo e luglio a cura dell'Urban Center, della sezione regionale dell'Istituto nazionale di urbanistica, e dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna (www.ibc.regione.emilia-romagna.it/wcm/ibc/eventi/disegnarelacitta.htm).


"Urbatettura": un vocabolo non propriamente eufonico. Forse suona un tantino meglio l'originale inglese urbatecture. Il termine è stato coniato dall'architetto polacco-inglese Jan Lubicz-Nycz, di cui Bruno Zevi riporta, in un editoriale della sua rivista mensile "L'architettura. Cronache e storia", alcune riflessioni sviluppate nel 1965, anno in cui vince il concorso di idee per l'Euro-Kursaal di San Sebastián in Spagna.1 Di questo autore Zevi ha già presentato due anni prima alcuni progetti di concorso,2 fra cui quello per Tel Aviv del 1963, dove si tratta di riqualificare un'area fatiscente per estendere il centro direzionale e commerciale della città, prevedendo inoltre 3000 abitazioni e una nuova zona balneare; l'architetto risponde con un espressivo gruppo di grattacieli a forma di cucchiaio, in cui trovano posto tutte le attività: uffici, in alto; poi, man mano che i fusti si espandono, le case unifamiliari; e, in basso, le attrezzature e i servizi.

L'urbatettura, fondendo architettura e urbanistica, dà la possibilità di realizzare parti di città col progetto architettonico, creando contenitori polifunzionali integrati che formano l'intero tessuto urbano. I disegni di Lubicz-Nycz si accostano alle proposte megastrutturali degli utopisti (come Archigram), ma nel suo caso gli studi si spingono a verificare la concreta fattibilità strutturale, economica e sociale degli interventi. Scrive Lubicz-Nycz:


In tempi in cui il processo di urbanizzazione si accelera con estrema rapidità, l'architettura come disciplina dedita alla creazione di edifici singoli a funzione specifica - scuola, chiesa, casa, fabbrica, ospedale eccetera - diviene l'esangue strascico dell'attività artigianale del passato... Un'arte superficiale, analoga alla scenografia, detta urban o civic design... L'urbanistica moderna ha prodotto due idee con cui ha continuamente, e senza successo, cercato di rispondere alle crescenti domande imposte dal processo di urbanizzazione. Esse sono: a) la città-giardino, scaduta a sinonimo di espansione periferica; b) la Ville Radieuse, che propugnò l'uso razionale di edifici alti, la viabilità a più livelli, le sistemazioni paesaggistiche, ma in effetti è stata utilizzata per realizzare enormi e inumani blocchi residenziali, baracche verticali stupide e inespressive, lasciate nello squallore se di proprietà pubblica, e un po' decorate se costruite a fini speculativi... La zonizzazione e la mentalità segregazionista continuano a separare la vita in compartimenti stagni... Urge ormai liberarsi da questa concezione di unità isolate, pensare strutture organiche, con pluralità di funzioni, atte a formare gusci-contenitori di umanità, di un sistema di vita...


Zevi, che spesso riporta nei propri scritti elaborazioni altrui, chiarendo dov'è d'accordo e dove no, in questo caso non solo non ha alcun appunto da fare alle tesi di Lubicz-Nycz, ma riproduce questo stesso testo anche in due sue importanti opere successive: Il linguaggio moderno dell'architettura (1973) e Storia dell'architettura moderna (nella revisione operata a distanza di un quarto di secolo dalla prima uscita, nel 1975). Con ciò, dunque, fa proprio il nuovo termine "urbatettura". In quegli anni egli è nel pieno della sua vasta attività: dirige da un decennio la sua rivista mensile, tiene una rubrica settimanale di cronaca architettonica sull'"Espresso", è segretario generale dell'Istituto nazionale di urbanistica e vicepresidente dell'Istituto nazionale di architettura, svolge attività professionale in uno studio associato, pubblica il ricco apparato di studi su Biagio Rossetti, è professore ordinario di Storia dell'arte e Storia e stili dell'architettura all'Università di Roma.

Fra i contributi innovativi più importanti di Zevi c'è l'applicazione, a ogni epoca del passato, del suo metodo di interpretazione spaziale dell'architettura, già sviluppato nei propri lavori di storia e critica operativa dell'architettura moderna e contemporanea. Il vocabolo "urbatettura", quindi, non tarda a divenire d'interesse anche dello storico Zevi, in quanto si adatta perfettamente a descrivere, per esempio, una delle modalità di costruzione della città medioevale: l'intreccio, il continuum di spazi aperti e spazi costruiti, i percorsi inglobati nelle case (come i portici), eccetera. Si veda, infatti, quello che scrive su Perugia in un testo, Viatico urbatettonico, che costituisce l'introduzione di una pubblicazione del 1970 sulla città e sulla campagna perugine: "Ecco l'eccezionale, imprevista modernità di Perugia. Invera un processo antico che stiamo riscoprendo: fonde urbanistica e architettura eliminando l'astratto piano bidimensionale, velleitario normativo mortificante, e insieme l'edificio-oggetto autonomo, inscatolato, pieno contrapposto a vuoto. A Perugia trionfa l'urbatettura, cioè un'intenzionalità che coinvolge il totale e costantemente si rialza in terza dimensione, nelle fabbriche sghembe, nelle rampe, negli sporti, [...] nelle volte e nei ponti aerei".3 Si precisa qui, dunque, il valore del concetto di urbatettura, come superamento dei difetti delle due discipline: da un lato il disegno a due sole dimensioni dell'urbanistica, dall'altro il progetto architettonico che non dialoga con l'intorno.

In Saper vedere l'urbanistica Zevi ripropone i suoi studi sulla Ferrara rinascimentale, premettendovi un significativo testo di interpretazione spaziale della città, accompagnato da una carrellata sulla storia urbanistica dal Paleolitico a oggi. Il volume appare per i tipi di Einaudi nel 1971. Sarà poi aggiornato nel 1997, con il titolo Saper vedere la città. Nel capitolo introduttivo, Zevi sostiene che il termine "urbanistica" è ambiguo e polivalente; riguarda infatti tre aspetti: programmazione economica territoriale, configurazione regolamentata degli abitati, costruzione spaziale concreta della città. Anche l'architettura può essere suddivisa in tre momenti: concezione economico-sociale dell'edificio, distribuzione funzionale degli ambienti, realizzazione effettiva. Per entrambe le discipline, i primi due aspetti attengono alla progettazione, ma solo il terzo, quello concreto, è l'elemento che occorre "saper vedere".

La distinzione fra "urbanistica - spazio esterno" e "architettura - spazio interno" è uno schema utile, ma per cogliere il carattere di "uno slargo, un vicolo, un quartiere valgono gli stessi metodi critici atti a definire le sale, le gallerie, i portici, la corte di un palazzo". Il paragone "città-casa" (in cui al soggiorno corrisponde il cuore urbano, allo studio le scuole, alla cucina e dispensa corrispondono i mercati e le fabbriche, ai corridoi e disimpegni strade e piazze) non è così ingenuo come sembra: "Anziché frammentare la casa in una serie di cubetti giustapposti [...] oggi si tende a integrare: abbiamo così ambienti polifunzionali, al limite l'ambiente unico. Non diversamente in urbanistica: superato lo scisma tra città e campagna, respinto il concetto di zoning che riflette le divisioni di classe [...] si elaborano tessuti in cui convergono e fondono le tradizionali ripartizioni fra residenza, lavoro, scuola, svago... A rigore, non esistono né architettura né urbanistica, ma soltanto urbatettura. Malgrado il salto di scala, la sostanza del discorso non muta".

Nel già citato Linguaggio moderno dell'architettura, Zevi analizza quelle che definisce le sette invarianti di questo linguaggio. Le prime sei invarianti (elenco dei contenuti e delle funzioni; asimmetria e dissonanza; tridimensionalità antiprospettica; scomposizione quadrimensionale; strutture in aggetto, a guscio e a membrana; temporalizzazione dello spazio) stanno a indicare come il movimento moderno si sia affrancato dai dogmi classicisti e dalle regole accademiche; la settima (reintegrazione edificio, città, territorio) indica la via dinamica della ricomposizione degli elementi architettonici elencati e scomposti nelle prime sei. "Crolla ogni distinzione tra spazio esterno e interno, tra architettura e urbanistica; dalla fusione edificio-città nasce l'urbatettura. Non più blocchi occupati da fabbriche e blocchi vuoti delle strade e degli slarghi; disintegratane la trama, il paesaggio viene reintegrato. Superando la vecchia dicotomia città-campagna, l'urbatettura si dilata nel territorio, mentre squarci naturali penetrano nel tessuto metropolitano".

Domanda: Zevi ha "parlato" il linguaggio dell'urbatettura nel corso della propria attività professionale (che peraltro non è certo stata la sua occupazione prevalente)? Nel 1954 è nel gruppo di progettazione della stazione centrale a Napoli (inaugurata nel 1966), con Pierluigi Nervi, Carlo Cocchia, Massimo Battaglini, Luigi Piccinato, Giulio De Luca e Giuseppe Vaccaro: la copertura s'incunea organicamente nella grande piazza antistante, offrendo una vitale permeabilità a livello stradale e sotterraneo. Dal 1967 al 1970 partecipa allo Studio "Asse" per le ricerche sull'Asse attrezzato e sul nuovo Sistema direzionale orientale di Roma, con Vinicio Delleani, Mario Fiorentino, Riccardo Morandi, Vincenzo, Fausto e Lucio Passarelli, Ludovico Quaroni.

Nel numero monografico di "L'architettura. Cronache e storia" dedicato a quest'ultima esperienza si precisa l'idea alla base del progetto: "Si è convinti [...] che per le attività terziarie sia preferibile, oggi, a un insieme di edifici distinti, autonomi uno dall'altro e ognuno destinato a una sola istituzione umana [...], un complesso di volumi edilizi fra loro comunicanti", plurifunzionali, connessi da un percorso senza soluzione di continuità. Anche gli spazi a verde, le coperture, le pareti gradonate dovranno far parte di questa "promenade". "Come in un bazar d'oriente l'integrazione fra le attività dovrebbe essere massima".4 Così il piano urbanistico si traduce in un'immagine a tre dimensioni, se pur schematica, delle concrezioni edilizie che formano i comprensori. Nel piano del centro storico di Benevento, firmato con Sara Rossi (1985-1990), per alcune aree nodali di ristrutturazione urbanistica vengono introdotti i "piani-progetto". In tutti questi casi la dimensione urbanistica e quella architettonica sono fortemente interrelate.

Zevi cita per l'ultima volta la parola "urbatettura" nella relazione introduttiva del convegno di Modena "Paesaggistica e linguaggio grado zero dell'architettura" (1997), riportata nel numero speciale della sua rivista a esso dedicato.5 In questo testo ripercorre con un'unica carrellata tutti i temi della sua attività di studioso e di critico, illustrandola con le immagini più significative dell'architettura di ogni tempo, dalle caverne al berlinese museo ebraico di Libeskind. Fra queste immagini ripropone anche i grattacieli a cucchiaio, cioè le urbatetture degli anni Sessanta di Lubicz-Nycz.

È ancora viva la parola "urbatettura"? Se si interroga Google, i risultati sono numerosi e non tutti pertinenti; in generale, comunque, il termine sembra non aver perso la sua efficacia. Lo utilizzano seguaci, amici o collaboratori di Zevi, come Aldo Loris Rossi, Massimo Pica Ciamarra, Luigi Prestinenza Puglisi, Mariopaolo Fadda, e altri ancora. Antonino Saggio, per esempio, così racconta l'urbatettura forse più importante degli ultimi anni, il Museo Guggenheim di Frank O. Gehry a Bilbao. È Gehry stesso a scegliere l'area, una zona industriale semiabbandonata fra centro, zone periferiche e fiume. Questi tre elementi vengono connessi con un'operazione al tempo stesso plastica e urbana, riqualificando un sito derelitto e riagganciando la città al suo fiume.

Nel progetto di Gehry i corpi si avvitano e si proiettano con grande forza, e creano spazi esterni, frequentati a ogni ora del giorno, per far vivere l'opera insieme al suo intorno. Le aree di riqualificazione offrono una grande occasione progettuale: ripensare il funzionamento della città apre strade nuove alla ricerca estetica ed espressiva, ma soprattutto consente di intervenire efficacemente sulle intersezioni, sui flussi, sulle complessità della città. L'urbatettura appartiene dunque a una visione non finita, aperta e dinamica del divenire urbano.


Note

(1) "L'architettura. Cronache e storia", 1965, 126, p. 423.

(2) "L'architettura. Cronache e storia", 1964, 100, pp. 742-754.

(3) Messaggi Perugini, a cura di S. Ray e C. Severati, Perugia, Industrie Buitoni Perugina, 1970; 64 schede di 22x35 centimetri; edito in occasione del concorso internazionale di idee per il Centro direzionale di Fontivegge.

(4) "L'architettura. Cronache e storia", 1975, 238-239, pp. 203-204.

(5) "L'architettura. Cronache e storia", 1998, 503-506, pp. 370-398.

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