Rivista "IBC" XVII, 2009, 3

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / interventi

Progettare un parco, un'area residenziale o un giardino, ascoltando prima di tutto il luogo che si ha davanti. Con l'aiuto di un antropologo del paesaggio, si può fare.
L'orecchio dell'antropologo

Matteo Meschiari
[ricercatore in Beni demoetnoantropologici all'Università di Palermo]

L'antropologia del paesaggio si è occupata della storia, intesa come processo culturale, dell'incontro tra uomo e ambiente, ma non è mai mancata all'antropologo una preoccupazione rivolta al qui e all'ora. In particolare, lo studio del modo in cui culture diverse dalla nostra concepiscono e vivono il paesaggio ha permesso di comprendere meglio l'invenzione di questo concetto in Occidente. E non solo: ha permesso di relativizzare il nostro sguardo, e di capire che il legame tra l'uomo e la natura merita uno studio allargato nello spazio e nel tempo, per trovare piste alternative nella gestione sempre più complessa dei problemi ambientali.

L'antropologo del paesaggio, traducendo in fatto culturale le proprie osservazioni sul rapporto che, per esempio, gli Inuit della Groenlandia o gli Aborigeni australiani intrattengono con i loro paesaggi, non solo arricchisce la nostra conoscenza storica dei popoli remoti, ma aiuta a capire come tradurre queste conoscenze in una critica ferma e serena ad alcuni modelli di comportamento ambientale che sono errati, o insensati, perché "troppo" occidentali. L'antropologo del paesaggio, dunque, non studia solo il passato e il lontano, ma getta uno sguardo analitico sulla propria cultura, per passare dall'osservazione all'azione.

In primo luogo, si tratta del contributo possibile dello scienziato nel reperire nuovi soggetti meritevoli di tutela etica e giuridica: in equilibrio tra professionalità e militanza, egli addita perché e in che modo si possa inscrivere un paesaggio in un sistema di valori allargato. Se la "Convenzione europea del paesaggio" firmata a Firenze il 20 settembre 2000 ha riconosciuto il paesaggio come un bene culturale a tutti gli effetti, restano ancora da definire i margini e i significati in base ai quali tale "bene" possa essere individuato e tutelato. In un intervento importante pronunciato in qualità di presidente dell'Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, Ezio Raimondi ha insistito sul fatto che il paesaggio non è un'aggiunta alla lista dei beni culturali, ma è uno specchio nel quale si riflette e si interpreta l'intero sistema culturale. Perché si tratta di pensare il paesaggio "non come un capitolo in più dei beni culturali, ma come il contesto necessario per intendere davvero i beni culturali nella loro concretezza e nella loro varietà".1

Proprio in questo senso, l'antropologo del paesaggio si candida come figura professionale per interpretare alcuni passaggi-chiave della legislazione in materia. Per esempio, nelle "Definizioni" dell'articolo 1 della Convenzione, il termine "Paesaggio" viene definito "una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni". Oppure, nel Preambolo, si dice: "Consapevoli del fatto che il paesaggio coopera all'elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell'Europa, contribuendo così al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento dell'identità europea; [...]".

È chiaro che concetti come "percezione", "elaborazione delle culture locali", "consolidamento dell'identità", sono temi di riflessione che non sempre toccano le preoccupazioni o le competenze specifiche dei professionisti della pianificazione ambientale. Invece sono questi (e molti altri) i nodi interpretativi che proprio l'antropologo può e deve considerare dall'angolatura epistemologica che gli è propria, fornendo un supporto analitico all'amministratore locale, regionale o nazionale, e offrendo un'alternativa professionale convincente al ricorso monocorde, e a volte di parte, che si fa dell'architetto del paesaggio nelle équipe di valutazione d'impatto ambientale e sociale di un determinato intervento.

Inoltre, nel ventaglio delle sue possibilità interpretative, c'è anche quella di vigilare sui riduzionismi in agguato. Si pensi, per esempio, al rischio onnipresente di cadere in un meccanicismo binario e selettivo di tipo estetico, che divide in "salvati" e "dannati" i nostri paesaggi. Ogni paesaggio è invece un'alterità irriducibile che merita comprensione, e il ruolo possibile dell'antropologo del paesaggio è appunto quello di chi si inserisce in un concorso di intelligenze per rilevare sfumature nuove ed evitare vecchi trabocchetti culturali.

Ovviamente, il rischio è quello di scambiare il suo contributo per un ulteriore intellettualismo che rallenta l'azione. Ma, in modo molto pragmatico, se si cercano appoggi e fondi dalla Comunità europea per sviluppare un progetto paesaggistico, o se si vuole agire nel rispetto del "Codice dei beni culturali e del paesaggio", queste problematiche non possono restare lettera morta, e infatti, sempre più spesso, gli studi di architettura del paesaggio inseriscono nel loro staff scientifico un antropologo professionista, per valutare l'impatto sociale del loro operare e per predisporsi a un ascolto più responsabile delle esigenze delle comunità locali.

Ciò che sembra, però, sempre più evidente è che il lavoro dell'antropologo del paesaggio ha un peso non solo tecnico-professionale ma, più in generale, sociale: può agire, infatti, come figura centrale nella negoziazione tra abitanti e professionisti della progettazione paesaggistica. Constatando cioè la tendenza a un certo scollamento tra l'effettiva committenza, rappresentata nelle comunità locali dalle persone reali, e le forze intellettuali chiamate a risolvere quesiti sulla gestione del territorio, si sta indicando proprio nell'antropologo un possibile consulente super partes. Non si tratta quindi di inserirlo nello staff scientifico di uno studio di architettura, ma di contemplare la sua presenza sul terreno come un momento autonomo e necessario dell'ascolto delle persone e della raccolta dei dati antropici, da un lato, dell'interpretazione "umana" delle normative vigenti e della "traduzione" del progetto in forme comprensibili a tutti, dall'altro.

Queste note nascono da una riflessione e da un'esperienza sul campo, maturate nell'attività che chi scrive ha svolto prestando consulenze per alcuni studi di architettura e per alcune comunità locali interessate a sviluppare in modo responsabile il tema della gestione ambientale e del territorio. In particolare, in occasione del workshop "EcoRurality" (26 maggio - 6 giugno 2009) - guidato ad Allai (Oristano) da Alessandro Villari e Alessio Battistella, e promosso, oltre che dall'associazione "Paesaggi Connessi", da Paolo Mestriner e Elisabetta Bianchessi del Master "Paesaggi Straordinari" del Politecnico e della Nuova accademia di belle arti di Milano - sono stati definiti alcuni punti nodali che consentono di individuare i "compiti" dell'antropologo. Dai dati emersi, lo sguardo dell'antropologo è innanzitutto quello di colui che non formula risposte ma crea le condizioni perché si pongano domande in modo corretto.

Nel caso del paesaggio la prima domanda centrale è: come si conosce un luogo? La seconda è: conosciamo davvero il nostro luogo? L'antropologo del paesaggio è colui che, moltiplicando le domande, può aiutare abitanti e professionisti ad allestire un osservatorio privilegiato sugli spazi e sui tempi di un luogo. E la sua specificità rispetto all'architetto, all'agronomo, all'ecologo, al geologo e al filosofo del paesaggio, è quella di cercare la "struttura che connette" i molti approcci possibili al paesaggio e, in senso olistico, di porre al centro del suo campo di studio le attività fisiche, cognitive e culturali dell'uomo osservato nel suo ambiente di vita.

Ma non basta. Compito "istituzionale" dell'antropologo è raccogliere (in inchieste), ordinare (in archivi), studiare (in pubblicazioni), esporre (in musei) i dati che emergono dall'incontro complesso tra un gruppo umano e un paesaggio. Ma il suo vero compito è pensare come viverlo, ascoltando chi lo ha fatto da sempre (le comunità locali) e chi lo ha fatto altrove (le comunità lontane). Chi usa, pianifica, gestisce, modifica e costruisce il territorio ha bisogno di sapere perché e in che modo un luogo è anche un bene immateriale: potrebbe armonizzare il proprio operare con esigenze collettive fondamentali (il paesaggio contribuisce alla qualità della vita), potrebbe scoprirne il valore economico (le buone idee sul paesaggio si comprano e si vendono sempre meglio), potrebbe "pensare sostenibile" non solo in termini di impresa ma di intrapresa, cioè di avventura umana.

Se dunque si pensa che l'antropologia sia rivolta al passato e al lontano, è per lo più vero, ma nel caso del paesaggio è anche diverso: non basta studiare la storia del rapporto di una comunità col suo ambiente e metterla a confronto con altre storie di altre comunità in altri ambienti. Non basta capire cosa un paesaggio è stato, bisogna capire cosa può diventare, cosa chiede di diventare. Più che studiare il paesaggio come spazio di vita bisognerebbe pensarlo come vita dello spazio, cioè come alterità, un "tu" autonomo che ha un passato descrivibile ma anche un "destino" immaginabile. Tuttavia, come si ascolta un paesaggio per individuarne il potenziale antropologico? Come mettere assieme, sotto un unico sguardo critico, il fascio di voci (ambientali, culturali, sociali, economiche) che abitano un paesaggio?

L'antropologia del paesaggio mostra che, tradizionalmente, le comunità umane tendevano a interagire tra loro, con altre comunità di viventi e con il loro ambiente, organizzandosi in insiemi che erano in continuità con le caratteristiche fisiche ed ecologiche della porzione di territorio che abitavano. In questo senso torna utile il concetto di "bioregionalismo", un approccio conoscitivo, etico, politico, ideologico ed economico che si basa sull'individuazione, nel territorio, di regioni omogenee dal punto di vista geomorfologico, ecologico, socioeconomico e culturale. La bioregione è infatti un'unità territoriale omogenea dal punto di vista geofisico ed ecologico: un bacino fluviale, una catena montuosa, una pianura, una fascia costiera eccetera. Può includere ecosistemi diversi, ma anche paesi e città.

In quest'ottica si tende a considerare omogeneo un territorio geografico più in base a "regole naturali", dettate dall'ambiente, che non esclusivamente umane, cioè imposte dall'alto. Ed è qui che dall'essere si passa al dover essere, cioè all'azione: per esempio, all'organizzazione umana decentrata, al mantenimento dei processi biologici locali, alla conservazione delle biomasse, alla cura delle formazioni geomorfologiche, alla tutela delle costanti ecologiche, all'individuazione e valorizzazione di "parchi immateriali". E anche al mantenimento delle economie locali, delle forme tradizionali del fare e dell'abitare, in base al principio che sono il frutto secolare di una complessa (e lentamente negoziata) saggezza del territorio. Questa è certamente una prima forma di ascolto.

Ma il nesso con il paesaggio è anche più profondo. Da vari studi si può supporre che la mente dell'uomo sia paesaggistica, cioè che nel corso dell'evoluzione sia stata modellata a immagine e somiglianza dei paesaggi naturali. Per semplificare, le nostre strutture cognitive innate sono il risultato di una serie di pressioni ecologiche: per circa due milioni di anni, l'uomo è stato un cacciatore-raccoglitore, e il suo modo di pensare era naturalmente funzionale all'ecosistema. Nonostante il contesto sia radicalmente mutato, questo scambio di fluidi tra mente e ambiente resta attivo in noi.

Prendere allora coscienza di uno strato profondo così attuale, e delle dinamiche complesse che hanno visto l'uomo adattarsi fisicamente, culturalmente ed economicamente al suo territorio, può aiutare a capire la storia passata e futura di un luogo che si vuole "salvare", "valorizzare", "riorientare", o anche semplicemente abitare in modo armonico. Si tratta, ancora una volta, di allenare l'ascolto, perché anche in Italia si arrivi a progettare un parco, un'area residenziale, o un semplice giardino ascoltando prima di tutto il luogo. E magari ascoltando un antropologo del paesaggio, che dell'ascoltare luoghi ha fatto una professione.


Nota

(1) E. Raimondi, Uniti nel paesaggio, "IBC", XV, 2007, 2, pp. 38-41.

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