Rivista "IBC" XVI, 2008, 2
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / corrispondenze
L'antica Termez sorge sulle rive settentrionali dell'Amu Darya (l'Oxus), dove inizia la regione un tempo detta appunto Transoxiana. Oltre il fiume, in un arido paesaggio pianeggiante, le vie carovaniere si dipanavano verso sud, attraverso quello che oggi ha il nome di Afghanistan, fino all'Hindukush. Oltrepassato quel massiccio montuoso, si scendeva per il passo Khyber fino alle pianure dell'Indo e del Gange. Sin da allora, Termez era un crocevia di numerosi, importanti percorsi, precedenti anche alla sua fondazione. Verso sud, vi erano l'Afghanistan e l'India. A nord, le oasi di Bukhara, Samarcanda e Khiva precedevano le steppe kazakhe. A ovest, oltrepassata Merv, superato l'altopiano iranico, si giungeva al Medio Oriente, al Mediterraneo, a Roma. A est, oltre il massiccio del Pamir, vi era Kashgar e, più avanti, oltre il deserto del Takla Makan, tra Monti Celesti e altipiano del Tibet, si stendeva l'impero cinese.
A breve distanza dalla prima Termez, a testimonianza della continuità dei traffici svoltisi per millenni lungo quelle vie e del passaggio incessante di viaggiatori, soldati e pellegrini, sorgono le rovine di un monastero buddhista. Lo stupa, alto una quindicina di metri, è ancora visibile nei campi di cotone, non lontano dal fiume. Pochi sono i monasteri in pianura, a segno della relativa tranquillità che ne aveva accompagnato il fiorire. Per la maggioranza erano ospitati in grotte scavate nella parete scoscesa di rilievi montuosi, come a Bamyan, dove sorgevano le due gigantesche statue del Buddha fatte saltare nel 2001 dai taleban. Le mura urbane di allora, ridotte a un succedersi di moncherini smozzicati, restano oggi a ricordo della completa distruzione della città, avvenuta nel 1220, dopo un assedio a opera di Gengis Khan.
L'attuale Termez, la terza, sorge poco distante, a monte dei precedenti siti urbani, con i suoi quartieri di basse case russe dei tempi dello zar Nicola I, le strade nuove, gli spazi verdi resi possibili dalla vicinanza dell'Amu Darya e del suo affluente, il Surkhan Darya. Il grande Museo archeologico, aperto al pubblico nel 2002, in occasione dei 2500 anni dalla fondazione della città, ospita raccolte importanti, ben esposte e ben descritte. La visita consente di ripercorrere le tappe della presenza umana nella regione: dalla preistoria, all'epoca greco-battriana, al successivo dominio dei Kushana. Ismail Batyrov, direttore del Museo, mi lascia fotografare liberamente: mi colpiscono in particolare alcune sculture del I secolo dopo Cristo, coeve del monastero buddhista, risalenti all'impero Kushana, in cui si esprime con evidenza l'influsso dell'arte greca locale. Ben documentati sono anche l'arrivo dell'Islam, la monumentalità della sua architettura, così adatta al clima del luogo, la grazia delle sue maioliche. Si giunge poi, con filmati d'epoca e il montaggio in sequenza di fotografie storiche, all'arrivo dei russi nel 1893. La postazione fortificata subito costruita era la più meridionale dell'impero zarista e il luogo rimase di fondamentale importanza strategica fino al crollo dell'Unione sovietica e oltre: l'aeroporto locale, servito da base logistica all'esercito sovietico per la guerra afghana, lo è stato poi pure per le forze NATO, impegnate sullo stesso scenario dal 2001.
Il santuario di Al-Hakim al Termezi, sulle rive dell'Amu Darya, è al centro dell'antica città pregengiskhanide, sotto un rialzo del terreno dove svetta una torretta militare: mitragliatrici puntate verso il territorio afghano. Malgrado la scarsa simpatia che il governo presidenziale uzbeko riserva all'islamismo militante, il santuario, oggi in restauro, seguita a essere visitatissimo e i pellegrini provengono anche da molto lontano. La tolleranza nei confronti del fenomeno è dovuta al fatto che il tipo d'islamismo che in esso si rispecchia è tradizionale e locale, strettamente legato alla venerazione che per secoli è stata qui riservata ai santi di scuola sufi. Molto distante, quindi, dall'ideologia delle scuole coraniche wahabite presso le quali si formavano i taleban, che del resto si opponevano violentemente al culto dei santi, tipico della regione.
Dopo tre mesi di permanenza in Asia Centrale, inizio a dirmi che è tempo di fare il punto della situazione. In termini assoluti, un soggiorno di tre mesi è ben poca cosa. Ibn Battuta, partito dalla nativa Tangeri in Marocco nel 1325, soggiornò in Oriente per ventotto anni prima di rientrare in patria. Poco prima di lui, Marco Polo vi si era trattenuto per venticinque anni. Solo così hanno potuto lasciare, ciascuno a suo modo, dei veri e propri monumenti letterari a testimonianza di ciò che avevano visto e udito. Io, ne sono ben conscio, mi sto limitando a grattare appena la superficie. Sono un orientalista, ho lavorato per un trentennio come professionista dei musei, ma solo tre anni fa, quasi per caso, ho messo insieme questi due fili rossi, avviando una ricerca sulle politiche per i beni culturali nei paesi postsovietici dell'Asia Centrale.
Non mi interessa tanto determinare se l'oggi sia migliore o meno dello ieri. Vorrei piuttosto cercare di capire cosa vi sia di diverso, cosa di eguale. Forse, anzitutto, perché in Occidente, e in Italia in particolare, la conoscenza di questa regione è quantomeno approssimativa. In secondo luogo perché, come sottolineano Djalili e Kellner,1 le potenzialità di apertura verso il mondo esterno da parte dell'Asia Centrale non sono ancora ben espresse, in particolare verso ovest: regione mediorientale ed Europa. Infine, perché lo scopo primario della mia ricerca e del mio viaggio è studiare le linee di tendenza a medio termine nella gestione del patrimonio culturale e quindi, magari, le carenze strutturali e le esigenze future.
L'Asia Centrale è sempre stata una macroregione di steppe, oasi, deserti e massicci montuosi, posta a cerniera tra Nord e Sud, tra Est e Ovest. Ha reso osmotiche o antagoniste culture, economie, religioni e civiltà differenti ma per certi versi complementari. In questo senso l'oggi non differisce troppo dallo ieri, tranne per il fatto, certo di per sé non trascurabile, di riguardarci più direttamente. Un confronto tra le politiche culturali sovietiche e quelle successive è rivelatore. Cercare di capire quali conseguenze possano avere sulle politiche culturali, sulle nuove priorità dei diversi paesi centroasiatici, il nazionalismo e la rinnovata identità culturale islamica lo è però ancora di più. Porta a chiedersi, infatti, quali siano gli elementi cardine fondamentali dell'identità culturale dei paesi di questa regione. Non è un interrogativo ozioso. Con le ridotte risorse da dedicare ai beni culturali (fenomeno ben noto anche in Occidente, malgrado qui tenda a celarsi dietro al mito della "redditività" diretta, peraltro impossibile) e con investimenti riservati soprattutto a eventi straordinari piuttosto che alla pianificazione, l'impatto di un mutare d'accento si ripercuote immediatamente. Influisce sulle scelte di conservazione di una madrasa piuttosto che di un sito preislamico, sullo sviluppo di una tipologia di museo a discapito di un'altra.
Il quadro si complica ancora di più, tuttavia, quando si esaminano i nuovi elementi simbolici adottati dalle varie realtà nazionali per rafforzare la propria identità. In Tagikistan il modello di una "età dell'oro" è la dinastia Samanide (dall'inizio del IX alla fine del X secolo dopo Cristo). Vero è che i tagiki sono una popolazione prevalentemente stanziale, piuttosto che nomade, e che formano tuttora il nucleo centrale di molte delle principali città nella regione. Nessuna di queste si trova però più nell'attuale Tagikistan: i Samanidi avevano la propria corte a Bukhara, oggi in Uzbekistan. In Kyrgyzstan si è optato per il mitico eroe-pastore Manas, la cui epopea riduce a breve racconto le peripezie dei greci in Asia Minore e le avventure di Ulisse di ritorno a Itaca. Qui i problemi sono minori. Manas abitava una yurta di nomadi, si spostava per un territorio indefinito e, semmai, l'unico problema potrebbe essere costituito dal fatto di essere figura ben nota in un'area molto più vasta del piccolo stato kirghizo, dalla Mongolia al bacino del Tarim, nel Sinkiang cinese. L'Uzbekistan, infine, ha eletto a proprio eroe fondatore Timur ("Timur-i Leng", Timur lo Zoppo: il nostro Tamerlano). Il Timur storico, nato nel 1336 a Shahrisabz, una cittadina a poca distanza da Samarcanda, divenuta poi la capitale del suo impero, nell'attuale Uzbekistan, è vissuto però assai prima che le tribù uzbeke vi si affacciassero da conquistatrici, scacciando nel 1500 da Samarcanda l'ultimo dei Timuridi, Babur, appena diciassettenne. Questi - autore, con la propria autobiografia, di una delle più belle guide all'intero territorio - ritiratosi oltre l'Hindukush in India, vi avrebbe poi fondato l'impero dei Moghul. L'impero, cioè, dei "mongoli", discendendo egli da Timur per parte di padre e da Gengis Khan per parte di madre.
Proprio Samarcanda è del resto un caso esemplare di ciò che può avvenire quando alla lenta sedimentazione di tradizioni storiche si sostituisce, in tutto o in parte, il mito fondatore di una nazione. Nel 2007 la città ha festeggiato in pompa magna i suoi 2750 anni. Se appare sempre un po' inverosimile voler celebrare il momento esatto in cui, in un remoto passato, un insediamento umano smise di essere accampamento precario divenendo "città", nel caso dell'anniversario di Samarcanda c'è un retroscena significativo. Circa venti anni prima si erano festeggiati i 2500 anni; in seguito ai risultati incoraggianti delle successive campagne di scavo, qualcuno si lasciò sfuggire che forse si sarebbe potuto retrodatare, anche di molto, il primo nucleo urbano. Subito (a indipendenza avvenuta) l'ipotesi fu presa come asserzione provata, anche se in realtà non era stata confermata dagli scavi. Nel 2004, anzi, l'archeologo Frantz Grenet l'aveva rettificata: i dati disponibili consentivano al più di risalire al 650-550 avanti Cristo.2
Ma ormai la questione aveva smesso di essere scientifica, trasformandosi in affaire politico-celebrativo: si voleva invecchiare la città di ben 250 anni in appena un ventennio. A questo punto la comunità scientifica non si è affrettata a sposare la rettifica e i festeggiamenti sono rimasti in agenda, come da programma. Una cosa del tutto ingiustificata? Forse anche no: chi può escludere a priori che qualche fortunato carotaggio possa in futuro offrire conferme di un tipo o di un altro? Restano, intanto, gli interventi urbanistici effettuati per l'occasione. Come sempre accade in questi casi, la città ha ricevuto grandi attenzioni da parte del governo e, conseguentemente, molti finanziamenti, che hanno portato ad ampi lavori pubblici.
Non tutti sono condivisibili. Lo Shah-i-Zinda, un insieme di mausolei storici che vanno dal IX al XIX secolo, sulla collina del cimitero "ordinario" della città, è stato sottoposto a una campagna di restauri massiccia quanto affrettata, che fa storcere il naso non solo agli esperti del settore. "Noi ci avremmo impiegato quarant'anni" - mi dice un giovane archeologo europeo - "loro hanno chiamato un'impresa edile del posto e in dodici mesi se la sono cavata". Sì, ma come? Io stesso ho fotografato, nel 2006, gli ultimi "ritocchi" al restauro degli antichi monumenti: un paio di operai, armati di spazzoloni duri, arrampicati su di un'impalcatura a ridosso di una tomba, intenti a grattare mattoni. Dal vasto stradone, aperto quasi tre anni fa alla base della collina e oggi ulteriormente allargato, ora si vede l'intero cimitero, prima celato da un mahalla e da un bazar rasi al suolo in quell'occasione. Una scelta che suscita un certo malumore per motivi diversi: "Non è bello, per il rispetto che si deve ai defunti, che i tumuli delle tombe recenti siano lì alla vista di tutti, per di più davanti alle panchine di un parco pubblico", mi dice l'autista tagiko del taxi che mi porta al mausoleo di Bibi Khanym, la moglie mongola di Timur. In verità, il cimitero era visibile dalla città anche prima (per esempio, appunto, dal mausoleo), ma più ci si avvicinava a esso, più veniva mascherato dalle viuzze e dalle basse case del mahalla.
Forse si è operato così anche per evidenziare il valore simbolico: decontestualizzare un monumento, collocarlo in un parco pubblico mai esistito prima, significa favorire la presa del paradigma "nuovo regime - passati splendori - futuro radioso". Paradigma alla base di quella che potremmo chiamare la sindrome de "l'ora dell'aquile sonò", e non ignoto nemmeno sotto altri cieli. La disinvoltura con cui si procede a interventi urbanistici radicali colpisce però per la vetustà degli insediamenti urbani. È come se si trasformasse parte del Colle Palatino, già residenza imperiale, in un grande albergo moderno, sia pure realizzato "in stile romano". In realtà il reimpiego di architetture d'età classica come base per edificazioni successive non è sempre da deprecare: basti pensare a Castel Sant'Angelo e al Teatro di Marcello a Roma, o alla Piazza del Mercato a Lucca. Resta però il dubbio che l'attuale Hotel Asia di Bukhara, per esempio, sebbene di per sé non sgradevole, possa paragonarsi agli altri interventi prima ricordati, a nobilitare i quali è scesa la patina del tempo (è forse questo a farceli accettare più facilmente?).
A una riunione conviviale con diplomatici di vari paesi, cui mi trovo casualmente presente, si parla in modo informale di questo genere di interventi urbanistici. Ci si chiede, tra l'altro, perché non intervenga l'UNESCO (la United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization), magari minacciando di rimuovere dall'elenco dei luoghi patrimonio dell'umanità i siti particolarmente colpiti da interventi "alla Topolinia". Il discorso, però, è complesso. In primo luogo, l'UNESCO si muove in maniera "non del tutto libera" nei confronti dei governi dei paesi in cui opera. Certo, se qualcuno scrivesse per denunciare uno scempio aberrante, gli uffici locali inoltrerebbero una relazione a Parigi, contatterebbero i ministeri competenti, farebbero pressioni. Ma ciò accade piuttosto di rado. In secondo luogo, il meccanismo turistico (voli, tour operators, alberghi) non si blocca certo in base all'ipotetica revoca di un "marchio di qualità". Con tanti soldi in ballo, non è detto che la notizia giungerebbe fino al livello dei potenziali visitatori e, anche se ciò avvenisse, potrebbe anzi innescare la spinta a visitare un luogo "prima che si rovini del tutto", contribuendo così a comprometterlo. Con fondi inadeguati alla propria missione, l'UNESCO si trova così a svolgere il ruolo della "tigre di carta": la teme di più, chi meno la conosce.
Non potendosi opporre efficacemente a sventramenti radicali, l'UNESCO si è dedicata ad avviare processi virtuosi che in qualche misura possano controbilanciare, se non le devastazioni dovute a interessi immediati di bottega, almeno quelle causate da ignoranza e incuria. Ma l'erosione del patrimonio prosegue a passo rapido. A volte ciò avviene per intervento umano, su grande o piccola scala. Il rifacimento dei bagni o l'adeguamento degli impianti elettrici, per migliorare la qualità della vita, non deve per forza portare ad abbattere un intero edificio. Eppure è proprio così che a Bukhara sparisce la maggior parte delle case del centro storico, dove viveva l'antica comunità ebraica. Altre volte l'intervento devastatore è dovuto al semplice trascorrere del tempo e all'alternarsi delle stagioni (tutte egualmente infauste). In mancanza d'interventi di conservazione preventiva, si stanno così sgretolando le imponenti architetture di terra della Chorasmia, le kala poste al confine turkmeno, lungo l'Amu Darya.
"Il nostro obiettivo" - osservava Michael Barry Lane, già responsabile dell'ufficio UNESCO in Uzbekistan - "è avviare progetti di basso profilo, che facciano però da volano per iniziative modulari, riproducibili su più vasta scala". Per esempio, rilanciando produzioni artigianali quasi dimenticate, o formando maestranze in grado di riprendere lavorazioni artigianali in interventi di restauro o riedificazione di architetture "vernacolari". Se in passato ciò era pratica comune delle scuole di restauro dell'Unione sovietica, oggi in Asia Centrale se ne occupa in particolare, con "Restaurateurs sans Frontières", Pavlos Politis, un architetto e restauratore greco trapiantato in Uzbekistan. L'obiettivo sembra però un po' riduttivo e il nuovo responsabile dell'ufficio UNESCO di Tashkent, l'architetto Anna Paolini, ha in effetti dimostrato la volontà di operare in maniera più incisiva.
François Langlois - nuovo responsabile dell'ufficio UNESCO per i paesi dell'Asia Centrale, con sede ad Almata, in Kazakistan - mi parla della corsa contro il tempo per giungere a una prima catalogazione delle opere nei depositi museali: "Anche le opere esposte sono raramente inventariate". Il rischio di furti e smarrimenti, come quello di traffici illeciti, è del tutto evidente. Lo standard di precatalogazione, definito dalla Getty Foundation, viene presentato in una versione realizzata in lingua russa. La collaborazione con il mondo museale russo, sottolinea Langlois, è imprescindibile: "Hanno professionisti validissimi, un'enorme esperienza della situazione reale sul campo e una grande capacità di adattare le esigenze scientifiche e i presupposti teoretici alle condizioni materiali e alle esigenze concrete del luogo in cui operano" (a differenza, aggiungerei, dei professionisti di altri paesi, più dediti a esportare tecnologie e democrazia, in varia combinazione). Nel caso del Tagikistan, in particolare, occorre salvaguardare un patrimonio compromesso dalla grave situazione economica e sociale, seguita alla sanguinosa guerra civile da cui il paese è emerso da poco.
È notte. Lungo la strada che conduce all'aeroporto di Almata scorrono le concessionarie Kia, Hyundai, Toyota, Audi, Volkswagen, Peugeot. In costruzione, il nuovo enorme padiglione della concessionaria Mercedes. Ho visto una concessionaria Skoda, una della Renault. Fiat, Lancia e Alfa sono assenti. Non solo ad Almata, o in Kazakistan; in tutta l'Asia Centrale. Per questo non ne ho visto nemmeno un esemplare per le strade della città. Nel settantennale della Pechino-Parigi, vinta nel 1907 dall'Itala di Scipione Borghese, un'Alfa Romeo Giulietta del '57 si è piazzata ventunesima. Ma rinverdire i trionfi passati non aiuta a essere presenti, oggi, in una realtà in convulsa crescita. Il paradosso è che la Via della Seta ricorda Roma, ma Roma non ricorda la Via della Seta. Non vi è chi ignori, qui, che Roma è la capitale italiana, mentre sarei curioso di sapere quanti, da noi, conoscano almeno di nome la capitale del Kyrgyzstan, del Tagikistan, dell'Uzbekistan. Anche questa è una chiave di lettura per spiegare la presenza minima, nella regione centroasiatica, di imprese, capitali e know-how italiani. Perfino in settori, come quello dei beni culturali, che dovremmo saper rappresentare degnamente. Ma questa è un'altra storia.
Note
(1) M.-R. Djalili, T. Kellner, L'Asie centrale, terrain de rivalités, "Le courrier des pays de l'Est", 2006, 1057, pp. 4-16.
(2) F. Grenet, Maracanda/Samarkand, une métropole pré-mongole. Sources écrites et archéologie, "Annales. Histoire, Sciences Sociales", 59, 2004, 5-6, pp. 1043-1067.
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