Rivista "IBC" XIV, 2006, 4
musei e beni culturali / mostre e rassegne, pubblicazioni
Era dal 1976, anno in cui si era tenuta alla Villa Medici di Roma la prima retrospettiva italiana su André Derain, che la nostra penisola non dedicava uno sguardo complessivo alla produzione di questo controverso artista transalpino. Infatti, ragguardevoli mostre come quella che Aosta dedicò al pittore francese fra 2003 e 2004 - "André Derain, la forma classica", poi ripresa a Milano nel corso del 2004 - risolvevano già nella titolazione la spinosa questione della collocazione critica di Derain, privilegiando una o più parti della sua ampia opera, che finiva coll'assumere carattere d'identità. È la città di Ferrara che si è assunta il compito d'illuminare l'intero percorso critico di questo maestro del secolo scorso con la mostra che si è tenuta al Palazzo dei Diamanti dal 24 settembre 2006 al 7 gennaio 2007, a cura di Isabelle Monod-Fontaine (www.palazzodiamanti.it).
89 le opere esposte, a illustrare con sapiente equilibrio gli 11 capitoli in cui è stata storicamente e criticamente suddivisa la produzione di Derain. È pertanto operazione complessa tentare di delineare in sintesi la figura del pittore, dandone un'immagine univoca che rischierebbe di appiattire e semplificare in maniera fuorviante la sua personalità. Se le coordinate entro cui si debba comprendere la sua poetica accolgono i nomi di Matisse (con cui ai primi del Novecento diede vita al Fauvisme), Braque, Picasso e soprattutto Cézanne (a cui lo accomuna la tensione verso un nuovo classicismo), è il rigore del dubbio il denominatore comune della sua ricerca, una parabola creativa che, coll'attingere costantemente al passato, aspirava a un passaporto verso il futuro dell'arte.
Gli albori della produzione pittorica di Derain sono stati rappresentati in mostra da un interessante esperimento di natura impressionista, Il funerale (1899), che con scarne pennellate sa evocare immediatamente un mondo brulicante e testimonia del senso di libertà e di spazialità spesso evidenti nei suoi quadri. La salita al Calvario, copia da Biagio d'Antonio (1901) indica il percorso interiore compiuto da Derain, subito alla ricerca di una sintesi che con la riscoperta dei Primitivi e con l'interesse per l'arte scultorea africana (condiviso con Picasso) rappresenta una delle sue chiavi interpretative. Semplificando le forme, riducendo i dettagli dei visi e delle vesti, ma drammatizzando la scena con colori più forti e presenti, Derain potrebbe qui già preludere al suo breve e intenso periodo fauve, di pochi anni successivo e testimoniato a Ferrara da una decina di tele. La più efficace è probabilmente Donna con camicia (1906). Una donna in abiti succinti, tratteggiata con tinte acquerellate a rendere un trucco pesante e un aspetto volgare più che sensuale, è seduta scompostamente su di un letto. Le tinte violente, uno sguardo scavato e inequivocabile, le carni bluastre della modella sembrano conferire un tono quasi espressionista al quadro. Ma il tutto è addolcito da un equilibrio cromatico - il blu delle calze e degli occhi, l'azzurro dell'abito, il verde, il rosa dello sfondo, il bianco della camicia, il rosso dei capelli e delle labbra - che, come riteneva Argan, può far parlare di "struttura del quadro fondata sul principio impressionista".
Mai soddisfatto della propria opera e bisognoso di battere strade nuove, Derain, chiusa rapidamente anche questa parentesi, partecipa agli esperimenti cubisti di Braque e Picasso, come testimoniano le sezioni successive della mostra dedicate alla "Scultura e incisione", e, soprattutto, ai periodi di "Cassis e Martigues". Quando si accorse che questa strada portava alla dissoluzione della struttura dei volumi, Derain ritenne di dover abbandonare le avanguardie pittoriche e di aprirsi nuovi varchi attraverso un'attenta rilettura dell'arte antica, in particolar modo del Trecento italiano, con l'ausilio dell'analisi di Cézanne. Questi frequenti mutamenti di rotta, lungi dall'alienargli il favore critico, contribuirono ad ampliare la considerazione che Derain godeva presso i contemporanei. Il rovello creativo e la sua severità nel vagliare le nuove tendenze erano viste come garanzia di un'arte pura e, nel periodo intercorso fra le due guerre mondiali, Derain fu quasi unanimemente considerato uno dei massimi maestri viventi. In Italia fu soprattutto apprezzato da Carrà, ma la sua lezione influenzò anche le opere di De Chirico e De Pisis.
A questo punto della vita dell'artista un episodio segnò un brusco voltafaccia nel favore di cui aveva sin lì goduto, e a questo episodio la curatrice conferisce particolare peso nel saggio André Derain. Dipingere in controtendenza. Recatosi nel 1941 in Germania insieme con altri artisti francesi per una sorta di gemellaggio artistico - in effetti la manifestazione doveva fare da cassa di risonanza alla promozione ideologica nazista - Derain, pur essendo stato provato che le sue motivazioni erano altre, fu accusato di collaborazionismo e da quel momento venne isolato e pressoché dimenticato da tutti, fino alla sua morte, avvenuta nel 1954. Al termine del conflitto il suo nome finì nelle liste di epurazione e la sua figura non venne riesumata che molti anni dopo. Il viaggio che lo collocò dalla parte sbagliata offrì anche una comoda spiegazione del suo ritorno all'ordine del passato, delle rivisitazioni dei grandi classici e del suo cauto approccio alle avanguardie del XX secolo. Ricondotto da tempo su binari più corretti il problema della sua collocazione storica, e rivalutata l'etichetta sommaria di "reazionario", Derain oggi può essere visto come uno dei disperati paladini che tentarono di opporsi alla tabula rasa che il Novecento andava facendo, in campo artistico, di quanto l'umanità aveva sin lì creato.
André Derain, a cura di I. Monod-Fontaine, Ferrara, Ferrara Arte Editore, 2006, 352 p., euro 47,00.
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