Rivista "IBC" XIV, 2006, 3

Dossier: Facile a dirsi - Come divulgare la cultura

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /

Partiamo dal testo

Luciano Canfora
[docente di Filologia greca e latina all'Università di Bari]

Luciano Canfora, professore ordinario di Filologia classica all'Università di Bari, è tra gli studiosi del mondo antico uno che da sempre ha concepito la sua professione incardinata su ricerca, insegnamento, divulgazione. Proprio quest'ultima voce è quella in cui può essere più difficoltoso esprimersi. Ma di divulgazione necessita un grande pubblico desideroso di apprendere, nel caso specifico, la storia. Avvicinarsi alla storia, mettere in relazione uomini e fatti, guardare in modo trasversale gli eventi significa maturare memoria, capacità critica con cui vivere il proprio tempo e immaginare un futuro. Recentemente, nell'ambito del programma di Radio2 "Alle 8 della sera", il professore ha tenuto un ciclo di trasmissioni intitolato appunto 1914, che ora è anche un libro edito da Sellerio ( www.radio.rai.it/radio2/alleotto/1914/index.cfm).

Era imprescindibile coinvolgere nel nostro breve tour sulle vie della divulgazione lo studioso che ci ha portato a riflettere sulle origini della democrazia (La democrazia. Storia di un'ideologia, Bari-Roma, Laterza, 2004), a provare una simpatica confidenza nei confronti di autori come Tucidide o Cicerone, a considerare quanto possa essere "pericolosa la vita dei filosofi antichi" (citando un altro titolo di Sellerio: Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci, Palermo, 2000), a ripercorrere, attraverso l'edizione di un papiro, decenni recenti, assai complessi per la storia politica e culturale del nostro Paese (Il papiro di Dongo, Milano, Adelphi, 2005). Abbiamo rivolto al professor Canfora alcune domande sul suo rapporto con la divulgazione.

Ma, a sottolineare la sua collaborazione proficua con i diversi mezzi di comunicazione, vi segnaliamo un suo intervento intitolato A che serve la storia? nell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche di Rai Educational, tratto dalla puntata del 27 febbraio 1998 del programma Il Grillo (www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=191). Leggendolo, si comprende come alla base della conoscenza ci sia una finezza intellettuale che abbia la predisposizione generosamente umile e duttile a coniugare contesti e linguaggi che mutano, ma che non possono appannare il valore dei documenti.

 

Professore, fino a pochi decenni fa era opinione diffusa che, mentre in Inghilterra o in Francia la migliore divulgazione era firmata dagli studiosi più prestigiosi, nel nostro Paese fosse evidente, salvo poche eccezioni, la diffidenza che il mondo accademico dimostrava per un linguaggio e, dunque, per una comunicazione, che potessero essere rivolti a chiunque. Permettendo così a tutti, al di là della personale formazione, un approccio accessibile, semplice, a un qualsiasi argomento. Quali sono, a suo avviso, le radici storico-culturali di questo sospetto, di questo snobistico rifiuto?

Non condivido la premessa. In Italia ci sono stati non pochi accademici che si sono impegnati nella divulgazione. Mi limito al Novecento e suggerisco a riprova una rassegna, anche sommaria, dei principali quotidiani. Dal "Corriere della sera" al "Popolo d'Italia" le terze pagine sono zeppe di interventi divulgativi, e molto ben fatti, di studiosi quali Pasquali, Breccia, Coppola, Ducati, Bianchi Bandinelli, ecc., per tenerci soltanto all'ambito del mondo antico. Inoltre alcuni di loro raccolsero in volumi "popolari" quanto venivano scrivendo sui giornali o in sede non paludata né tecnica. Questo è un precedente importante, che trae origine dal salto verso l'engagement che tutti i gruppi intellettuali dei vari paesi compirono con l'esplosione del conflitto del '14. Lo "snobistico rifiuto" riguarda piuttosto i docenti o accademici di modesta levatura. I quali, per fortuna, si astengono dalla divulgazione: infatti risulterebbero nefasti. Invece, così come stanno le cose, non sono letti da nessuno. E questo è ottima cosa. Basti pensare alle esternazioni di docenti ormai inaciditi (e forse manzonianamente "malvissuti"), animatori di polemiche causidiche e ossessive ma prive di fondamento e, per di più, di interesse.

 

Lei coniuga la ricerca con una costante attività di divulgatore senza mai rinunciare al rigore del metodo: come si è venuta delineando la sua personale idea di divulgazione?

Nel 1973, ristampando Storicità dell'arte classica, Ranuccio Bianchi Bandinelli scrisse pagine memorabili sulla divulgazione e sulla diversa, possibile, maniera di realizzarla. Disse, tra l'altro, che divulga utilmente solo colui che continua attivamente a fare ricerca: altrimenti, concluse, si divulgano falsità o idee rancide. Io credo che questa pagina di Bianchi Bandinelli abbia molto contribuito a orientare il mio lavoro.

 

Come si riesce a far parlare i documenti, a renderli vivi, a trasformare, per esempio, una ricerca d'archivio in un racconto in cui anche il lettore più sprovveduto può procedere, incalzato dalla curiosità, dal piacere di apprendere?

Non conosco (e credo che non esistano) "ricette" in questo campo. Credo di poter dire che il mio modo di lavorare comporta sempre che il punto di partenza sia un testo. Mi è capitato per La sentenza (1985) e di recente per Il papiro di Dongo (2005). Nel primo caso si trattava dell'articolo di Concetto Marchesi in replica a Giovanni Gentile (novembre 1943 - febbraio 1944). Capire com'era nato, perché l'autore nascondeva la vera sede di pubblicazione, che efficacia pratica esso ebbe, è stato questo il percorso da me seguito: e la storia del testo è di necessità diventata una "inchiesta". Lo stesso può dirsi per l'articolo, molto bello e sistematicamente dimenticato nel dopoguerra, di Goffredo Coppola nel "Popolo d'Italia" del 19 agosto 1939 sui nuovi frammenti delle Elleniche di Teopompo. Da quell'articolo, dalla sua "cancellazione" postbellica, è partita l'inchiesta che mi ha condotto a ricostruire nel Papiro di Dongo alcune vite e alcune morti. Ancora una volta il merito è della "storia del testo".

 

Oltre ai tanti libri attraverso i quali riesce ad avvicinare alla storia, ai suoi protagonisti, un pubblico più ampio di quello che ha avuto la fortuna di frequentare il liceo classico o una facoltà umanistica, lei collabora con alcuni grandi quotidiani, con programmi, preferibilmente radiofonici, con la televisione. Tra tanti strumenti di cui la divulgazione dispone quali sono per lei i più efficaci, i più ambigui e perché?

Del giornale quotidiano ho detto in principio: si tratta di una tradizione che risale molto indietro nel tempo, e che difficilmente si interromperà. Degli altri media preferisco la radio perché ha tempi di comunicazione più distesi e rilassati, e ragionativi, di quelli televisivi. Questi ultimi sono invece molto spesso convulsi: e ne scapita la chiarezza. Ma non dobbiamo certo cadere nella sindrome di don Ferrante o del cardinale Bellarmino!

[a cura di Valeria Cicala]

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