Rivista "IBC" XIII, 2005, 4

Dossier: 6000 caratteri per un museo - Luoghi d'incontro e nuove narrazioni nei musei dell'Emilia-Romagna

musei e beni culturali, dossier /

Èl Castlass

Annalisa Molle
[laureata in Scienze della comunicazione all'Università di Bologna]

Vive ancora là dove è nato. Testimone di eventi e persone. Custode di una narrazione che lo vede protagonista.

Il suo marchio d'origine lo potresti già leggere nella forma circolare del giallo caseificio, impresso nella sconfinata pianura. A certificare radici che affondano in quella distesa di terra, che col passare delle stagioni va sfumando i suoi colori, ma non i ricordi che racchiude.

Bidoni, aste graduate, damigiane abitano ancora là. Sono i soli guardiani rimasti di un mondo fatto di tenacia, sacrificio e passione.

Lungo quelle pareti, che li tengono stretti come in un tenero abbraccio materno di protezione, gli strumenti da lavoro raccontano momenti di vita trascorsa col compagno casaro.

Quel vaso fiammeggiante, che si erge in cima al tetto spiovente, ne fa un piccolo tempio del focolare, dove una volta varcato l'ingresso puoi ripercorrere tappe di un lungo viaggio che ha qui la sua origine e il suo punto di arrivo.

Ti addentri in un percorso circolare, ed è così che cominci a girare, come quella pala che amalgamava il latte in caldaia. Quasi come se impastassi gesti, pensieri, parole, che a poco a poco prendono forma.

Un lento, silenzioso sprofondare in una quotidianità che aveva i volti di contadini e allevatori, impegnati a condividere la speranza, perché quel lungo periodo di attesa regalasse una gratificazione all'estenuante lavoro.

Quei continui turnari si portavano dietro momenti di intima convivenza, che giorno per giorno si rinsaldava fra i membri di una piccola comunità, tenuta unita da un profondo spirito di cooperazione.

La loro vita era scandita da incessanti fasi di lavorazione, sempre così uguali eppure, ogni volta, così preziose. Una continua scansione di operazioni, che dal momento dell'affioramento del grasso avrebbero portato, finalmente, alla stagionatura. Sperando che San Lucio, dall'alto, desse loro una mano.

E sì, perché alla fine si doveva pur riuscire a vendere quei prodotti. Il proprietario del caseificio lo appaltava, dietro compenso.

Un edificio davvero piccolo il "Castlass", addossato al muro di cinta che circondava l'immenso ombroso parco della Rocca, a ridosso del Castello, che rappresentava un punto di riferimento da sempre. Da quando, nel Settecento, la famiglia Meli Lupi aveva impresso nella pianura padana un timbro che allora aveva otto punte a darle il contrassegno. Circondato da un colonnato esterno, con una tettoia che serviva a conservare il legname per alimentare la caldaia. Colonne che Bonifacio volle poi riportare all'interno.

Una famiglia, quella dei Meli Lupi, con cui il casaro e i suoi cari avevano instaurato un mutuo rapporto, nato dalla necessità, ma che in fondo si nutriva di stima e fiducia.

Quasi che quelle partite a carte con la principessa, la sera al "Castlass", dopo una giornata di lavoro, aggiungessero un ingrediente segreto: l'amicizia, che aiutava a tenerli uniti in un progetto comune, per cui lottare e credere ogni notte, prima di addormentarsi sotto le coperte.

Pensando comunque già al giorno seguente, che sarebbe iniziato all'alba, fra il canto del gallo, i rintocchi delle campane della chiesa di San Giacomo e le urla dei cinque bambini che correvano per casa.

Colazione con uova, che d'inverno si tenevano nella sporta, colma di frumento d'orzo, affinché si mantenessero dai mesi precedenti. Cosa vuoi farci, le galline anche loro soffrono quel freddo così pungente, in quelle giornate che sprofondano nella nebbia, da cui sembra di non uscirne più.

Il casaro, invece, non fermava la produzione. D'inverno trovava calore grazie alle sei caldaie che circondavano l'officina casearia. D'estate, invece, l'unico luogo dove poteva trovare il benedetto refrigerio era il magazzino sotterraneo, fra le vasche della salatura a secco, colme delle acque di Salsomaggiore.

Oggi, in quelle vasche sono contenuti i ricettari tipici di una tradizione culinaria che ha come ingrediente base proprio quel formaggio. Davvero tante, e tutte diverse, le ricette di quei piatti.

Pensare infatti che, quando i cinque incontenibili maschietti partivano per andare a scuola, la "Nicén" già pensava a cosa preparare per pranzo.

Così, fra un bicchiere di lambrusco e le battute dell'allegra brigata, di nuovo radunata per un momento di comunione, Amilcare scopriva che quello per cui stava lavorando aveva un sapore che parlava anche di lui.

Se è vero che ognuno di noi è in fondo anche un po' quello che fa, lui sentiva allora che un sentimento di soddisfazione misto a orgoglio lo pervadeva. Aveva fatto qualcosa di speciale e lo condivideva, prima di tutto, con quei cari che gli stavano vicino, sempre, con maggior affetto in quei momenti più duri, quando non sapeva per che cosa doveva tanto attendere. Momenti di sconforto che non mancavano mai, puntuali come le fasi di lavorazione, ma che per fortuna, con quel sarcasmo mordace che lo caratterizzava, riusciva a sdrammatizzare e scacciare.

Ma sì, "Dio bono", che vuoi che sia, alla fine la sua giornata si arricchiva soprattutto di incoraggiamenti e gioie, che le carezze della "Nicén" e gli occhi vivaci di quei bimbi gli infondevano.

Quando, troppo presto, se ne andò per sempre dal "Castlass", non risuonavano per le stanze del caseificio, come oggi accade mentre ti avvii alla porta d'uscita, le note di una dolce e malinconica melodia. La vorresti riportare allo spartito di Verdi, ma in realtà, non ha tale artificiosa corrispondenza. Sarebbe come imporre all'atmosfera una razionalità che le è estranea.

Mentre cammini, lungo il sentiero oggi asfaltato, che attraversa quella tessitura verde smeraldo, intessuta di filari che svaniscono all'orizzonte, pensi che quella che hai trascorso poco prima dentro quelle stanze è storia di un passato, che in fondo conoscevi, e avevi solo bisogno di rivivere.

Il bisogno che ti ha portato sino a qui, è stato forse lo stesso che tempo fa aveva richiamato quei cinque bimbi, alla ricerca del loro vissuto.

In quel luogo ancora intatto, il profumo di cagliata si stempera nell'aria. Ed è pur sempre memoria, anche quello.

 

Museo del Parmigiano Reggiano

Soragna (Parma), Corte Castellazzi, via Volta 5

telefono: 0521228152

www.ibc.regione.emilia-romagna.it/h3/h3.exe/amuseier

www.museidelcibo.it/parmigiano.asp

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