Rivista "IBC" XIII, 2005, 4

Dossier: 6000 caratteri per un museo - Luoghi d'incontro e nuove narrazioni nei musei dell'Emilia-Romagna

musei e beni culturali, dossier /

Nella stanza dei mostri

Esther Di Raimo
[Liceo classico "Ariosto-Spallanzani", Reggio Emilia]

Un lunedì qualunque nella stanza dei mostri. Vincenzo, "Vin" per alcuni amici, "il custode con il cappotto prugna" per tutti gli altri, leggiucchiava la rubrica di poesia di un settimanale raccattato al bar. "Guardatevi dal versicolo", tuonò nella sua mente il sottotitolo, con voce da uccello notturno. E i versicoli divennero piccoli animali striscianti e infidi, che bruciano la pelle seminando morte a mille zampe. Ce n'era qualcuno, tra le innumerevoli bestiole fluttuanti in formalina, dietro alle vetrine in stile liberty dell'ala scientifica? Lo avrebbe cercato; altrimenti avrebbe comprato uno di quei vasetti per le uova in salamoia, mezzo etto di frattaglie di pollo e avrebbe fabbricato una nuova, terribile specie; per i posteri, per quei figli e nipoti che non avrebbe mai avuto o che non avrebbe avuto voglia di conoscere. Perché scrivessero libri e canzoni sugli infernali versicoli e sul loro tempo lontano, quando la gente aveva veri nemici da combattere e non doveva perdere tempo a crearsi da sola i mostri.

Ci stava giusto giusto un'altra anomalia, lì nello scaffale di mezzo, tra il pesce atrofico e l'affarino rosa rannicchiato, con uno dei quattro arti alzato verso la testa, il minuscolo pugno serrato, l'abbozzo di pollice che sembrava allungarsi a sfiorare la bocca. A pensarci bene, Vin non capiva cosa ci fosse di anomalo in quell'esemplare; più lo guardava, più gli sembrava che stridesse con tutti gli orrori di cui era circondato. Ma se la direzione l'aveva piazzato lì, doveva esserci un motivo di ordine strettamente scientifico. Non la coda, però. Aveva rigirato la capsula da tutte le parti, e di questo era sicuro: l'affarino non aveva la coda. Forse era un vampiro; sarebbe stato bello, perché, e che i posteri pensassero quello che volevano, anche Vin aveva un bisogno morboso di nemici immaginari. Ma davvero i vampiri sarebbero stati suoi nemici? Ne dubitava; piuttosto, sarebbe passato dalla loro parte e avrebbe bevuto più sangue di qualunque altro essere diabolico mai esistito.

Ma che cosa stava dicendo? Si abbandonò con la testa contro lo schienale della poltroncina e il suo sguardo incontrò i quattro occhi gialli del vitello a due teste; lo fissò come faceva durante la maggior parte dei suoi lunedì al museo. Da qualche tempo, aveva preso l'abitudine di parlare al mostriciattolo e gli raccontava le sue cose personali, come alla statua di un dio; la testa di destra era maschio, quella di sinistra era femmina. Con i loro musi pelosi rivolti uno di qua e uno di là potevano avere una visione a 360 gradi di qualsiasi cosa: quel vitello androgino era l'ascoltatore più autorevole che Vin avesse mai avuto. È difficile, si sa, che un animale impagliato possa intervenire in una conversazione; ma sembrava proprio che parlassero, quelle due bocche morte, ogni volta che la loro espressione si trasformava sotto i cambiamenti di luce, nell'approssimarsi del mezzogiorno. Il custode con il cappotto prugna interpretava quelle smorfie con la fantasia di una sibilla. Se non fosse stato così pigro, avrebbe travasato tutti quei vaneggiamenti dal proprio cervello a un ammasso di carta e ne avrebbe fatto una specie di libro, una di quelle opere all'avanguardia che neanche lo scrittore sa cosa vogliono dire, però se vendono bene ci si comprano migliaia di cappotti prugna.

La stanza dei mostri gli pareva uno sfondo perfetto per un racconto; ricordava, come atmosfera, lo studio di quel medico che lavorava a imbalsamare cadaveri e li teneva con sé, finché una notte non si misero a cantare e parlottarono per un quarto d'ora, poi tornò tutto come prima. Mummie che chiacchierano? A Vin non avrebbero fatto nessun effetto, abituato com'era a vedere i suoi mostri immortali, scoiattoli con code lunghe due metri, che stavano lì a fissarti con i peli mossi dalla corrente. Gli mancava solo la parola, e chissà cos'avrebbero avuto da raccontare, sulle loro vite mostruose! Non che quella di Vin fosse così convenzionale. A volte, pensava che avrebbe dovuto cambiare lavoro e trovarsi una ragazza; una ragazza normale, mediamente magra, mediamente bionda e mediamente alla moda. Non sarebbe stato divertente, ma sarebbe stato sano; l'avrebbe fatta finita con quel delirio di versicoli, vampiri, vitelli bisessuati. Il romanzo incomprensibile lo poteva scrivere lo stesso, ispirandosi all'amore banale per una donna banale. L'avrebbe pubblicato con una copertina prugna.

Adesso, però, c'erano ancora quei lunedì: lunedì di noia e di riflessione fino alle undici, lunedì di sudore dal momento in cui entrava Greta. Greta non era né normale né bionda; aveva dieci collane verdi e arrivava con fogli e carboncino, per ritrarre i mostri. Stava lì di nascosto nel giorno di chiusura, quando non c'erano neppure le scolaresche. Si salutavano, poi Vin continuava a far finta di leggere, porgendo l'orecchio alle falcate della mano di lei e al suo respiro; la interrompeva ogni tanto con una battuta, un commento, una domanda, tanto per cancellare quel silenzio che sembrava li potesse inghiottire. La settimana prima le aveva detto: "Dovrai regalarmene uno, prima o poi, di questi disegni". Lei aveva riso, aveva detto di sì e si era sistemata a sedere, iniziando a lavorare con lo sguardo rivolto verso il vitello, più o meno. Vin aveva pensato che un ritratto a carboncino del suo mostro preferito, con la firma nera e decisa di Greta nell'angolo in basso a sinistra, sarebbe stato perfetto da appendere nella sua casa nuova. La casa nuova che voleva cercarsi, cioè.

Ma, quel giorno, lei lo stupì. Ripose il cartoncino in un astuccio di legno, sollevò il foglio e si voltò verso di lui, sorridendo: "Ecco qua, Vin" - disse - "Questo è il disegno che ti avevo promesso. L'ho fatto pensando a te. È così che io ti vedo". Vin guardò: non era il vitello a due teste. Forse non era neppure un mostro. Era l'affarino nella capsula, che si sfiorava la bocca con un dito. All'improvviso, Vin si rese conto di assomigliargli molto: dopotutto, neppure lui aveva la coda.

 

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