Rivista "IBC" XVI, 2008, 4

musei e beni culturali / mostre e rassegne, pubblicazioni, storie e personaggi

La mostra dedicata ad Aspertini, e al suo coraggioso spirito di indagine, prosegue l'impegno della Pinacoteca nazionale nel segno della grande pittura bolognese.
Amico bizzarro

Elisabetta Landi
[IBC]

Una grande mostra la prima esposizione monografica dedicata ad Amico Aspertini (Bologna, 1474-1552), allestita nelle sale del Rinascimento della Pinacoteca nazionale bolognese dal 27 settembre 2008 al 26 gennaio 2009. Pittore "capriccioso e di bizzarro cervello", ma soprattutto un genio, Amico fu un artista imprevedibile e mai scontato, tanto che, nel panorama delle mostre d'arte, l'evento era di quelli da non perdere. E non soltanto per i capolavori esposti, ma anche perché la rassegna ha ripreso, ad altissimo livello, la tradizione delle biennali di arte antica, in occasione del bicentenario della Pinacoteca e all'indomani della nomina del nuovo soprintendente per i beni storici e artistici, Luigi Ficacci.

Un capitolo fondamentale per la cultura figurativa, in attesa che l'antologica su Giorgio Morandi, in settembre a New York e dal 21 gennaio al MAMbo, concluda le manifestazioni sulla pittura bolognese. Tra Morandi (nel 2009) e Annibale Carracci (nel 2007) si situa appunto questa mostra, terza nella "tetralogia" avviata con Francesco Primaticcio (nel 2005); un progetto voluto da Angelo Guglielmi, assessore alla cultura del Comune di Bologna, che in questo caso è partner del Ministero per i beni e le attività culturali e della Pinacoteca, col contributo della Fondazione Cassa di risparmio e della Fondazione del Monte.

Obiettivo della manifestazione, curata da Andrea Emiliani e Daniela Scaglietti Kelescian, è stato presentare al pubblico l'opera omnia pressoché completa di questo artista, modernissimo e radicale. Un centinaio i dipinti in esposizione, e tutti di grande rilevanza: 48 i quadri del maestro conservati nei musei di tutto il mondo, e altrettanti quelli degli artisti a lui collegati: Costa, Francia, ma anche Raffaello, Dürer, Lotto, Pintoricchio e Filippino Lippi. Senza contare una sezione en plein air con itinerari fuori dalla mostra, un'opportunità irripetibile sia per ammirare opere conservate in luoghi solitamente inaccessibili, come gli affreschi della Rocca Isolani di Minerbio, restaurati per l'occasione, sia per rivedere quelle presenti nelle raccolte pubbliche e nelle chiese della città. Da via Zamboni fino in piazza Maggiore, i capolavori di Amico ci accompagnano lungo il centro storico: in Pinacoteca, in Santa Cecilia, in San Giacomo, in San Martino, e poi in Palazzo d'Accursio e in San Petronio, dove, oltre che con i suoi dipinti, Aspertini ci sorprende con le sculture nelle lunette delle porte laterali.

Artista eccentrico e in odore di stravaganza, mancino in grado di disegnare con entrambe le mani, e nello stesso tempo, Aspertini aveva un carattere inquieto, e per l'umore "fantastico" e l'indipendenza culturale non sempre era amato. Ma fu un uomo libero, e in alternativa al classicismo, quello umbro-toscano di Perugino e Raffaello giovane, ebbe il coraggio di elaborare un proprio "antirinascimento". Per questo Roberto Longhi, l'inventore della storia dell'arte, lo riabilitò, e dopo di lui Arcangeli, classificandolo tra i bolognesi "insofferenti", sempre in cerca di espressioni forti e dissonanti: Vitale da Bologna, Ludovico Carracci, Giuseppe Maria Crespi. Fu, insomma, un uomo di crisi, e proprio per questo una personalità "moderna".

L'ideale di bellezza immutabile dei suoi colleghi non lo soddisfaceva, non credeva all'armonia senza tempo di Raffaello. Così, quando dopo l'apprendistato nella bottega del padre, il pittore Giovanni Antonio, passò a Roma nel 1496, fatto il giro dei fori imperiali (a cui lo predisponeva la frequentazione degli umanisti della Bologna bentivolesca), non fu colpito, come tutti, dalla maestà dei monumenti, anzi; per lui le rovine non significavano eternità ma piuttosto erosione, malinconia e un gran senso del tempo che passa: ancora una volta, crisi; e in questo anticipò di molto, e in pieno rinascimento, la svolta del manierismo. "Gli spiriti bizzarri rischiano di essere i migliori pionieri", scriveva Longhi, e a ragione, perché Amico fu il primo che ebbe il coraggio di corrompere l'ideale classico con quello "grottesco".

Proprio per questo, anche se frequentava Pintoricchio e Filippino Lippi, amava mescolarsi ai pittori che oggi chiameremmo "alternativi", i nordici, i tedeschi, i fiamminghi: quella folla "crepuscolare" che fiutava ovunque "odor di morte" e scriveva i propri nomi "sulle rovine, nelle grotte e nelle catacombe romane". Anche lui lasciò la firma su due soffitti della Domus Aurea, e grazie a quell'abitudine, deprecabile anche oggi, siamo certi del suo pellegrinare tra le rovine di Roma. Che disegnò in un taccuino, il codice Wolfegg, una delle "vacchette" con appunti di reperti archeologici, architetture, e lavori di altri artisti: una miniera, ricercatissima, presentata in mostra. A Firenze la conoscenza delle opere dei fiamminghi, e tra questi van der Goes, confermò la sua intonazione, come pure il soggiorno marchigiano, del quale restano prove negli affreschi della Rocca di Gradara, commissionati dal signore di Pesaro Giovanni Sforza.

Poi tornò a Bologna, e si legò in rapporti amichevoli con la corte. Spirito curioso, Amico era un intellettuale, aggiornato nella sua cultura e perciò capito subito dagli intendenti d'arte: Giovanni Filoteo Achillini, e in seguito il Vasari. Ma quando mise mano ai pennelli, tutti rimasero sorpresi, perché nella Pala del Tirocinio, ora alla Pinacoteca nazionale, non c'era più la linearità prospettica del rinascimento, ma uno spazio "schiacciato", alto come nelle tavole di Vitale e percorso in una luce livida da un'umanità smagrita, indagata da un'esplorazione inquieta, spietata, e a tratti quasi caricaturale. Anche le citazioni archeologiche - qui come negli affreschi di Santa Cecilia, suo capolavoro (Martirio e Seppellimento dei Santi Valeriano e Tiburzio, 1505) - gli servirono per dimostrare la caducità delle cose: non la bellezza "eterna" scolpita sui sarcofagi antichi, ma il senso macabro di quei sepolcri; e non in polemica, ma per convinzione.

Queste, del resto, erano le "due anime" di Aspertini: nostalgia dell'antico e sperimentalismo anticlassico che guardava all'oltralpe, dove soffiavano venti eretici, soprattutto sull'iconografia religiosa. Il sereno mondo toscano si venava di fremiti d'inquietudine, e i temi sacri tentavano i pittori con possibilità nuove. Contraddizioni, molteplicità di intenti, e un clima ricco di conseguenze, per Lorenzo Lotto, per i ferraresi, Dosso, Mazzolino, Ortolano, oltre che, naturalmente, per il nostro Amico. Il quale diventò, per così dire, il Cranach bolognese. Impossibile non pensare a Grünewald, a Schöngauer, e soprattutto a Dürer, che nella città delle due torri, di passaggio nel 1506, lasciò schizzi e disegni, confermando quanto Aspertini aveva appreso nei soggiorni in area veneta e tridentina.

Al maestro di Norimberga lo accomunava una decisa autonomia espressiva, l'interesse per l'introspezione che sull'onda di Leonardo introduceva un modo nuovo di rappresentare i sentimenti, come si vede nei ritratti esposti (Giovane donna in veste di santa), caratterizzati spesso da un'inquietudine profonda, e accostati nel percorso espositivo a quadri tedeschi e del territorio lombardo. Al classicismo umbro-toscano si aggiunge adesso un realismo tagliente, con pennellate raffinatissime ed elaborate. Quella pittura lenticolare, da fiammingo, non si allenta nella fase matura, quando, dal secondo decennio del Cinquecento, si fa strada la "forma magniloquente ed espansa" della pala di San Martino (Madonna con il Bambino e i Santi Agostino, Nicola di Bari e Lucia), pezzo forte dell'esposizione, eseguita intorno al 1515. Sono i modelli romani, ora, a prevalere: Michelangelo, Raffaello, presente in mostra con La visione di Ezechiele di Palazzo Pitti, ma soprattutto con la Santa Cecilia, opera capitale che stabilì i parametri della pittura moderna. Una concezione monumentale in anticipo sui tempi e che supera, nella grande pala, il retaggio quattrocentesco.

Del resto, dopo la caduta dei Bentivoglio e i fatti drammatici del 1507, a Bologna il sogno umanistico era tramontato, e i pittori si erano allontanati. Anche Amico si era rimesso in viaggio, alla ricerca di nuove idee, ed era approdato a Lucca, dove, per la famiglia Cenami, aveva lasciato il suo capolavoro nella chiesa di San Frediano (1507). Esempio straordinario di progettazione pittorica globale, "delle migliori opere che maestro Amico facesse mai a fresco di colori" (Vasari), la Cappella di Sant'Agostino gli era valsa, nel 1508, il titolo di cittadino lucchese. Fu in effetti il suo lavoro più interessante, e non soltanto per i riquadri con le storie rappresentate, ma anche per l'uso del sottinsù nell'oculo dell'arco d'ingresso, capolavoro di maestria prospettica, e per le grottesche minute che con precisione nordica gremiscono la decorazione dei laterali della cappella, rappresentando volti e oggetti di uso comune con perspicuità sorprendente.

In questa fase la sua arte è ormai pienamente matura. A Lucca aveva visto i dipinti di fra' Bartolomeo e in Toscana aveva ammirato le opere di Andrea del Sarto. È la grande tavola per San Cristoforo, conservata a Lucca, al Museo nazionale di Villa Guinigi (Madonna col Bambino in gloria e i Santi Giorgio, Giuseppe, Giovanni Evangelista e Sebastiano, 1511), novità per Bologna, a segnare uno scarto rispetto a Perugino. Nella composizione, inedita e di complessità formale e psicologica, le figure dei santi giganteggiano in primo piano, costruendo lo spazio con una monumentalità moderna. Si legge, qui, quell'aggiornamento tra Firenze e Venezia che valse al pittore un ruolo da protagonista sulla scena artistica bolognese, in alternativa al classicismo. Sono di questo periodo i lavori intermittenti per il cantiere di San Petronio (1510-1531) e le tante tavole presenti oggi nei musei bolognesi; fino alla novità della mostra, gli affreschi della Rocca Isolani a Minerbio, oggi finalmente visitabili.

Testimonianze mature del suo umore inquieto e dell'instancabile curiosità intellettuale, le pitture della Sala di Marte, della Sala dell'Astronomia, della Sala di Ercole e della Stanza dell'adultera (1538 circa) testimoniano la sicura padronanza del lessico ermetico prediletto dalla cultura di corte. Un linguaggio destinato a pochi, che attinge, nel significato simbolico tuttora al vaglio degli esperti, ai Tarocchi di Andrea Mantegna (artista a cui guarda lo sfondato di un cupolino che si ispira alla Camera degli Sposi) e alle mitologie visionarie di Giulio Romano; né, forse, sono estranee le soluzioni ariose della Sala delle Vigne di Belriguardo o della Sala delle Cariatidi nella villa Imperiale di Pesaro, opera di Dosso (1530 circa). Anche negli affreschi Isolani la figura umana occupa lo spazio, e gremisce un universo immaginativo affollato come in altre opere della fase estrema.

Ciò non impedisce ad Amico di dimostrarsi versatile nel piccolo formato. A Bologna infatti, tra il 1519 e il 1525, Aspertini è figura di punta dell'illustrazione libraria, non solo per le edizioni scientifiche prodotte nel clima fervido dello Studio ma anche per opere di carattere agiografico, nelle quali trasferisce i modelli e le suggestioni espresse in pittura; come nel caso della biografia della profetessa Colomba da Rieti, dove l'immagine della "sibilla" cristiana si ispira all'iconografia di una Madonna düreriana. Né manca di stupire la produzione grafica del maestro, documentata in mostra da una serie cospicua di esemplari. "Divertimenti con variazioni", come si intitola un saggio nel catalogo illustrato dell'esposizione;1 un volume ricco, e uno strumento fondamentale di ricerca, introdotto da Luigi Ficacci e arricchito dagli studi di Andrea Emiliani, Daniela Scaglietti Kelescian, Eugenio Riccomini, Daniele Benati, Vera Fortunati, Angelo Mazza, Carla Bernardini, Gian Piero Cammarota, Massimo Medica, Elena Rossoni e altri esperti di settore, che percorrono la biografia del pittore dalle bizzarrìe del tirocinio fino alla maturità, attraverso gli affreschi e le sculture, passando per la pratica della miniatura e dell'incisione. Senza trascurare la rivisitazione dell'antico, variamente declinato, nelle sue trasformazioni, dalle opere di Amico Aspertini.


Nota

(1) Amico Aspertini 1474-1552. Artista bizzarro nell'età di Dürer e Raffaello, a cura di A. Emiliani e D. Scaglietti Kelescian, Milano, Silvana Editoriale, 2008.

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