Rivista "IBC" XVII, 2009, 1

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / corrispondenze, itinerari

Viaggio nella regione afghana dello Hazarajat, all'ombra della montagna che fu la dimora delle statue giganti del Buddha.
Assenze e presenze a Bamyan

Alessandro Califano
[Centro ricerca e documentazione arti visive, Roma]

Lacerando il silenzio di metà mattina, la mina esplode a cento metri di distanza, dietro un boschetto di pioppi lungo il fiume, ma l'eco rimbomba a lungo nella valle e sembra provenire al tempo stesso da ogni dove. Uno stormo di colombi passa a volo radente, proveniente dagli alberi, cercando rifugio verso l'altipiano dell'aeroporto. Intento a scendere per una ripida scorciatoia indicatami, resto un momento immobile. Mi tornano alla mente le raccomandazioni allarmistiche raccolte a Tashkent, al centro crisi del Ministero degli esteri, in Ambasciata a Kabul: "Mai, per nessun motivo, abbandonare la strada avventurandosi oltre i margini asfaltati!". Nella valle più in basso, lungo il ruscello che a centinaia di chilometri da qui diventerà un affluente dell'Amu Darya, le donne continuano a raccogliere patate, un anziano cavalca imperturbabile il suo asino. Solo un ragazzino, affacciatosi bruscamente da sotto il giogo di un bue, mostra di essersi accorto dello scoppio. Ricordando a me stesso i motivi di questo mio strano viaggio - valutare se l'ipotesi di sviluppo di un turismo locale sia del tutto campata in aria o meno, e individuare temi e spunti ove l'aiuto della comunità internazionale dei professionisti dei musei possa rivelarsi utile ed efficace - bado a non abbandonare il sentiero tracciato sul pendio e riprendo a scendere nella valle di Bamyan.

Di fronte a me - oltre alla stretta passerella sul ruscello, altri campi di patate e la parte più antica dell'insediamento (la moschea, un fortino di terra, qualche casa) - si erge il costone che chiude la valle a settentrione. Illuminate dal sole di mezzogiorno, a centinaia, le grotte dei monaci buddhisti. Centralmente si aprono tre grandi nicchie. Le due che, fino al marzo 2001, avevano ospitato le gigantesche statue del Buddha. La terza, centrale, che ospitava una statua del Buddha seduto, più piccola, ma pur sempre monumentale, scomparsa in epoca precedente. È strano come l'assenza delle statue non riduca, ma semmai perfino accresca la suggestività del luogo. Per un'ironia della storia, con la loro azione teppistica, i taliban hanno - certo, involontariamente! - attivato un simbolismo prettamente buddhista. La "presenza nell'assenza" dell'aura buddhista è massima, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ricorda, per analogia, l'assenza di volto del Buddha centrale nel monumento di Borobudur: la leggenda vuole che sia così perché il visitatore, al termine della circumambulazione, dovrebbe vedervi riprodotte le proprie fattezze. Così avviene a Bamyan, dove per eliminare davvero le tracce dell'antico buddhismo si sarebbe dovuta minare l'intera montagna, non certo solo due statue. È, indubbiamente, un primo punto a favore dell'ipotesi di sviluppo di un centro turistico, fortemente voluto dall'attivo governatore della regione afghana dello Hazarajat, il regno degli Hazara: la signora Habiba Sarabi.

La piccola parte dell'insediamento più antico che si è conservata è graziosa. Muri in terra pressata, stradette sterrate, un'unica bottega sotto una tenda, presso l'antico fortino e il canale, tra gruppi di alberi sparsi e campi di patate, il principale prodotto della regione, oltre a pecore e capre. Su un vasto spiazzo erboso, dei bambini lanciano in cielo qualche aquilone. Il lato sudoccidentale dello spazio è occupato da una torre in mattoni e terra, la cui parete esterna è crollata: restano in evidenza, in una strana architettura alla Escher, scale e parti di ambienti scollegati tra loro. Più avanti, proprio sotto la parete con le nicchie dei Buddha, un'ampia zona di case completamente distrutte, di cui restano in piedi soltanto le mura perimetrali. È qui che questa mattina è esplosa la mina, uccidendo uno sminatore del posto che scortava in visita, per valutare ciò che è possibile e opportuno salvaguardare, una collega dell'UNESCO. Lungo la strada che costeggia il pendio che porta alle grotte, una lunga fila di piccoli vani: tutti, senza eccezione, sventrati. È il vecchio bazar cittadino, distrutto dai taliban prima ancora delle statue, già nell'autunno del 1998, quando il loro arrivo spinse buona parte della popolazione hazara a cercare rifugio verso la principale città dell'interno - Yakaulang - oppure in montagna, dove molti perirono per la fame e il freddo: già ai primi di ottobre, la temperatura notturna a Bamyan sfiora lo zero. Per avere un esempio della grande fluidità delle alleanze, è interessante notare come, nella valle di Bamyan, la minoranza di etnia tagika, che altrove - basti pensare al Panjsher, già roccaforte del comandante Ahmad Shah Masud - si era ferocemente opposta ai taliban, in prevalenza di etnia pashtun, colsero qui invece l'occasione della venuta di questi, per allearsi a loro in chiave antihazara.

Tra la strada del vecchio bazar e le prime grotte che furono dei monaci, ora prevalentemente abitate da profughi di ritorno, sorgono alcuni prefabbricati moderni. Un ragazzo mi invita a entrare nella stanza che condivide con altri cinque studenti. È un istituto di studi superiori, che non saprei se definire college - come lo chiamano loro - o università. Uno studia letteratura, un altro storia, un terzo, che mi pare ancora quasi un ragazzino, sociologia. Mentre mi ringraziano di condividere il loro tè (dovrebbe essere l'inverso, ma qui vigono altri parametri) mi verrebbe la curiosità di approfondire maggiormente. Su che testi si può studiare sociologia a Bamyan? Quali sono le motivazioni che spingono un ragazzo a dedicarvisi? Quali prospettive intravede? Quali sogni ha? Ma è troppo arduo discorrere in un guazzabuglio di russo, inglese e hindustani - abbastanza simile al dari perché qualche parola possa essere comune - e debbo rinunciare, a malincuore. Il nuovo bazar che mi indicano è a un tiro di fionda dalla scarpata, oltre l'ospedale realizzato dalla fondazione dell'Aga Khan, e oltre il ruscello.

Un cartello slavato annuncia che il ponte pedonale (in realtà ci passano anche gli automezzi) è un dono dell'Italia alla popolazione di Bamyan. Opera senz'altro meritoria, anche se il ponte misura appena venti metri, ma certo del tutto inadeguata alle esigenze immediate del luogo. Manca quasi del tutto la luce elettrica, garantita solo qua e là da qualche generatore. Le strade - tranne quella che dall'aeroporto conduce allo slargo antistante la residenza del governatore e quindi, per qualche centinaio di metri in discesa, fino al nuovo ponticello - non sono asfaltate. Percorsi lunari, pieni di crateri profondi, anche nel nuovo bazar, o tutt'al più sterrati e, un po' meglio, battuti. Neanche parlare di sistema fognario o di impianti di potabilizzazione idrica. Da Kabul ci separano neanche duecento chilometri, ma almeno dodici ore di viaggio. Le linee aeree locali subiscono a volte cancellazioni dell'ultimo minuto... Dove e come alloggiare un piccolo gruppo di visitatori, sia pure disposti a disagi e spese logistiche per arrivare fin qui? Vi sono due o tre alberghetti nel bazar, che offrono prevalentemente camerate, c'è un hammam, il bagno pubblico, per lavarsi, e diverse sale da tè cucinano un ottimo cibo, ma certo chi non è del posto viene guardato con una certa curiosità - ovvero, ignorato ostentatamente. Altri due o tre alberghi di tono migliore sono comunque un po' basici. Io condivido il mio bagno, aperto sul terrazzo di fronte alla yurta che mi ospita, con uno scorpione lungo due falangi, fortunatamente pacifico, oppure troppo infreddolito per darmi pensiero, ma al mattino scuoto comunque accuratamente calzature e abiti, a scanso di sorprese spiacevoli.

Del resto, alberghi e pensioni arricchiscono prevalentemente chi ne ha la proprietà, un po' meno chi li gestisce e quasi affatto chi vi lavora. Si tratta peraltro di un arricchimento relativo: per tre giorni sono l'unico visitatore, poi mi si aggiunge il vicedirettore della AFP, l'Adventure Foundation Pakistan di Islamabad, in viaggio di lavoro con due colleghi afghani. L'ipotesi, su cui puntano sia il governatore, sia l'UNESCO che la stessa Fondazione Aga Khan, è quella di sviluppare anche qui - come è già avvenuto in Tagikistan o in alcune zone montuose del Pakistan - un turismo sostenibile, in un circolo virtuoso di formazione, microcredito, sostegno istituzionale e coinvolgimento delle famiglie del posto. Per favorire, per esempio, la nascita di reti di bed & breakfast collegate ad artigiani locali e alla promozione dei prodotti tipici del luogo: qui potrebbero essere miele, frutta secca, formaggi, oltre ad alcuni gioielli, semplici ma di fattura discreta. Ma allora occorrerebbe garantire almeno la disponibilità di fosse biologiche, di pannelli solari, di acqua non troppo malsicura. Investimenti, insomma, come chiede da tempo, a livello nazionale, Ahmad Wali Masud, fratello del comandante Masud, criticando l'approccio prevalentemente militaristico delle forze di coalizione impegnate nella lotta ai taliban.

Come chiariva l'ex ambasciatore afghano a Londra in un'intervista concessa l'estate scorsa a "Ekspert Kazakhstan", occorre rendersi conto che, a meno di dimostrare concretamente agli abitanti del posto che con il ritorno dei taliban hanno qualcosa di proprio da perdere, essi vivranno sempre la lotta in corso come la riedizione di una delle solite lotte per il potere, che scorrono al di sopra delle loro teste. Oggi la priorità nei lavori pubblici, in questa parte dell'Hazarajat, è la strada che vedo in costruzione in mezzo al nulla, sull'altopiano che porta verso Yakaulang. Non è un caso. In assenza di un piano organico di investimenti per le infrastrutture, gestito - possibilmente non troppo male - a livello interregionale, per la popolazione locale l'esigenza prioritaria diventa collegarsi un po' più rapidamente a un altro centro abitato regionale, non certo migliorare i contatti con la capitale. Ma il corollario di questa assenza di coordinamento degli sforzi, del ripiegarsi su di una dimensione localistica, è la ripresa dell'iniziativa da parte dei tradizionalisti. Perfino qui, nei paesini dell'interno a nord di Bamyan, mi dice Heather - una canadese attiva qui da sette anni in un programma di sviluppo per donne in difficoltà, basato sull'orticoltura - iniziano a esservi nuovamente pressioni e perfino minacce dirette, volte a scoraggiare la scolarizzazione femminile.

Malgrado tutto, la valle è splendida, ragionevolmente sicura, e potrebbe essere un vero paradiso del turismo culturale e alpinistico. Molto più ampia della valle del Panjsher, ha un'aria frizzante, una temperatura mai troppo calda neanche in piena estate. Del tutto ignote, qui, sono le orride tempeste di polvere che infestano per mesi la valle di Kabul. Acqua, erba e alberi in abbondanza, in un panorama montano spettacolare. È da Bamyan che parte la strada principale per i laghi Band-i Amir. Poco più di settanta chilometri, che richiedono però circa quattro ore di viaggio attraverso un altipiano semideserto, con faticose deviazioni lungo percorsi incerti laddove è in costruzione il tratto della nuova strada per Yakaulang, per giungere infine in una selva di guglie e crinali. Hanno rosa, ocra, verdi e grigi di tale incredibile intensità, da spingere immancabilmente chi ne vede le foto per la prima volta a commentare: "Fantastico! Che filtro hai usato?". I colori, invece, sono proprio quelli, insieme all'incredibile azzurro dei laghi. Anche qui l'iniziativa locale ha aperto un paio di botteghe e sono disponibili alcune possibilità di pernottamento - molto più basiche di quelle di Bamyan, naturalmente. Ma il percorso per scendere ai laghi dall'altopiano ha pendenze inquietanti. Sta all'autista scegliere, di volta in volta, il tracciato su cui preferisce arrischiarsi, spesso diverso a seconda che si salga o si scenda. Oltre ai paesaggi grandiosi e ai rari, minuscoli paesini attraversati, ciò che mi rimarrà più a lungo impresso nel ricordo sarà certo il gesto di raccomandarsi l'anima a Dio che l'autista reiterava - sfiorando una scritta religiosa fissata sul parasole e passandosi poi ambo le mani sugli occhi e la bocca - ogni volta che ci trovavamo all'imbocco di una discesa particolarmente sconnessa, scoscesa e, ovviamente, priva di protezione.

Bamyan, che oggi conta appena 6000 abitanti, fu l'ultima roccaforte afghana a resistere all'assalto delle truppe di Gengis Khan. La fortezza situata a poca distanza dall'aeroporto, su di una piccola altura ripidissima, fu presa - si narra - solo con l'inganno, per il tradimento di una delle principesse. Come spesso avveniva, non venne risparmiato nessuno: esseri umani e animali perirono tutti nell'eccidio, che diede alla fortezza l'appellativo di "città delle grida". Poco più oltre, a circa mezz'ora da Bamyan, giù per il corso del fiume, nel punto in cui la strada si biforca nei due itinerari per raggiungere Kabul (ma l'itinerario meridionale attraversa regioni al momento assolutamente off limits), su di un costone a picco posto a chiudere il lato meridionale della valle, si vede il principale insediamento fortificato del tempo, a sua volta conquistato da Gengis Khan. La posizione in cui sorge, che consente di spingere lo sguardo lungo una serie di vallate parallele, è così eccellente che sull'acropoli superiore venne installata, ancora in tempi recenti, una piazzaforte munita di pesanti armamenti antiaerei. Ma in entrambi i luoghi, pur estremamente suggestivi come posizione e archeologicamente rilevanti, ondate successive di combattenti, negli ultimi trent'anni, hanno provveduto a disseminare il terreno di mine. Seguo soltanto i sentieri dove scorgo, ben impresse, impronte umane e, negli slarghi, calpesto le tracce dei pneumatici di automezzi transitati di lì.

Dopo una parca colazione a base di tè nero, latte senza zucchero e un po' di pane, fatta assieme ai poliziotti di guardia all'aeroporto, con cui divido le mie ultime sigarette francesi, rientro a Kabul con un vecchio elicottero di fabbricazione sovietica, oggi al servizio di USAID, la United States Agency for International Development. La mattina è fredda, nonostante il sole. Tre uomini armati, in giubbetto antiproiettile, accompagnano il volo. A terra, due autoblindo neozelandesi hanno pattugliato l'area circostante e una si è piazzata a breve distanza dall'elicottero. Il volo è di una bellezza incredibile, consente di toccare quasi con mano, in tutti i dettagli, l'aspro territorio montuoso. È possibile riconoscere ogni singolo sentiero su pendii e crinali, ogni ricovero di terra battuta, ogni cortile delle case sorvolate. La straordinaria industriosità degli abitanti, pur nell'estrema miseria e nella feroce durezza di clima e orografia, si coglie nei minuscoli terrazzamenti, volti a strappare anche solo due o tre metri quadri di terreno coltivabile, ovunque sia possibile portare un filo d'acqua. Ovunque, anche a grande distanza dal fondovalle, dal più piccolo insediamento o dall'inizio della prima strada sterrata, un intrico di piste incrociantisi per ogni dove. Pensare di poter mantenere il controllo delle strade principali, senza averlo anche su di un'ampia fascia di rispetto attorno a esse, è da ingenui. Pensare di ottenerlo ricorrendo a cacciabombardieri d'alta quota, come i Tornado recentemente promessi dal nostro Ministero della difesa - mezzi dalle caratteristiche modeste già ai tempi del primo conflitto in Iraq (Cocciolone docet) - è, molto più banalmente, ignoranza della storia e del contesto locale.

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