Rivista "IBC" XVII, 2009, 4

Dossier: Insieme 'in re publica' - Federalismo e beni culturali

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /

Riprendiamoci l'articolo 9

Roberto Balzani
[docente di Storia contemporanea all'Università di Bologna]

Professor Balzani, quali sono i migliori esempi di governo "federale" del patrimonio culturale e quali i limiti maggiori di questo processo così come è stato finora attuato in Italia? In quale direzione regioni ed enti locali dovrebbero compiere uno sforzo per superare questi limiti eventuali?

Il punto sta tutto nelle virgolette. Già, perché un conto è parlare di federalismo, un conto di "federalismo". Ora, circa il primo, è bene dire che in Italia non esiste. Il decentramento spinto previsto dal titolo V della Costituzione non è, infatti, il frutto di una pulsione autonomista dal basso, meditata e imposta dalle comunità, ma un processo di riorganizzazione delle istituzioni in buona misura pensato e gestito dal centro del sistema. L'esito imprevisto del "federalismo", quello spurio, all'italiana, è, direi in forma strutturale, il conflitto istituzionale, cioè la migrazione della negoziazione dal tavolo dell'autonomia a quello delle competenze. Solo che l'un tavolo è politico, l'altro giuridico-amministrativo. Penso che la gestione in termini prettamente giuridico-amministrativi di un nodo così complesso come il "federalismo" (anche nella sua versione con le virgolette) costituisca un vero problema: forse il maggiore problema attuale, visto il blocco di fatto, in Parlamento, dei percorsi di decentramento nel corso di questi mesi.

Quanto detto resta sul terreno generale, però. Se, infatti, ci spostiamo su quello del patrimonio culturale, a me pare che l'applicazione del "federalismo" risulti complicata da una sovrapposizione di fattori: la scarsa chiarezza del dettato costituzionale; l'a priori della scelta politica nazionale; la scarsità cronica di risorse. La prime due questioni risultano intrecciate. Il Ministero per i beni e le attività culturali ha storicamente forze limitate per un immane compito nazionale, e perciò ha costruito strategie amministrative per lo più negoziali e difensive, quando non ostative. Il potere di interdizione, soprattutto in ambito urbanistico e paesaggistico, costituisce spesso la chiave di volta delle politiche praticate, in assenza di mezzi e, forse, anche di un disegno preciso promosso dallo Stato, al di là della retorica sulla "ricchezza d'Italia", che ha accompagnato, si può dire, tutta l'avventura delle belle arti da Cesare Correnti in poi.

È anche vero, però, che la propensione alla sistematica distruzione dei beni immobili, incoraggiata dal sistema fiscale locale e dalla pressione degli interessi, è l'altra faccia della medaglia: ritengo che le classi dirigenti comunali, salvo rari casi, siano del tutto incapaci di gestire in solitudine un'autentica politica del patrimonio. Non ne hanno la cultura e non ne sentono neppure la necessità. In questo quadro, un fondamentale ruolo "terzo" dovrebbe essere giocato in effetti dall'ente regione: e, non a caso, la "valorizzazione dei beni culturali e ambientali e [la] promozione e organizzazione di attività culturali" sono, secondo l'articolo 117 della Costituzione, materia di "legislazione concorrente". Non solo: quanto alle "funzioni amministrative", "la legge statale [...] disciplina forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali" (articolo 118).

Non c'è dubbio che la regione - penso al caso emiliano-romagnolo - si occupi di valorizzazione e di promozione culturale: resta tuttavia il problema dei rapporti con i comuni, quanto a trasferimento di quote effettive di sensibilità culturale. Se, infatti, il nodo dell'impecuniosità è aggirato dalle soprintendenze attraverso l'esercizio del controllo, nel caso della relazione tra regioni ed enti locali la legittimazione passa ancora soprattutto attraverso il trasferimento di risorse: in assenza di flusso, la pianificazione regionale appare, se vista dalla "periferia", come una serie di atti amministrativi dal contenuto alquanto astratto. La mia opinione è che, al di là delle funzioni attribuite ai vari attori del sistema, il punto fondamentale - tra l'altro abbordabile anche in un ciclo finanziario critico come l'attuale - consista nella formazione a medio termine di funzionari preparati obbligatoriamente da una Grande École del patrimonio. Solo una cultura comune - umanistica e tecnico-amministrativa - può infatti consentire di tenere insieme il valore nazionale del patrimonio culturale e del paesaggio, da un lato, con la realtà effettiva e multiforme delle strutture deputate alla conservazione e alla valorizzazione, dall'altro. La casualità dei profili formativi di tanti operatori culturali su scala territoriale dà il senso della tenuta difficilissima di qualsiasi politica minimamente articolata e non rigidamente vincolistica, indipendentemente dalla sostenibilità teorica degli equilibri istituzionali raggiunti in sede giuridico-amministrativa.


Come si concilia, nell'attuale sistema costituzionale, il fatto che il governo del territorio (dell'urbanistica in particolare) è amministrato dai poteri locali, mentre la tutela (del paesaggio e dell'ambiente) da quello centrale?

Si concilia male. Ma il punto non è costituzionale. Il punto vero è di natura fiscale, economica. Non è possibile, infatti, affermare il principio sacrosanto del riuso delle aree dismesse e del risparmio del territorio - tanto in una prospettiva di tutela, quanto in una prospettiva ambientale - se poi, di fatto, gli strumenti di cui comuni e province dispongono per sostenersi e per fare investimenti dipendono in modo ineludibile dal consumo di territorio (oneri di urbanizzazione) o dalla promozione spinta del traffico veicolare su gomma (tasse d'immatricolazione dei veicoli, eccetera). Se ci si muovesse verso una riforma radicale della fiscalità, in sintonia con i programmi di green economy europei che pure il nostro Paese ha sottoscritto, è evidente che sarebbe molto più semplice rendere sovrapponibili le politiche, al di là degli attori costituzionalmente deputati a promuoverle.

In altri termini, esiste a livello locale un contrasto tra retoriche: da un lato quella dei beni culturali, di solito presente presso i ceti colti ma politicamente debolissima, dall'altro quella della modernizzazione à tout prix, che altro non è se non il volto della più classica tra le forme di creazione della ricchezza storicamente disponibili: la speculazione sulle aree fabbricabili.


Il dibattito sul federalismo ha sofferto spesso di pregiudizi e di tesi preconcette su entrambi i fronti: come rilanciare la discussione su un diverso e più ampio orizzonte culturale?

In primo luogo porrei la questione del patrimonio collegato alla nazione e di quello collegato alla comunità, una questione capitale per il federalismo. Al di là delle ripartizioni costituzionali, infatti, questo mi pare il tema centrale. Esiste un patrimonio culturale essenziale per la nazione, e tale da essere sottoposto a tutela e a valorizzazione tramite specifici interventi statali e regionali? Ebbene, questo tipo di patrimonio, inevitabilmente circoscritto, deve essere riconosciuto in modo sufficientemente preciso, e non lasciato alla casuale negoziazione tra burocrazie. È chiaro che siamo in una logica abbastanza diversa rispetto a quella del Codice: se esso è onnicomprensivo ed estensivo (fino al punto di includere tra i beni "patrimoniali" cose immateriali persino di difficile individuazione), proprio per rendere efficace l'azione dell'attore centrale si dovrebbe scegliere. Perché tutelare tutto è impossibile. Occorrerebbe recuperare, per intendersi, un po' dello spirito pragmatico della grande legge del 1909.

In seconda battuta, si dovrebbero avviare gli amministratori e i funzionari dei comuni a una pedagogia dei beni culturali: perché esistono incontestabilmente, sul territorio, una serie di altri beni, senza dubbio culturali, il cui senso è attribuito da un processo di patrimonializzazione di tipo locale. In questo caso, le forme della conservazione e della valorizzazione dovrebbero essere più elastiche, in qualche modo affidate alle concrete possibilità di operare in loco le scelte più efficaci (gestione pubblica, mista, fondazioni, eccetera). A unire le due dinamiche - statale/statale-regionale e "periferica" - dovrebbe essere la formazione dei soggetti materialmente incaricati di realizzarle: funzionari o specialisti o consulenti, in grado di ricostruire la catena del valore storico-artistico, archeologico o paesaggistico, di elaborare gli strumenti idonei alla conservazione, di comunicare, infine, il significato sociale delle scelte, degli interventi selettivi. Oggi tutto avviene in modo eccessivamente casuale: persino a livello di soprintendenza, la cultura e la sensibilità degli attori più rilevanti fanno troppa differenza, influiscono troppo sulle opzioni presenti sul tappeto.


In definitiva, alla luce della sua esperienza, in quali termini è ancora possibile in Italia una politica dei beni culturali?

Ripeto: credo che dobbiamo affrontare anzitutto un'emergenza formativa. La miriade di corsi di Beni culturali, anziché diffondere una sensibilità basata su fondamentali comuni, ha favorito la popolarizzazione dello slang "beniculturalista", gabellando sovente un percorso di tipo umanistico "puro" per uno più tecnico, che in realtà non è mai nato (e che le stesse classi di laurea predisposte dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca non hanno affatto contribuito a delineare con coerenza). Tutto ciò, da una parte, rende la questione del patrimonio culturale più presente nel discorso pubblico, dall'altra sembra precludere la concreta possibilità di affrontarla con chiarezza e razionalità. Secondo un classico refrain italiano, la pervasività del luogo comune surroga l'azione politica. Credo che la politica dovrebbe riappropriarsi, viceversa, dell'articolo 9 della Costituzione, e da lì interrogarsi e ripartire: che cosa significa "paesaggio" e "patrimonio storico e artistico" per la "Nazione"? Dalla risposta a questa domanda non dovrebbe dipendere un allargamento dei cordoni della borsa - cosa del tutto impensabile, oggi e anche domani - ma una coerenza nell'impianto del progetto da perseguire.

Se devo guardare in primo luogo alla "Nazione" - che non è più quella del '48, che nel frattempo è divenuta altro -, come saldare i "beni", dotati di un loro valore intrinseco (venale o meno), al valore sociale, collettivo? Come riconoscerla, questa saldatura? E poi, in nome del federalismo (e del titolo V nuova versione): come procedere ad analogo percorso, nel caso di cose - uso ancora la splendida definizione contenuta nell'articolo 1 della legge del 1909 - significative a scala di comunità? E come evitare che le amministrazioni locali, per ragioni di bilancio o elettorali, facciano finta spesso che l'articolo 9 neppure esista? Ecco, una politica dei beni culturali dovrebbe ripartire, a mio avviso, da questi nodi: non dalle riforme del Ministero, che mi pare siano una conseguenza, più che una premessa; né dalla negoziazione di competenze tra istituzioni. Come piacerebbe invece al "federalismo". Quello con le virgolette, beninteso.


[a cura di Valeria Cicala e Maria Pia Guermandi]

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