Rivista "IBC" XVI, 2008, 2
musei e beni culturali / mostre e rassegne, pubblicazioni
L'elemento costitutivo che radica nell'intero percorso artistico di Joan Miró è la terra, elemento intriso di religiosità pagana e potente demiurgo capace di catalizzare le sue forze creative. Così interpreta la multiforme opera del pittore catalano Tomàs Llorens, curatore della retrospettiva allestita fino al 25 maggio 2008 al Palazzo dei Diamanti di Ferrara (www.palazzodiamanti.it). Come tutte le interpretazioni, anche quella di Llorens deriva da un lavoro di selezione, di scelta e di esclusione di materiale, senza negare però la complessità di una lettura critica univoca delle creazioni di Miró, stante la loro varietà, ma soprattutto la difficoltà di apparentamento di un artista che si mosse molto liberamente fra le correnti pittoriche del secolo scorso. Nato a Barcellona nel 1893, morto a Palma di Maiorca nel 1983 - pur avendo trascorso la sua lunga esistenza fra frequenti mutamenti di prospettiva geografica e culturale tra Spagna e Francia, con viaggi negli Stati Uniti, in Giappone e in altre località europee, e avendo pertanto avuto contatti con i principali esponenti delle avanguardie culturali del Novecento - Miró rimase fedele a sé stesso, non chiuso ma fermo e costante nel perseguire i suoi scopi.
Le sue convinzioni, l'instancabile adoperarsi all'interno del suo atelier e alla ricerca di materiale per il suo lavoro lungo la riva del mare o fra le alture di Palma di Maiorca, ne fanno un potente artigiano, un creatore che aveva la necessità del contatto fisico con la materia che manipolava. Rimproverava all'arte moderna di avere chiuso troppe porte, di avere rinunciato a lavorare sull'oggetto, divenuto un tabù, per dedicarsi a feticci contaminati da un pensiero filosofico a priori, che si sostituiva all'atto stesso del dipingere, alla sua manualità. Pertanto non si considerava un astrattista, stigmatizzò ogni eccesso formalistico e mirò anche al superamento del cubismo. Per lui contava il valore poetico, che nella sua visione si sarebbe accresciuto con un utilizzo sempre più parco di segni iconografici. Più che a indagare sugli effetti profondi del reale sull'io - come aspirava il movimento surrealista, che pur lasciò un'impronta sensibile sulle sue opere - Miró dichiarò di voler ricongiungersi allo spirito creativo primigenio: desiderava approdare a una realtà universale preesistente alle convenzioni sociali e alle incrostazioni operate dalla storia e dalla cultura sull'uomo.
Un'opera della grande maturità come Femmes, oiseaux, dell'agosto 1973, sembra tendere a quell'approdo. Miró si espresse ripetutamente su questo tema, raffigurando con i suoi segni personaggi occhiuti e quasi inestricabili. Ritornano in circolo, qui, stati psichici preconsci, antecedenti alla formazione del pensiero umano, nell'ideale chiusura di un cerchio che racchiude, annodandoli, i miti della modernità e quelli dei primordi. Un'osmosi rivelata dalla figura appuntita in basso a destra, su fondo nero, come una creatura marina fossilizzata.
L'artista catalano si espresse senza tregua, utilizzando sia materiali tradizionali, sia atipici, che seppe piegare alla sua forza creativa di pittore, scultore, ceramista. Fece litografie, assemblò oggetti con materiali trovati in natura e che modificò suggellandoli con i suoi segni, e molto altro ancora. Poesia tradotta in musica da un pittore: sintonizzandosi sulla sensibilità espressa dal curatore, si può accostare alla sua visione quella che deriva da un auspicio dello stesso Miró. Estraneo ai formalismi fine a sé stessi espressi dalle avanguardie pittoriche del Novecento, doveva essere altrettanto lontano dagli sperimentalismi musicali del secolo scorso: "Bach mi impartisce superbe lezioni di architettura. Mozart, con la sua purezza, con la sua generosità e col suo amore, evoca l'amore. Entrambi ci aiutano a vivere tra tanta bassezza e volgarità".
Miró: la terra, a cura di T. Llorens, Ferrara, Ferrara Arte Spa, 2008, 224 pagine, 47 euro.
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