Rivista "IBC" XII, 2004, 2
biblioteche e archivi / convegni e seminari, leggi e politiche
Il nostro paese, il "bel paese" come con un misto di retorica e di malcelata ironia si continua a dire, ha un nuovo Codice dei beni culturali (si vedrà se passerà alla storia come Codice Urbani dal nome del ministro che l'ha voluto).1 Il Codice, in vigore dal primo maggio di quest'anno, ha così lasciato le segrete stanze ministeriali dove è stato concepito, senza essere sottoposto al parere degli esperti che fanno parte del consiglio per i beni culturali e ambientali. Con la sua pubblicazione sulla "Gazzetta Ufficiale" sono cessate le indiscrezioni, le fughe di notizie, le mezze verità magari seguite da malaccorte ritrattazioni o smentite, che nei mesi addietro rimbalzavano di tanto in tanto sulla stampa a proposito di timori, spesso fondati, sulla sorte che avrebbe avuto il patrimonio culturale italiano. Il Codice, come sempre avviene per i provvedimenti normativi una volta che siano formalmente resi pubblici, sarà d'ora in poi oggetto di letture e interpretazioni giuridiche, politiche, dottrinarie, ecc., difformi se non divergenti. I cittadini verificheranno a partire dai prossimi mesi se qualcosa è cambiato in meglio rispetto a prima. Con il testo hanno intanto cominciato a confrontarsi quanti ai vari livelli operativi dovranno applicarlo e magari, se possibile, cercare di correggerlo nell'arco di due anni dalla data in cui è entrato in vigore.
Per quanto riguarda gli archivi, opportuna e tempestiva è stata l'iniziativa - presa dalla Sezione toscana dell'Associazione nazionale archivistica italiana e dalla Regione Toscana - di organizzare un convegno di studi sul futuro che attende il patrimonio documentario pubblico e privato italiano.2 Vi hanno partecipato, oltre a direttori d'archivio, sovrintendenti archivistici e archivisti in genere, studiosi di diritto costituzionale e di diritto amministrativo, sociologhi, assessori e dirigenti regionali. Sono state espresse soprattutto impressioni a caldo, nella consapevolezza che valutazioni approfondite potranno essere fatte solo dopo attente letture e puntuali applicazioni del Codice, nonché dopo i necessari confronti tra quest'ultimo, i connessi provvedimenti normativi non abrogati o abrogati solo parzialmente, le specifiche leggi emanate dalle varie regioni riguardo i beni culturali, il Testo Unico del 1999, eccetera.
Nel convegno fiorentino si sono ascoltate voci differenziate e osservazioni variegate su come il settore degli archivi viene nel Codice disciplinato. Riflessioni di carattere generale e di respiro più ampio si sono alternate a problematiche più specifiche e tecniche. I costituzionalisti e gli amministrativisti hanno soprattutto ricordato che per capire - e criticare - il Codice è necessario partire ancora una volta dagli articoli 9 e 114 della Costituzione, e che soprattutto occorre tener conto della riforma del titolo V della stessa Costituzione, portata a termine nel 2001. A questa è da ricondurre infatti la distinzione tra la sfera della tutela (allo Stato) e la sfera della valorizzazione (alle Regioni), che tante e spesso argomentate e condivisibili critiche ha sollevato e continua a sollevare. Arroccarsi su posizioni statalistiche difensive rispetto a temibili attacchi regionalistici porterebbe però poco lontano. Meglio trovare soluzioni operative coordinate ed efficaci per opporsi a quelle norme - e non sono poche - che restringono l'area della tutela e mirano a trasformare parte dei nostri beni culturali in merce vendibile al miglior offerente. Meglio cercare di dare rapida attuazione a quegli articoli del Codice che possono aprire prospettive diverse. A partire ad esempio dall'articolo 1, in cui fra l'altro si dice che: "Lo Stato, le regioni, le città metropolitane, le province, i comuni assicurano e sostengono la conservazione del patrimonio culturale e ne favoriscono la pubblica fruizione e la valorizzazione" e che tutti i soggetti pubblici e privati interessati alla "tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale [... e] a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio" devono cercare di operare insieme. Più volte del resto lungo l'articolato del Codice si fa riferimento a "intese", a "accordi", a "cooperazioni", a "coordinamenti" tra Stato e Regioni. Mettere a punto e rendere operativi le une e gli altri non sarà facile. E poi, ci si potrebbe chiedere, cosa succederà nel caso in cui i soggetti interessati alle "intese" non giungono a stipulare precisi "accordi"?
Quanto agli archivi, si dice nel Codice che essi fanno parte della "memoria della comunità nazionale e del suo territorio"; ma ancora una volta si ribadisce che mentre gli archivi dello Stato, della regione, degli altri enti territoriali e pubblici in genere lo sono sic et simpliciter dal momento della loro formazione, quelli appartenenti ai privati lo sono solo se "rivestono interesse storico particolarmente importante" (articolo 10, punto 3 b) e dopo che nei loro confronti sia stata emessa la prescritta "dichiarazione dell'interesse culturale" (articolo 13). In proposito va ricordato che nel Decreto del Presidente della Repubblica 30 settembre 1963, n. 1409 (che per quasi un quarantennio ha accompagnato il lavoro quotidiano degli archivisti) era stata usata l'espressione "notevole interesse storico", mantenuta anche nel Testo Unico del 1999. Esperti del linguaggio giuridico ci diranno quale diversità di peso semantico ci sia tra "interesse storico particolarmente importante" e "notevole interesse storico". A una prima lettura sembra che l'espressione inserita nel Codice sia più restrittiva di quella precedentemente usata. Non si capisce inoltre perché gli archivi privati possono essere accolti negli istituti conservativi sotto la forma del "comodato" con tutte le precarietà del caso (articolo 44) e non più, come era stato sinora, sotto la forma del "deposito", che offre certamente maggiori garanzie di tutela degli stessi e non è come, si va dicendo, uno "strumento obsoleto e farragginoso".3
C'è inoltre da preoccuparsi per il fatto che si ripropongono qua e là concezioni del tutto superate e si persevera nell'ignorare i risultati del dibattito storiografico di questi ultimi decenni sulla tipologia e sulla conservazione delle fonti. Ad esempio nell'articolo 10 viene pari pari ripreso quanto contenuto nel precedente Testo Unico (articolo 2 comma 1, lettera A), e da più parti e con serrati argomenti criticato, a proposito della non possibile inclusione nei complessi archivistici di manoscritti, autografi, carteggi, carte geografiche, fotografie, sequenze di immagini, audiovisivi, ecc., che pure, come è ben noto, di essi possono far parte integrante. Ma c'è di peggio. Che gli istituti archivistici vengano annoverati tra gli "istituti e luoghi della cultura" (come indicato dall'articolo 101) sembra essere una felice anche se tardiva conquista. Ma che essi raccolgano solo "documenti originali di interesse storico" è una tale assurdità concettuale e segno di una tale arretratezza culturale che può essere uscita solo dalla testa e dalla penna di un qualche ottuso o fantasioso personaggio. Certamente da chi non ha mai posato lo sguardo su (e tanto meno letto) documenti d'archivio di tipo cartaceo o digitale e non ha la minima idea di cosa significhi usare l'aggettivo "originale" accanto al sostantivo "documento".
Non sono state inoltre trovate formulazioni soddisfacenti a proposito del legame tra archivio storico e archivio corrente, legame che si pensava fosse ormai del tutto consolidato in quanto determinante per le conseguenze che ne derivano per la trasmissione della memoria documentaria. Il legame sembra essersi in anni recenti allentato non tanto per le annose e pressoché irrisolvibili difficoltà che connotano l'operato delle commissioni introdotte dalla legge archivistica del 1963 e in seguito più volte oggetto di attenzione legislativa (di quelle commissioni, cioè, che erano state istituite proprio per collegare meglio istituti deputati alla conservazione permanente e soggetti produttori, oltre che detentori, di archivi). E neppure per l'impossibilità da parte degli istituti conservativi - anche se è cosa tutt'altro che trascurabile - di sollecitare versamenti e di adempiere agli obblighi che li prescrivono, per mancanza di spazi adatti ad accogliere ulteriore documentazione. E ancora meno l'allentamento dei rapporti tra archivio storico e archivio corrente è da attribuire - come ha osservato il ministro Urbani4 - agli archivisti, che secondo lui "non sanno come difendersi" da quell'incontrollabile "fiume in piena" rappresentato dagli archivi contemporanei.
La riproposizione di una distinzione tra archivio storico e archivio corrente è forse da attribuire a dei più generali comportamenti politico-culturali diffusi in vario modo un po' ovunque. Sembra esserci infatti, da un lato, un'appiattimento sul presente con conseguente messa tra parentesi del passato, dall'altro un'idea di passato da proteggere in quanto tale, come una sorta di monumento memoriale da ammirare silenti, da mostrare orgogliosi come parte della propria storia, oppure da mettere se è il caso in discussione tramite malaccorti revisionismi. Gli archivisti - si va da più parti anche se non sempre esplicitamente dicendo - facciano pure attività di conservazione, di valorizzazione, di fruizione della documentazione ritenuta storica, ma su quella cosiddetta corrente facciano fare ad altri. Ai politici, agli amministratori, alle agenzie di outsourcing, agli informatici, eccetera. Più in generale, per quanto riguarda gli archivi in formazione sembra almeno a una prima occhiata - ma bisognerà guardare meglio tenendo conto di combinati disposti tra vari articoli del Codice - che le idee siano diventate più confuse, rispetto a quelle che circolavano nel precedente Testo Unico. Ad esempio all'articolo 21 punto 3 si dice: "Lo spostamento degli archivi correnti dello Stato e degli enti ed istituti pubblici non è soggetto ad autorizzazione" di sorta, e all'articolo 41 si parla di "obblighi di versamento agli Archivi di Stato dei documenti", ma non più, come si leggeva all'articolo 30 del Testo Unico, anche di "vigilanza sugli archivi delle amministrazioni statali". Chiunque si rende facilmente conto che spostare un archivio non è cosa da fare con leggerezza, senza tutte le cautele del caso. E poi, una volta spostato dalla sua sede originaria in un'altra sede (e quale? e per quanto tempo?) chi e con quale preparazione si occupa degli archivi in questione, chi controlla la loro buona tenuta? Saranno conservati i contesti di appartenenza nonché i nessi, le relazioni che legano i documenti fra loro? In breve viene da chiedersi quale sarà la sorte di archivi che "storici" non sono, in quanto non "costituiti dai documenti relativi agli affari esauriti da oltre quaranta anni", i soli sembra, a leggere l'articolo 30 del Codice, che siano soggetti agli "obblighi conservativi" in esso indicati.
Viene il dubbio che con un termine scarsamente denotativo come "spostamento", si finisca per lasciare spazio a una crescente invadenza di attività di outsourcing svolte da società che pretendono, ma di rado lo sono, di essere specializzate nel gestire archivi e nel mettere a punto procedure e tecniche informatiche che escludono la presenza di archivisti. Che succederebbe ad esempio se, in assenza di archivisti competenti, si dovessero pedissequamente seguire suggerimenti che magari vengono dall'alto, come quelli avanzati dal ministro per i beni e le attività culturali? Questi, a proposito degli archivi contemporanei, ha osservato: "attualmente, conserviamo cose di grande importanza, ma anche altre del tutto inutili. Ad esempio un ministero che ci dà molto lavoro, come sapete, è quello delle Finanze. Voglio domandare a Tremonti se ci dobbiamo accollare proprio tutto. In Italia, per decenni si sono concessi condoni. Se li facciamo per gli evasori, facciamone qualcuno anche per le carte degli evasori. Se abboniamo loro le tasse, perché dobbiamo conservare le loro più o meno false dichiarazioni dei redditi? Siamo realisti!".5 Sarebbe troppo facile bollare con ironia queste espressioni. Ricordiamocele però quando ci troveremo a valutare il significato da dare all'aggettivo "originale", usato, come già detto, nel recente Codice per definire la tipologia dei documenti che vanno conservati per la posterità.
Avvertire i pericoli insiti nel nuovo, o presunto tale, che ci viene rovesciato sulla testa non significa ovviamente rimpiangere i vecchi e peraltro traballanti recinti dei propri orticelli istituzionali protetti da specifiche regolamentazioni. Non significa rimanere attaccati a una cultura diffidente di qualsiasi cambiamento, quanto piuttosto non disperdere saperi e tradizioni di lavoro che hanno preservato, pur tra tanti limiti e difetti, la variegata e imponente sedimentazione degli archivi italiani. Ma restare attaccati a un ottuso e arcaico statalismo sarebbe controproducente. Non si può dimenticare fra l'altro che da qualche decennio molte cose sono cambiate a proposito della centralità dello Stato, dei rapporti tra centro statale e territori periferici, dei ruoli e delle funzioni svolte all'interno di questi ultimi da parte della pluralità di soggetti territoriali, pubblici e privati, che vi operano. Non si può ignorare che lo Stato non ha più il monopolio del potere e che si è instaurata una vasta e fitta rete di poteri centrali e periferici, pubblici e privati, con cui, anche per quanto attiene i beni culturali, occorre confrontarsi.
E ciò soprattutto se si intende trasmettere alla posterità memorie molteplici e variegate in quanto segno e traccia della molteplicità dei poteri e della varietà dei soggetti che operano nella società contemporanea. Trovare equilibrati rapporti, comportamenti di corretta collaborazione e forti "intese" tra le istituzioni, tra le forze e tra le persone che si affollano all'interno dei differenziati contesti locali al fine di migliorare le possibilità conservative e di fruizione degli archivi, come dei beni culturali in genere, è la grande sfida che ci sta davanti (e che il Codice pone in modo ora confuso, ora sbagliato). Farla ancora una volta cadere, raccoglierla senza troppa convinzione o lasciarla in mano ai privati e alle loro millantate liberalizzazioni (sempre più i sociologhi parlano di privatizzazioni che non portano a liberalizzazioni, ma anzi finiscono per comprimere diritti dei cittadini) significherebbe arrecare un danno irreparabile alla memoria storica nostra e degli altri. A meno che proprio perché essa è inquietante e sempre più densa di ombre minacciose non la si voglia volutamente oscurare o nascondere.
Note
(1) Si veda il Decreto legge 22 gennaio 2004, n. 41 "Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137".
(2) Il tema del convegno, tenutosi a Firenze nei giorni 31 marzo - 1 aprile 2004 con il coordinamento scientifico di Francesca Klein e Stefano Vitali, era: "Archivi e archivisti tra amministrazione e società: quale futuro? La riforma dei beni culturali".
(3) Si veda la nota con cui viene presentato il nuovo Codice su "Culturalweb", il quotidiano elettronico del Ministero per i beni e le attività culturali: www.culturalweb.it/ (n. 638, 3 maggio 2004).
(4) G. Urbani, Il tesoro degli italiani. Colloqui sui beni e le attività culturali, Milano, Mondadori, 2000, p. 72.
(5) G. Urbani, Il tesoro degli italiani, cit., ibidem.
Azioni sul documento