Rivista "IBC" XIV, 2006, 2

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / convegni e seminari, interventi, leggi e politiche

La nuova legislatura ha di fronte a sé molti problemi, ma anche alcune opportunità: dall'Emilia-Romagna giungono proposte concrete per risolverli, e coglierle.
Aspettando un nuovo corso

Silvia Dell'Orso
[giornalista e saggista]

Il 14 marzo 2006, alla Biblioteca comunale dell'Archiginnasio di Bologna, si è tenuto un incontro su "Il paesaggio, i luoghi d'arte e le istituzioni culturali", dedicato alle attuali difficoltà in cui versa il patrimonio italiano, tra carenza di personale, risorse economiche sempre più ridotte e discrasie legislative. Tra i vari e qualificati interventi proponiamo quello di Silvia Dell'Orso, una dei non numerosi giornalisti che si occupa di beni culturali con sistematicità.

 

I segnali provenienti dal Ministero per i beni e le attività culturali sono tutt'altro che rassicuranti. Lo si vede procedere con sempre maggiore fatica, e neppure ha beneficiato delle nuove leggi, che non hanno migliorato la situazione; anzi, lo hanno ulteriormente imbolsito: il personale invecchia e non viene sostituito; è aumentato a dismisura il numero dei dirigenti generali che, con la recente riforma, è passato da 10 a 44, indebolendo ovviamente le soprintendenze periferiche e moltiplicando la catena di comando. Sono 43 le soprintendenze in mano a reggenti che per di più sono in scadenza e non si sa se verranno riconfermati!

Eppure, ancora una volta, seppure di fronte a territori vasti e variegati come quelli dei beni culturali, la visione rischia di arrestarsi al solo ruolo esercitato dal Ministero e dunque dallo Stato. Soggetto imprescindibile e insostituibile, indiscutibilmente, da potenziare e incoraggiare sempre, ma da molto tempo non più l'unico soggetto implicato in questo settore. Soprattutto ora, dopo le riforme Bassanini e con l'avvio del processo federalistico (inarrestabile e sacrosanto, al di là di una folle riforma costituzionale che si spera verrà rinviata al mittente dal referendum), affiancato da altri soggetti: le regioni, le province, i comuni e i cittadini tutti, siano essi singoli individui o riuniti in associazioni, fondazioni, ecc.

Per inciso, questi ultimi - i cosiddetti "privati" - sono chiamati talmente tanto in causa che oggi non sarebbe ipotizzabile farne a meno o ignorarli. Penso, a questo proposito, a una realtà come il Fondo per l'ambiente italiano (il FAI) che conosco molto da vicino e che ritengo possa costituire un esempio efficace di come il mondo privato - e in questo caso il settore non profit - possa efficacemente contribuire alla conservazione e alla gestione di beni di valore storico-artistico e naturalistico. Ma come il FAI si possono ricordare il WWF, Italia Nostra (al di là della brutta crisi che sta vivendo in questo momento) e tante altre associazioni ambientali e di tutela. Per non chiamare in causa autentici motori diesel, nel senso che muovono finanziamenti a lungo termine, ma ora anche fior di progetti, come le fondazioni di origine bancaria, che cessato il loro ruolo di puri bancomat si stanno ponendo come soggetti attivi, in grado di collaborare con altri alla definizione di alcuni problemi e alla loro risoluzione nell'ambito dei rispettivi territori di appartenenza o di ambiti più allargati.

Allora io dico: non è giunto forse il momento di richiamare tutti quanti - vecchi e nuovi protagonisti - alle proprie responsabilità? Ma intendo dire davvero tutti, riconoscendo e legittimando il ruolo di ognuno e traducendo finalmente in fatti quella sussidiarietà di cui tanto si è parlato in questi anni, ma che stenta obiettivamente a decollare. Io credo a questo proposito che sia necessario un ripensamento radicale di un settore che da troppo tempo viene considerato intoccabile e che, se mai è stato toccato, lo è stato in modo parziale, timido, frammentario e mai all'interno di un progetto veramente organico di tutela e insieme valorizzazione del nostro patrimonio culturale e ambientale: e sottolineo la stretta relazione che lega questi due concetti, così sventatamente messa in discussione.

Non possiamo che constatare, a distanza di oltre vent'anni, che il progetto di decentramento, auspicato da tanti nella sua forma migliore (che certo non è quella della devolution!), è tutt'altro che decollato. Anzi, si è venuto riaffacciando di recente uno sconnesso neocentralismo, pur a dispetto dell'evidente diminuzione di autorevolezza tecnico-scientifica delle soprintendenze. Sono convinta che un'età dell'oro dei beni culturali non sia mai esistita. Che il lungimirante progetto di tutela evocato già prima delle leggi Bottai sia rimasto in gran parte sulla carta. Che la straordinaria architettura pluriprovinciale delle soprintendenze - così ben congegnata ramificata, tentacolare - non sia mai stata messa in condizione di lavorare davvero efficacemente e, al di là del grande valore e della competenza di tanti singoli funzionari (ma non si può in eterno sopperire alle carenze con passione e dedizione) sia stata costretta invece a vivacchiare (anche se mai in malo modo come oggi), limitandosi a esercitare la politica del vincolo e ottenendo per contro il generale dissenso che ben conosciamo e che ora ne ostacola il rafforzamento.

Oggi abbiamo l'opportunità di ripensare lo scenario valutando ruoli e compiti di tutti i soggetti coinvolti. Certo non possiamo congelare la tutela in attesa di ripensarla in una forma migliore, ma credo che a pratiche sempre più convincenti si possa affiancare un serio lavoro di indagine, di analisi dei dati raccolti e di progettazione di nuove modalità operative. Mi piacerebbe che il nuovo governo, accanto all'ordinaria e doverosa amministrazione - speriamo tutti ben più efficace di quella odierna - nominasse una nuova commissione d'inchiesta (come la "Franceschini", per esempio: ma non, come quella, destinata a rimanere inascoltata), e la incaricasse di raccogliere tutti gli elementi necessari per rivisitare la struttura ministeriale sulla base dell'esperienza maturata finora, integrandola quindi con quella territoriale, ma anche immaginando percorsi formativi affini per i funzionari dei diversi enti (di concerto con l'università), o comunque vicini e rispondenti alle diverse esigenze di ruoli finalmente chiari e definiti.

Vale la pena ricordare la positiva esperienza condotta dalla commissione mista Stato-Regione, istituita nel 1998 per lavorare a un moderno quadro normativo riguardante i musei italiani e tradottasi non soltanto nella definizione di standard condivisi, ma anche in una stagione di rinnovata vitalità del settore museale e delle professionalità dei musei (oggetto in questi mesi di un interessantissimo tavolo di discussione promosso da ICOM Italia). Sono convinta che tutti possano fare la propria parte per il futuro del patrimonio culturale, ma sono altrettanto certa che serva un vero grande progetto unitario di tutela. Un progetto il cui presupposto di partenza sia che il patrimonio culturale non è una fonte diretta di reddito, ma che, in termini di indotto, può diventare un volano fondamentale di crescita sul quale puntare per lo sviluppo del Paese. Perché questo avvenga è necessario, però, come è anche stato sottolineato in un recente appello sottoscritto dal FAI, dal WWF e da Civita (appello al "futuro Governo italiano", pubblicato sui più importanti quotidiani in vista delle elezioni):1

● aumentare le risorse economiche, portando il bilancio destinato alle politiche culturali ad almeno l'1% del PIL, il Prodotto interno lordo (oggi allo 0,7%, contro l'1% della Francia e l'1,35% della Germania);

● garantire che le risorse culturali siano adeguatamente conosciute, conservate, tutelate e gestite nella prospettiva della loro migliore fruizione;

● coordinare fra loro le politiche culturali con quelle ambientali;

● concepire la valorizzazione del patrimonio in un modo così lungimirante e accorto da fare sì che questa possa portarsi dietro lo sviluppo di altri settori economici, ausiliari rispetto alle politiche culturali, come il turismo, l'enogastronomia, le produzioni manifatturiere artigianali locali, le industrie di servizi, la produzione culturale contemporanea, le industrie culturali e del tempo libero.

Il turismo, in particolare - come ha suggerito Pio Baldi, direttore generale per l'arte e l'architettura contemporanea del Ministero - potrebbe costituire uno dei principali presupposti per la buona conservazione dei beni culturali: "Si tratta di mettere in sintonia i due settori facendo cogliere a ciascuno le positività dell'altro: più i beni culturali di una zona saranno restaurati, protetti, visitabili e integrati con paesaggio, gastronomia, ospitalità e accoglienza, più essi saranno in grado di attirare turismo e di portare ricchezza in sede locale. Deve quindi valere anche il processo inverso e cioè che il turismo" - il cui fatturato totale equivale a quasi il 12% del PIL - "possa restituire, per il restauro dei beni culturali, una parte di quella ricchezza che per merito di essi è in grado di accumulare".2 E a questo proposito Pio Baldi ha anche ipotizzato di destinare 2 o 3 punti dell'IVA su tale gettito per finanziare, secondo necessità e opportunità individuate zona per zona, interventi di protezione di quel patrimonio culturale e paesaggistico che dal turismo può ricevere danni e che del turismo e della ricchezza che ne deriva è il motore principale.

Davvero un grande progetto, dunque, che non si può certo pensare di concretizzare in breve tempo, ma che potrebbe essere avviato nella prossima legislatura, badando a tenere la tutela a distanza di sicurezza dagli interessi locali (e dai localismi), seppure non così distante da mettersi in condizioni di non capire più il contesto. Non solo, ma anche considerando la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale come strategiche per lo sviluppo sociale ed economico del Paese.

Se è vero dunque che il patrimonio culturale risponde a un bisogno per così dire identitario (stando sempre attenti a come viene utilizzata questa parola, perché spesso le "identità" vengono fraintese, cristallizzate e usate come veri e propri oggetti contundenti), è vero anche che può essere inteso in un modo dinamico, per la sua capacità di sollecitare partecipazione, attenzione, interesse, condivisione. Per la sua capacità di attrarre turismo. Per le opportunità occupazionali che offre, perché il paesaggio, l'ambiente, il patrimonio e la produzione culturale - come ha ribadito Giovanna Melandri nella sua visione di un "new deal della bellezza italiana" - "sono di per sé un grande valore e possono sollecitare una filiera produttiva che può garantirne la tutela, può facilitarne la fruizione, può creare attività imprenditoriali e di conseguenza occupazione".

Credo che chi oggi è approdato al governo del Paese debba avere presente tutto questo e sapere anche che per smuovere le acque ci vogliono investimenti a breve e a lungo termine, ci vogliono persone competenti e motivate, strutture statali e locali messe nelle condizioni di agire, vantaggi fiscali per aziende e privati cittadini che intendono fare la loro parte. E, ripeto, un grande progetto che sappia tenere conto della molteplicità dei soggetti, delle diverse modalità operative, ma integrandole in un obiettivo comune di tutela e sviluppo.

 

Note

(1) Il testo integrale dell'appello può essere consultato sul sito "Patrimoniosos.it. In difesa dei beni culturali e ambientali": www.patrimoniosos.it/rsol.php?op=getgetarticle&id=18867

(2) P. Baldi, La bellezza fa bene allo sviluppo, "Il Sole 24 Ore", 5 marzo 2006 (per leggere l'articolo in versione integrale: www.patrimoniosos.it/rsol.php?op=get article&id=18483).

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