Rivista "IBC" X, 2002, 3

musei e beni culturali / media, didattica, progetti e realizzazioni

Al Victoria and Albert Museum di Londra, con un uso accorto delle nuove tecnologie e un'attenzione costante alle esigenze didattiche dei visitatori, sono riusciti a mettere in fuga la crisi internazionale dei musei. E senza fare ricorso alle solite mostre monstre.
L'oro degli impressionisti è tutto qui!

Maria Pia Guermandi
[IBC]

Di questi ultimi mesi, se non di queste settimane, è il dibattito che si rincorre su alcuni organi di stampa, del settore e non, relativo al momento di grave crisi economica che paiono attraversare le istituzioni museali a livello mondiale; spesso a far precipitare la crisi, soprattutto in ambito statunitense, sono stati i faraonici progetti architettonici legati all'ampliamento o al completo rifacimento delle sedi.

Anche sull'onda del Guggenheim di Bilbao, che tanto del suo successo deve al genio di Gehry, moltissimi musei hanno tentato la carta della spettacolarizzazione architettonica: il costo di molti di questi progetti, unito al tracollo globale delle borse (che ha comportato una riduzione generalizzata delle donazioni), hanno messo in seria difficoltà molte istituzioni anche prestigiose, dal Museo di Milwaukee con la nuova (e assolutamente avveniristica) sede pensata da Santiago Calatrava, al British Museum che sta operando drastici tagli al proprio budget nel tentativo di ripianare il buco provocato - soprattutto - dalla Great Court di Norman Foster, fino all'Art Institute of Chicago che ha momentaneamente accantonato il progetto di ampliamento ideato da Renzo Piano.

La crisi, però, non è solo di natura finanziaria, ma anche di pubblico: anche in questo campo si annoverano clamorose smentite rispetto a quelle che erano state le previsioni di afflusso che avevano animato nuovi progetti di allestimenti. Deludenti appaiono le cifre delle presenze registrate nella nuova struttura del MuseumsQuartier viennese e persino istituzioni leader nel settore del marketing culturale come il Guggenheim devono constatare, in questo caso unitamente all'Hermitage, lo scarso successo ottenuto fino a questo momento dalle recenti operazioni museali volute a Las Vegas. Anche in Italia, del resto, l'annuale rilevazione del Touring Club su alcune strutture museali, per quanto limitata come campione (meno dell'uno per cento del totale dei musei italiani), sottolinea comunque una riduzione dei visitatori per quanto riguarda l'anno passato.

Il rapporto Touring, detto per inciso, continua a svolgere per questo aspetto un ruolo succedaneo, peraltro largamente apprezzabile pur nella ricordata esiguità statistica, rispetto alle istituzioni pubbliche che, per statuto, dovrebbero compiere operazioni di ricognizione indispensabili, verrebbe naturale pensare, ai fini di una programmazione degli interventi che voglia uscire dalla frammentazione e dalla precarietà che l'ha contraddistinta fino a questo momento. In questo settore, invece, l'ultima indagine statistica a livello nazionale sui musei, condotta dall'ISTAT, risale al 1995 e contiene i dati del 1992: da allora si sono mosse - parzialmente - solo le Regioni, fra le quali la nostra, che sta elaborando proprio in queste settimane un analitico censimento delle istituzioni museali emiliano-romagnole coordinato dall'IBC e dal Servizio statistico regionale (www.ibc.regione.emilia-romagna.it, sezione "Attività": Il sistema delle statistiche culturali).

In mezzo a questo panorama non certo brillante si registrano, come di consueto, alcune eccezioni: per quanto riguarda l'Italia, spicca su tutte il clamoroso successo del rinnovato Museo archeologico di Taranto, che ha più che raddoppiato il numero dei visitatori, mentre in ambito europeo, in controtendenza rispetto ad altre blasonate istituzioni britanniche, appare il rilancio del Victoria and Albert Museum.

 

Vale la pena di soffermarsi sulle vicende del Victoria and Albert perché in questo caso il rinnovato successo del museo di South Kensington è da leggere come il frutto di una serie di fattori concomitanti, ma tutti da ricondurre ad una mirata strategia di medio-lungo termine esplicitamente audience-centred. Una strategia che però, per perseguire i suoi obiettivi, non ha scelto le facili scorciatoie delle mostre di sicuro richiamo, sebbene dall'altra parte dell'Atlantico queste ultime paiano essere ancora la panacea in grado di risolvere tutti i problemi. In una recente inchiesta del settimanale "Newsweek" sulla crisi dei musei americani (finanziaria, di pubblico, ma anche e più profondamente di "immagine") pressoché tutti i direttori e curatori interpellati concordavano sulla necessità di allestire esposizioni temporaneee di sicuro successo di pubblico. Ironicamente, ma non troppo, si affermava che la mostra ideale per qualsiasi direttore, quella in grado di racchiudere in sé tutte le caratteristiche per richiamare frotte di visitatori si potrebbe riassumere nel titolo "L'antico oro degli impressionisti"; a riprova di ciò, basta confrontare le cifre dell'affluenza di pubblico fra le due mostre organizzate dal Museum of Fine Arts di Boston nella sua sede giapponese di Nagoya: oltre mezzo milione di persone si sono precipitate a vedere i dipinti degli impressionisti, mentre poche decine di migliaia sono state attirate da quella sull'arte degli Indiani Pueblo del Sud degli Stati Uniti.

Il Victoria and Albert Museum ha registrato, nel corso dell'ultimo anno, un aumento di visitatori che sfiora il sessanta per cento rispetto all'anno precedente, e pare avere definitivamente superato il momento di profonda crisi attraversato negli anni precedenti. Per cercare di fronteggiare, almeno parzialmente, le difficoltà di bilancio, il museo aveva reintrodotto, a partire dal 1985, l'entrata a pagamento, abbandonando, non senza forti polemiche, la tradizione del libero accesso alle istituzioni culturali, di cui da sempre si sono fatti portabandiera i musei britannici pubblici. Il costante calo nel numero dei visitatori era sicuramente anche imputabile al più generale oscuramento delle "arti decorative" nel favore del pubblico, fenomeno che nei decenni scorsi ha portato al ridimensionamento di intere collezioni all'interno di taluni musei europei. In ogni caso neppure i cartoni di Raffaello o le Grazie del Canova avevano arrestato, negli anni Novanta, un declino che sembrava inarrestabile.

Dall'anno scorso è stato reintrodotto il meccanismo dei voluntary charges, ma soprattutto l'evento che ha caratterizzato il nuovo corso del "V&A" è stato determinato dalla apertura, nel novembre 2001, del nuovo allestimento delle British Galleries: si tratta delle collezioni che illustrano la storia del costume e del design inglese nel corso di quattro secoli, da Enrico VIII alla Regina Vittoria. Il loro successo, oltre a rilanciare il museo nel suo complesso, ha ridato fiato anche al progetto di ampliamento architettonico dell'edificio (o meglio degli edifici) elaborato da Daniel Libeskind, che si preannuncia di grande impatto visivo e funzionale.

La progettazione delle Galleries si è rivelata di grandissima complessità: iniziata nel 1994 e affidata al curatore del Dipartimento degli arredi, Christopher Wilk, ha dovuto affrontare l'alternarsi delle direzioni del Museo (quattro diverse nomine durante il periodo di allestimento: l'ultima ha designato Mark Jones), e ha dovuto fronteggiare le critiche costanti di buona parte dell'establishment di critici e storici dell'arte, fin dall'inizio pregiudizialmente dubbiosi nei confronti di un progetto a chiarissima vocazione didattica. I lunghi tempi di elaborazione si devono anche ad una continua verifica del feedback con i visitatori, costantemente chiamati ad esternare esigenze e preferenze: si sono sondate le loro reazioni e i loro percorsi di visita all'interno del museo, così come è stato lungamente monitorato l'impatto dei differenti pannelli espositivi dal punto di vista psicologico.

Nei due piani attraverso cui si snodano le British Galleries sono esposti circa tremila oggetti secondo un doppio binario, sia cronologico che tematico (i quattro temi dominanti sono: "chi influenza il gusto", "vivere alla moda", "le novità tecnologiche", lo "stile"), ma soprattutto il pubblico è costantemente sollecitato ad approfondimenti successivi e a vario livello sui materiali esposti: a sfogliare libri, a toccare ceramiche e stoffe, ad aprire cassetti, a guardare filmati, ad utilizzare programmi interattivi e a giocare con le riproduzioni di oggetti e con quiz.

La sensazione per il visitatore del V&A è di grandissimo impatto; le British Galleries rappresentano sicuramente un'esperienza cognitiva stimolante, e persino straniante se confrontata con le altre collezioni del museo. A questo effetto contribuiscono sia la grafica esemplare dei materiali didattici nel loro insieme, sia la stupenda illuminazione: mentre il visitatore è immerso nella penombra della luce naturale, gli oggetti esposti nelle splendide vetrine sono illuminati senza coni d'ombra da dozzine di fasci di fibre ottiche a sorgente nascosta.

Com'è naturale, un ruolo complessivamente importante lo ha giocato, all'interno del nuovo allestimento, anche l'insieme delle tecnologie multimediali: utilizzate in questo caso in maniera non invasiva e anche per questo estremamente efficace (gli schermi, ad esempio, sono sistemati in modo tale da essere scorti solo dopo aver visto l'opera d'arte). Una scelta tanto più apprezzabile in tempi come questi che hanno visto, al contrario, alcune istituzioni sposare acriticamente le nuove tecnologie come unico mezzo di comunicazione con il proprio pubblico, appiattendo, in maniera del tutto impropria, il concetto di didattica e multimedialità sull'uso dei nuovi media. Chi scrive è da anni, anche da queste pagine, entusiasta propugnatrice dell'utilità delle nuove tecnologie in ambito museografico: questo entusiasmo, però, non può far scambiare il mezzo per il fine e stravolgere una gerarchia che deve mettere al primo posto l'oggetto nella sua realtà, così come giustamente accade nelle British Galleries, nonostante esse rappresentino - è stato detto - uno dei più brillanti esempi diedutainment (education + entertainment) dell'attuale panorama museografico.

 

Come accennavamo, la nuova stagione del V&A è da interpretare come il risultato di più elementi: certo le nuove British Galleries hanno avuto un ruolo trainante, anche per quelle che saranno le prossime realizzazioni in materia di allestimento - che vedranno coinvolte, a partire dai prossimi mesi, le sezioni rinascimentali e medioevali - ma accanto a ciò è da collocare la definizione, da parte dello staff del museo, di una vera e propria "strategia per l'apprendimento", che trova la sua elaborazione formale in un documento di esemplare chiarezza, consultabile on-line attraverso il sito del museo (www.vam.ac.uk/learning). Nel testo - che si intitola Creative Networks: knowledge and inspiration. The Victoria and Albert Museum's strategy for learning - viene ribadita la funzione essenzialmente didattica del museo fin dalle sue origini e sono tracciate una serie di azioni a lungo e medio termine per la realizzazione della strategia, a partire dall'implementazione di ripetute e accurate analisi dell'utenza. Il Victoria and Albert, come viene ribadito nel documento, vuole essere strumento attivo all'interno dei cambiamenti che il terzo millennio sta sollecitando a livello sociale. Fra i "paradigmi del cambiamento" sono inseriti ovviamente - e con un ruolo di tutto rilievo nel settore dell'interactive learning on-line - anche i digital media, e non solo in termini di cyberspazio ma per le trasformazioni che possono attivare nelle loro interrelazioni con le persone e l'ambiente: per quest'ultimo elemento si sottolinea come il museo sia da considerare uno degli ambienti più stimolanti all'interno del quale attivare questa integrazione.

Come si vede, si tratta di obiettivi ambiziosi, i cui primi concreti risultati sono leggibili, fin da ora, oltre che nel ritrovato consenso di pubblico, anche, ad esempio, nella molteplice offerta di attività e materiali didattici che il museo offre ad un pubblico differenziato per tipologie (adulti, famiglie, scuole, studenti, ecc.). Persino dal sito web è possibile accedere ad un "pacchetto" sperimentale rivolto agli insegnanti delle scuole primarie e secondarie che propone una serie di materiali e programmi di lavoro per organizzare autonomamente le attività da svolgere all'interno del museo e "costruire" la propria visita didattica a partire da una selezione di temi di argomento storico o artistico.

In una società nella quale l'accelerazione dei fenomeni fa sì che gli individui e i gruppi si debbano confrontare con un flusso di sapere caotico e che la trasmissione e la produzione di conoscenze non siano più riservata ad un'élite, le istanze per un apprendimento continuo si vanno facendo sempre più impellenti. Per una reale efficacia ed incisività delle pratiche connesse alla "formazione permanente" è ormai indispensabile utilizzare strumenti, situazioni e modalità che non siano più solo quelle canoniche della formazione istituzionalizzata (scuola, università), ma che favoriscano uno scambio generalizzato dei saperi attraverso l'utilizzo di modalità cognitive non soltanto simbolico-ricostruttive (e quindi legate al testo scritto come medium dominante), ma anche e soprattutto percettivo-motorie (legate all'uso più efficace ed intuitivo di tutti i sensi).

In questa direzione, i musei da un lato e le tecnologie ipermediali dall'altro, a maggior ragione se fra loro interagenti, sono, fra gli altri possibili, due soggetti attivi nella produzione e nel trattamento delle conoscenze e nei criteri di orientamento del sapere. Se per quanto riguarda le tecnologie ipermediali questo ruolo di supporto nei confronti di moltissime funzioni cognitive umane è ampiamente riconosciuto, le istituzioni museali, soprattutto in ambito italiano, stentano ancora, nel loro insieme, ad assegnare alle funzioni didattico-comunicative un ruolo centrale.

Di grande importanza sono pertanto le iniziative e i progetti tesi a sviluppare e a diffondere nei contesti museali una cultura della didattica non riservata solo all'età scolare [si veda a questo proposito l'articolo di Margherita Sani in questo numero, ndr]. Gli esempi operativi di best practice coronati da meritato successo, come quello del Victoria and Albert, sono un sicuro punto di riferimento non solo per la qualità dei risultati raggiunti a livello espositivo, ma per la coerenza e l'efficacia nel perseguire la missione originaria secondo la quale "i musei sono centri per il pubblico apprendimento".

 

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