Rivista "IBC" XIV, 2006, 2
musei e beni culturali / immagini, mostre e rassegne, pubblicazioni
Le fotografie di questo numero di "IBC" fanno parte della mostra "Gli occhi del pubblico. Visitatori nei musei dell'Emilia-Romagna", organizzata dall'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna presso la Sala espositiva della Cineteca comunale di Bologna dal 29 marzo al 30 aprile e replicata poi a Rimini, presso il Museo degli sguardi, dal 15 giugno al 27 agosto 2006. La mostra, curata da Carlo Tovoli e Isabella Fabbri, propone una selezione degli scatti realizzati da Isabella Balena, Tano D'Amico e Paolo Righi nel corso di una ricerca condotta in tempi e luoghi diversi. L'indagine fotografica di Tano D'Amico, realizzata negli anni Novanta, ha riguardato i principali musei presenti in regione, quella di Isabella Balena e Paolo Righi, condotta nel 2005, ha "osservato" in particolare il pubblico dei Musei civici di Reggio Emilia, del Museo della città di Rimini, della Galleria Ferrari a Maranello e del Museo Ducati di Bologna.
L'esposizione bolognese - che comprendeva anche una sezione dedicata dalla Cineteca al pubblico delle sale cinematografiche d'essai, ritratto da Gilberto Veronesi - ha presentato il video di Dario Zanasi "Il gusto della meraviglia", un itinerario in alcuni spazi museali del capoluogo, e ha offerto un animato programma di iniziative collegate: un ciclo di film dedicati ai musei e una lettura dei racconti selezionati dal concorso "6000 caratteri per un museo", condotta dagli allievi della Scuola di teatro di Bologna "Alessandra Galante Garrone".
Dal catalogo della mostra, curato da Carlo Tovoli (Bologna, IBC-CLUEB, 2006), pubblichiamo il contributo di Michele Smargiassi, giornalista e studioso di storia della fotografia.
Perplessità, soggezione, un'ombra di trattenuto disgusto. La relazione pericolosa tra gli italiani e il museo è già tutta negli occhi di Alberto Sordi (italiano medio anche fuori scena, grande attore anche quando inconsapevole) sorpreso da un fotografo dell'agenzia Cameraphoto alla Biennale di Venezia del 1958 mentre sbircia attraverso le superfici astratte di una scultura di Alberto Viani. Preso a tradimento, si potrebbe dire. Fotografare il visitatore di un museo mentre cerca di fare i conti con l'opera d'arte è un'imperdonabile intromissione in una sfera intima, è colpire vilmente un soggetto indifeso e vulnerabile. Come il cinema, come il teatro, il museo è un luogo collettivo in cui tentiamo di sperimentare un'esperienza estetica individuale. Ma almeno al cinema e in teatro le luci sono spente, e siamo tutti seduti e voltati nella stessa direzione. Nel territorio del museo, invece, i percorsi fisici e mentali si incrociano, a volte si scontrano: c'è traffico di passi, di membra e di sguardi. La privacy delle nostre emozioni è protetta solo dall'omogeneità e dalla reciprocità: ciascuno di noi pensa a sé, i coabitanti occasionali sono ombre, una specie di tacito e condiviso pudore suggerisce di non guardare in faccia il compagno di visita, così limitiamo le nostre occhiate al minimo indispensabile per evitare collisioni e pestaggio di piedi.
Il fotografo che mira alle nostre facce, approfittando di un momento di contemplazione privata in luogo pubblico, è un cacciatore dalla preda facile. Ci coglie con la guardia abbassata, moralmente disarmati, in déshabillé emotivo. Penetrare il segreto visuale dell'opera è già di per sé uno sforzo troppo grande perché riusciamo, contemporaneamente, a tenere anche sotto controllo la nostra immagine. Entrare in relazione con l'opera che abbiamo di fronte è un'operazione che ci richiede non solo il tributo di una concentrazione mentale superiore al normale, ma perfino una sorta di partecipazione fisica. Sempre a una Biennale, un altro attore popolare, Aldo Fabrizi, fu osservato da un indiscreto ma attentissimo compagno di visita, Mario De Micheli, mimare inconsciamente, come in un lacaniano "stadio dello specchio", le sconvolte fisionomie dei ritratti di Picasso, con esiti fisionomici prevedibilmente comici. Sì, facciamo le smorfie davanti ai quadri. Leonardo o Mondrian, non fa molta differenza. Cerchiamo di afferrare col corpo quel che non riesce a entrare dalla porta della mente: ma di questo riparliamo fra un po'.
Questo che avete sotto gli occhi dunque è un album voyeur e un po' scortese. Si giustifica però per quel che ci rivela su un campo di relazioni sociali poco frequentato dai sociologi, dato un po' per scontato: l'antropologia del museo. Luogo dove uomini (alcuni vivi, altri defunti anche da secoli) si parlano attraverso oggetti. Succede anche nelle biblioteche: ma le parole scritte sono un codice collaudato e apparentemente trasparente. La lingua delle immagini, invece, ben pochi la sanno parlare correntemente; eppure tutti pensano che non ci sia bisogno di impararla, di studiarla. Tutti pensano sia un linguaggio naturale, universale, iscritto nei nostri cromosomi, automatico come la meccanica della deambulazione o della respirazione. Un'immagine non vale forse mille parole? No, non è vero, però è un luogo comune potente, sicché se la comunicazione non scatta, se il dipinto "non ci dice niente", possiamo anche cavarcela dicendo che "non ci piace", ma dentro coviamo la vergogna degli analfabeti. E se non siamo proprio dei grandi attori, ce lo si legge in faccia.
Per cavarci dall'imbarazzo, per fingere disinvoltura, non ci resta che nasconderci dietro la pantomima del corpo, salvarci recitando la parte del visitatore attento e competente. Basta assumere un atteggiamento standard, quello tacitamente prescritto dal galateo della sala esposizioni: silenzio, passetti corti e laterali, a intervalli regolari una gentile riverenza per leggere il cartellino con il nome dell'artista e il titolo ("Ah, è un Perugino!", non sapremmo dire molto di più, ma ci aggrappiamo a quel nome già sentito come a un salvagente di senso nell'oceano dell'ignoto), e soprattutto la sosta immobile in posa assorta, lo sguardo fisso sulla superficie colorata. Ma quanto tempo deve durare la contemplazione di un singolo quadro, per essere verosimile? E in questo tempo, cosa devono fare davvero gli occhi? E la mente? Nessuno ce l'ha mai insegnato, in quest'Italia di cascami crociani, dove anche a scuola c'insegnano che l'opera d'arte parla da sé, grazie alla potenza dell'intuito del suo autore, e che ogni spiegazione per una migliore lettura, ogni suggerimento tecnico per la decifrazione è un intollerabile affronto all'indicibilità del genio.
Eppure c'è la fila, davanti alle grandi mostre. I picture-goers corrono ai botteghini delle grandi antologiche, delle retrospettive storiche, e non lo fanno per qualche ipocrita desiderio di apparire à la page. Guardare le figure ci piace. Questo sì, almeno questo ce l'abbiamo dentro, nel bagaglio del millenario apprendimento di specie, se non proprio nel DNA. Amiamo le immagini, ne abbiamo bisogno: epperò ci fanno paura, come divinità bizzose. Così, potendo scegliere, corriamo a prosternarci davanti a quelle che ci sembrano più inoffensive. I figurativi meglio degli astratti (tranne quei tre-quattro consacrati dall'uso, visti perfino sui rotocalchi), le esposizioni tematiche più che le collezioni permanenti, gli autori di cui sappiamo riconoscere almeno una o due opere piuttosto che i "minori"; insomma le immagini "sicure", quelle di fronte alle quali non abbiamo il terrificante compito di esprimere un giudizio di valore, perché altri l'hanno già fatto per noi, e non ci resta che confermarlo con un "Beeeeeello!" che non ci compromette.
Non è la semplice timidezza, o il senso di inferiorità culturale, che assilla i visitatori dei musei. È panico, nudo e crudo. Una sindrome da paura del vuoto che tiene lontano il visitatore medio dalle mostre di arte contemporanea, dove chi temerariamente entra, esitante come su un campo minato, tiene il cappotto addosso per la paura che la gruccia a cui vorrebbe appenderlo non sia un attaccapanni ma una delle opere esposte (chiedete a qualsiasi direttore di galleria, vi snocciolerà a mezza voce decine di aneddoti esilaranti). Qualche responsabilità bisognerà pur riconoscerla a Duchamp, e soprattutto ai suoi poco fantasiosi epigoni, per quell'idea che ogni oggetto trovato per strada sia un'opera d'arte non appena l'artista la definisce tale. Così, da un secolo, all'incertezza del giudizio estetico (quest'oggetto è bello?) s'è aggiunto il ben più terrificante dilemma ontologico (quest'oggetto è arte?). Cavarcela dicendo che, se si trova in un museo, allora è arte, è solo uno stratagemma tautologico che ci cava dall'impiccio ma, nel foro interiore, non ci rassicura per niente. Perché conosciamo, uscendo dalla mostra o dal museo, la sgradevole sensazione di saperne quanto, se non meno, sapevamo prima di entrarvi.
E allora, per non arrenderci del tutto, per non dichiarare sprecata la giornata e il viaggio, attiviamo altri riti, i nuovi riti del consumismo dell'arte: l'acquisto del costosissimo catalogo-monstre che differisce il senso di inferiorità (se non ho capito durante la visita, capirò leggendolo a casa: ha ottocento pagine!); la capatina al bookshop per comperare un regalino o un gadget (l'incomprensibile opera, ridotta a posacenere o portachiavi, ovvero ricondotta alle forme e all'uso di un oggetto conosciuto e quotidiano, ci fa meno paura, ci sembra più maneggevole, dominabile); perfino la sosta al caffè del museo o alle toilette (il ritorno del corpo alle sue necessità primarie ci rassicura almeno sul fatto di essere ancora esseri umani normali e funzionanti).
Anche la macchina fotografica portatile, tirata fuori di tasca furtivamente, è un'arma di legittima difesa. Uno scudo protettivo dal panico estetico. Molti musei si limitano ormai a sanzionare solo l'uso del flash, e forse non solo per l'impossibilità pratica di proibire del tutto la mania dello scatto: forse ci si è accorti che fotografare o fotografarsi accanto alle opere d'arte è un modo per prendere possesso almeno dello spazio, se non del senso del museo, tempio di divinità altere e mute (come appare nelle gigantografiche Museum Photographs di Thomas Struth). Franco Vaccari forse non ha riflettuto sul fatto che lo straordinario successo della sua "Esposizione in tempo reale" alla Biennale del '72 (installò una cabina per fototessere in mezzo alla sala e invitò i visitatori a lasciare "su questa parete una traccia fotografica del tuo passaggio", ritrovandosi in poche ore un muro interamente ricoperto da micro-ritratti) non fu forse dovuto solo al piacere infantile di partecipare a un gioco d'autore, ma pizzicò nella psicologia dei visitatori una corda sensibilissima, quella del timore per la propria estraneità al recinto dell'Arte, offrendo loro la chiave per entrarvi a pieno diritto, addirittura come opere in mostra. Il piacere di essere guardati, almeno in quel caso, funzionò come antidoto alla paura di guardare.
Si potrà far perdonare la sua invadenza, questa serie di immagini, solo se ripagherà le sue vittime. Come? Non limitandosi a essere uno studio di etologia del consumo museale, ma facendosi avvocata dei diritti negati del visitatore, contro l'albagia esoterica di troppi curatori, contro l'esoterismo furbo e vuoto di troppe istituzioni culturali. In fondo basta poco per trasformare uno spaesato passeggiatore, come quelli che s'intravedono in queste immagini, in un lettore d'arte non più suddito né disarmato.
Nota
Devo un ringraziamento personale a Eugenio Riccomini, da cui ho avuto lo spunto per alcune delle idee di queste pagine, e al suo aureo A caccia di farfalle (Bologna, Zanichelli, 2005), autentico manuale antipanico per visitatori di musei. Gli episodi relativi alla Biennale sono tratti dal volume Venezia 1948-1986: la scena dell'arte, a cura di Luca Massimo Barbero, edito dalla Fondazione Cassa di risparmio di Modena nel 2006.
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